Proviamoci: cominciamo a guardare il lavoro con occhi diversi, chiediamoci come nella nostra vita creiamo relazioni sociali, dove nelle pieghe della precarietà si nascondono forme di resistenza creativa, e ancora cosa potrebbe cambiare con il reddito di cittadinanza, quale relazione lega patriarcato e capitalismo. E, soprattutto, non smettiamo di cercare intorno a noi e nella storia non scritta, tra gli scarti e i rimossi, “contronarrazioni”, altri modi di fare società. Non accontentiamoci della storia e delle ricette di quelli che vincono. “La storia è piena di culture alternative e ribelli a forte presenza femminile”, scrive Nicoletta Cocchi. Si tratta di allenare ogni giorno il nostro sguardo “all’indietro e di lato, per muovere un passo in avanti”
di Nicoletta Cocchi*
Verso la fine del secolo scorso André Gorz scriveva a proposito dei cambiamenti in atto nelle nostre società che bisogna aver voglia di afferrare ciò che cambia, e imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente. Esortava poi a distinguere i contorni di questa società altra dietro le resistenze, le disfunzioni, i vicoli ciechi di cui il presente è fatto.
“Occorre che il lavoro perda la centralità nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione di tutti: bisogna imparare a guardarlo con occhi diversi, non pensarlo più come qualcosa che si ha o che non si ha; ma come ciò che facciamo. Bisogna osar volere riappropriarci del lavoro”. (André Gorz, Miserie del Presente Ricchezza del possibile, Manifesolibri, 1998)
Seguendo una pratica di pensiero cara alle donne, vorrei allora partire da me, dal lavoro che non ho e dal lavoro che faccio. Sono le 9 del mattino e sto tentando di dar forma a pensieri che ruotano intorno al senso del lavoro: una scrittura interrotta, ripresa e trattenuta che non si è data alcun obbiettivo di raggiungere un risultato. Nessuno me lo ha ordinato, non ho in mente un’opera, non c’è nessuno che prema per avere un prodotto finito. La si potrebbe più definire una tenacia quotidiana che passa nell’affermare un movimento di vita volto a suscitare attenzione, pensiero, riflessione, conoscenza, soggettività. Più tardi preparerò una proposta di traduzione di un testo per un editore, quindi mi occuperò di varie attività di riproduzione di vita quotidiana, spesa, burocrazie, pranzo. Gran parte del pomeriggio lo dedicherò a mio padre anziano: visita medica, ritiro di documenti, lavori di cura di vario genere. Al ritorno, risponderò ad alcune mail per un’iniziativa da svolgere con l’associazione di donne di cui faccio parte, dopodiché finirò il testo di un progetto a cui sto collaborando. Poi, di nuovo, varie attività connesse alla cura. Questo è il lavoro che faccio e non il lavoro che ho. Non è una differenza da poco, vedremo perché.
Se paragoniamo il mio lavoro a quello “regolare”, balza subito agli occhi che il mio non corrisponde a una funzione identificabile socialmente, non ho competenze definite e non seguo procedure determinate. Il mio non è cioè un mestiere o una professione, non è controllato e non soggiace a norme, né a orari e a scadenze – per quanto debba comunque rispettarli – non si colloca nella sfera pubblica pur rientrandovi a tutti gli effetti. È un lavoro flessibile, autonomo, molto precario, fatto di economie informali, che si potrebbe collocare da un lato nella categoria “lavoro della conoscenza”, dall’altro in una più generica e meno altisonante “lavoro domestico”. Dunque, per tutti questi motivi non è regolarmente remunerato, e non è fonte di diritti di cittadinanza sociale ed economica. Come dire, i vantaggi di cui godono le persone normalmente occupate – sussidi, cassa integrazione, prestiti, diritto alla protezione sociale, diritto di rappresentanza – sono negati a chi svolge attività di questo tipo. È un lavoro che vale di meno in sostanza. Per molti versi è più desiderabile di un impiego, il quale spesso vale unicamente per i diritti e i poteri a cui dà accesso e non per il senso, l’utilità o la soddisfazione che procura. Diritti sociali, politici, economici, i cosiddetti diritti di cittadinanza, restano ancora oggi legati ai soli impieghi, diventati una merce sempre più rara e per la quale bisogna essere pronti a fare sacrifici e concessioni di tutti i tipi, della propria dignità in primis. Se a questo aggiungiamo che la cittadinanza femminile resta ancora oggi un ossimoro, e che nelle sue forme più o meno compiute resta legata a una visione familista – e io sono single – il cerchio si chiude.
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Se mi piace pensare, riflettere, scrivere, dedicarmi ad attività sociali e cooperative non è per un semplice gioco o un lusso da intellettuale, è un modo per stare connessa, comunicare, condividere, esserci, ed è anche il mio modo di creare relazioni sociali. “Non lavorare” può anche isolare o “umiliare”, in fondo è ancora il modo in cui la maggior parte delle persone organizza la propria vita e le proprie relazioni. E svolgere attività di cura e di riproduzione della vita è una necessità a cui difficilmente posso sottrarmi.
In questa cosiddetta fase ultima del capitalismo, che ultima poi non è mai, le attività scelte, e con esse il tempo scelto sono sempre più frequenti da quando si è reso evidente l’imbroglio che non vi sarà mai più abbastanza lavoro remunerato, stabile, a tempo pieno per tutti. Il vincolo sociale è ormai sempre meno determinato dal lavoro e, come affermano i sociologi, la figura che viene profilandosi è quella di un lavoratore disperso, frammentato, incerto nelle aspettative, aleatorio nelle esperienze. Diversa è la figura della “lavoratrice”, che per quanto soggetta agli stessi disagi è pur sempre entrata nella scena del mercato del lavoro con un portato storico-esistenziale differente, data la sua ambivalenza di riproduttrice della specie e delle condizioni di vita ma anche di produttrice di beni/mezzi di sussistenza. Un’annosa questione, che nelle analisi critiche femministe ha preso il nome di “doppia presenza” o “doppio lavoro”, alias acrobazie spazio-temporali per convenire alla sua “naturale” ambivalenza di produttrice e riproduttrice della forza lavoro. Alla base resta insomma il groviglio rimosso di un antico contratto sessuale, poi diventato sociale, “un diritto sessuale maschile privato e subordinante prima di ogni libertà civile ed egualitaria” (Carole Pateman, Il contratto sessuale, Moretti&Vitali Editori, 2015). Non voglio qui ripercorrere la diversa storia del rapporto delle donne con il lavoro né tantomeno avventurarmi nel difficile e contraddittorio rapporto che le donne intrattengono con la cittadinanza, ma solo rimarcare come produzione di relazionalità, soggettività, linguaggio, senso, cura, simbolico – il tempo ‘altro’ entro il quale si manifesta una soggettività produttrice di cooperazione sociale indispensabile al capitale per riprodursi – siano da sempre il pane quotidiano delle donne. È solo oggi che lo vediamo, perché quegli elementi sono diventati essenziali nelle modalità di produzione postfordista. Non a caso in questi ultimi tempi si è parlato tanto di femminilizzazione del lavoro e di riproduzione produttiva. Questo, per dire che la storia del rapporto delle donne con il lavoro multifunzionale, ma più propriamente con il lavoro del fare società – che è anche lavoro di civiltà – è in qualche modo paradigmatica, perché da sempre è la storia del “lavoro che si fa e non di quello che si ha”. Una sapienza millenaria che non ha ancora ricevuto riconoscimento sociale o diritti di cittadinanza consoni, e che mai potrà riceverli fin quando non si tramuterà (quella sapienza) in enunciati che aprono nello spessore del discorso lo spazio di un soggetto con la sua azione, la sua realtà, il suo sapere. Sia il paradigma economico neoclassico sia quello marxista ripropongono nelle analisi la subordinazione della categoria di riproduzione a quella di produzione, dando cioè priorità alla produzione di merci su qualsiasi altra attività, senza minimamente mettere in discussione l’idea di individuo che vi sta dietro, che rimane neutro, alias maschile, indipendente, proprietario.
Come spesso è accaduto lungo questi innumerevoli secoli di patriarcato, le donne hanno per prime avvertito le urgenze di vita che premevano da tutti i lati, dando corso a contronarrazioni, visioni alternative, spinte sovversive e radicali, salvo poi in molti casi essere cooptate per costrizione o per lusinghe ora della chiesa, ora dello stato, ora del mercato. Ma altrettanto spesso esse sono rimaste altrove. Negli spazi asimmetrici di un’altra economia del senso, della relazione, del tempo, fuori dai rapporti di potere costituiti. È anche così che si spiega il nomadismo che spesso caratterizza il rapporto delle donne con il lavoro, nomadismo che oggi si impone più come una condanna che come una libera scelta: entrate e uscite dal mercato, mobilità, dimissioni al vertice della carriera, oscillazione tra rifiuto ed esclusiva dedizione al lavoro, estraneità a rivendicazioni di tipo economico a favore della qualità delle attività, abbandono del lavoro per la ricerca di altre esperienze. Ed è anche per questo che le donne, differentemente dagli uomini, non vivono in modo così tragico la perdita di identità legata al lavoro. Sanno quanto sia restrittivo muoversi sul filo di quella logica. Lo spiegano bene le riflessioni e le pratiche prodotte dai movimenti delle donne negli anni Settanta, quando propongono un modello politico di vita che valorizza “un altro tempo” – diverso dal tempo-merce del lavoro retribuito – il solo tempo socialmente e giuridicamente riconosciuto. Non è un caso che la richiesta di un salario domestico attraverso cui riconoscere il valore della “risorsa sociale del femminile” sia stata ripetutamente avanzata poi ritirata dalle donne, non rientrando a pieno titolo nella loro agenda. Chi avrebbe dovuto pagare quel salario? Lo stato sarebbe diventato il nuovo datore di lavoro? Alla base rimane la consapevolezza che si tratta di remunerare un lavoro difficilmente misurabile con i parametri dell’economia tout court. Ciò che sostanzialmente rimane in gioco è una diversa articolazione del tempo, un tempo che non può essere valorizzato unicamente in quanto unità di misura del lavoro. Lì entrano in campo relazioni, affetti, saperi, intelligenze, esperienze altre. Serve dunque altro. Un altro modo di fare società, in cui relazione, reciprocità dipendenza costruiscano altri orizzonti di vita. La proposta oggi di un reddito di cittadinanza, di esistenza, di base, alias reddito minimo garantito, reddito incondizionato, di inserimento, o quant’altro, sono i tanti nomi, i diversi pesi e misure per dire la necessità di mettere in comune la ricchezza della produzione della riproduzione legata alle trasformazioni del sistema produttivo di cui siamo parte. E, contemporaneamente, la risposta per ridisegnare lo statuto delle garanzie non solo del lavoro ma anche della cittadinanza.
Ma reddito di cittadinanza incondizionato o salario domestico non possono, da soli, risolvere la dimensione politica della vita, e in particolare, la dimensione politica dell’agio femminile del vivere, che è un’altra mappa di ordine e di senso da quella che si configura nella polis patriarcale. È di un altro patto sociale che abbiamo bisogno. Un patto che ci sottragga agli antichi assetti e che non tamponi soltanto le falle attraverso la trasformazione e l’assunzione della qualità della differenze, femminili in primis, mettendole al lavoro.
Nel corso di questi decenni il pensiero critico femminista ha prodotto una rilettura del lessico politico risignificandolo e mettendo in campo pratiche che hanno dimostrato che la politica non si riduce all’esercizio strumentale del potere. Sono pensieri e pratiche che pur nella differenza di posture sono accomunate dall’idea che la politica si fa spazio in noi coinvolgendoci soggettivamente attraverso le relazioni e non i rapporti di forza, pur agendo in molti modi il conflitto. Entrare nel mondo attraverso una forma di cittadinanza che integra la nostra differenza non può bastarci, bisogna entrarci con i nostri saperi materiali e spirituali, le nostre esperienze, intelligenze, abilità, libertà e limiti, aldilà delle rivendicazioni, tutele e restituzioni, che pure servono. Solo così potremo contendere significato agli istituti della tradizione maschile di governo e al loro esercizio del potere, delle tecniche del diritto e della rappresentanza.
Più in generale, il patriarcato è un sistema di relazioni di potere strettamente legato al capitalismo, un binomio che per sostenersi ha dovuto fondarsi su diverse categorie di colonie: le donne, gli altri popoli, la natura. I cambiamenti prodotti dal capitalismo nella sua fase ultima toccano i valori fondanti di ciò che sono state fin qui le società patriarcali. Obbligano a ridefinire in che cosa possa consistere il legame sociale tra umani, ma anche tra non-umani, riposizionando luoghi e modalità di come si produce società. Servono anche nuove narrazioni dalla trama diversa, complessa e non lineare, molteplice, una nuova storia per rimettere a fuoco la memoria collettiva. Per scompigliare gli archivi della storia lineare aldilà dell’universalismo della narrazione neutra – sempre fondata su una procedura del vero inseparabile dalla procedura che la definisce. Lì, tra discontinuità, tagli, scarti e rimossi possiamo trovare anche altri modi di fare società. La storia è piena di culture alternative e ribelli a forte presenza femminile, di spinte sovversive con cui il vincitore ha dovuto prima fare i conti, di contronarrazioni, rivolte, visioni antagoniste, e anche di forme sociali non patriarcali, se solo vogliamo allenare il nostro sguardo all’indietro e di lato, per muovere un passo in avanti.
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* Traduttrice, operatrice culturale, esperta in questioni di genere, libera ricercatrice
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