Nelle strutture di dominio su larga scala i subordinati hanno sempre una vita sociale piuttosto intensa che si svolge fuori del controllo diretto del dominante. È in questi ambienti separati che spesso prende forma una critica comune della dominazione. Seguendo questa traccia, James Scott ha suggerito come le storie e i canti popolari, le barzellette e il teatro dei senza potere ma anche i pettegolezzi, le dicerie e i mugugni sono veicoli tramite i quali coloro che vivono in basso alimentano una critica del potere nascondendosi dietro l’anonimato o dietro interpretazioni innocue del proprio comportamento. Tali modi di ribellarsi al potere si affiancano ad altri non sempre riconosciuti come tali dalla storia ufficiale, come il bracconaggio, la pigrizia, i furtarelli, le fuga: tutte insieme, queste forme di insubordinazione possono essere definite l’infrapolitica dei senza potere. La grande lezione di Scott – per anni Docente di Scienze politiche e Antropologia all’Università di Yale, noto per il suo straordinario Il dominio e l’arte della resistenza (di cui pubblichiamo la prefazione), scomparso nei giorni scorsi all’età di 88 anni – ha contribuito a cambiare concetti fondamentali come rivoluzione, movimenti sociali e speranza, legandoli alla vita di ogni giorno delle persone comuni
Quando passa il gran signore, il saggio villico fa un profondo inchino
e silenziosamente scoreggia
(Proverbio etiope)
“La società è un animale misterioso con molteplici volti
e potenzialità nascoste, ed… è un atteggiamento assai miope
ritenere che il volto che ci viene presentato in un certo momento
sia l’unico. Nessuno di noi conosce tutte le potenzialità
che sonnecchiano nell’animo del popolo“
(Václav Havel, 31 maggio 1990)
L’idea che sta all’origine di questo libro si è sviluppata in seguito ai miei sforzi, persistenti ma scarsi di risultati, per comprendere le relazioni di classe in un villaggio malese. Le testimonianze che ascoltavo su passaggi di proprietà, salari, considerazione sociale e cambiamenti tecnologici, erano discordi. In sé, ciò non era particolarmente sorprendente, dal momento che gli abitanti di villaggi diversi potevano avere interessi contrastanti. Il problema era che gli appartenenti a un medesimo villaggio a volte contraddicevano se stessi! In seguito, però, mi sono reso conto che le contraddizioni sorgevano soprattutto, anche se non solamente, tra quelli più poveri ed economicamente più dipendenti. La dipendenza appariva altrettanto importante che la povertà, in quanto c’erano alcuni soggetti poveri ma autonomi che manifestavano opinioni coerenti e libere.
Le contraddizioni, inoltre, avevano in sé una specie di logica situazionale. Se prendevo in considerazione, fra i tanti, il singolo aspetto delle relazioni di classe, sembrava che i poveri intonassero un motivo quando si trovavano in presenza dei ricchi e uno diverso quando erano tra altri poveri. E anche il ricco parlava al povero in un modo e ne usava un altro quando era tra i suoi pari. Queste erano le differenze più generali. Ma molte differenze più sottili erano discernibili a seconda della specifica composizione del gruppo che parlava e, ovviamente, anche a seconda dell’oggetto della discussione. Ben presto mi sono trovato a usare questo tipo di logica sociale per fare emergere, o creare, situazioni in cui mi fosse possibile contrapporre un certo discorso a un altro e, per così dire, triangolare il mio percorso all’interno di un territorio inesplorato. Il metodo ha funzionato abbastanza bene per i miei scopi specifici e i risultati sono apparsi in Weapons of the
Weak: Everyday Forms of Peasant Resistance (Yale University Press,
1985), specialmente alle pagine 284-89.
Una volta messo a punto con precisione il modo in cui le relazioni di potere influenzavano il discorso tra malesi, ben presto mi sono accorto che anch’io misuravo le parole di fronte a coloro che avevano su di me qualche tipo di potere significativo. E ho osservato che quando dovevo soffocare certe risposte che non sarebbero state prudenti, spesso trovavo qualcuno a cui potevo esternare i miei pensieri inespressi. Sembrava ci fosse quasi una pressione fisica dietro quelle parole represse. Nelle rare occasioni in cui la rabbia o l’indignazione avevano la meglio sulla mia discrezione, avvertivo un senso di sollievo a dispetto del pericolo di ritorsioni. Solo allora ho potuto apprezzare pienamente perché non fossi in grado di indurre coloro sui quali avevo potere a esprimersi apertamente, nel loro comportamento pubblico.
Non posso assolutamente attribuire alcuna originalità a queste osservazioni sulle relazioni di potere e il modo di parlare. Esse sono patrimonio della saggezza popolare quotidiana di milioni di persone che passano la maggior parte del loro tempo di veglia in situazioni condizionate dal potere, dove un gesto mal posto o una parola di troppo possono avere conseguenze terribili. Ciò che ho cercato di fare qui è stato di approfondire questo approccio in modo più sistematico, quasi con ostinazione, per vedere cosa esso possa insegnarci sul potere, l’egemonia, la resistenza e la subordinazione.
L’ipotesi da cui sono partito per l’organizzazione di questo libro è che le condizioni più estreme di mancanza di potere e dipendenza possono essere diagnostiche. La maggior parte delle testimonianze, qui, è tratta da studi su schiavitù, servitù o subordinazione di casta, nel presupposto che le relazioni tra discorso e potere risultano più evidenti laddove la divergenza tra ciò che io chiamo «verbale pubblico» (public transcript) e «verbale segreto» (hidden transcript) è maggiore. Dove è sembrato potesse dare un
contributo, ho anche introdotto esempi tratti dalla dominazione patriarcale, dal colonialismo, dal razzismo e anche da istituzioni totali come le prigioni e i campi di concentramento bellici.
La presente non è un’analisi ristretta, contingente, con una collocazione storica precisa, al pari di ciò che era, di necessità, il mio studio sul piccolo villaggio malese. Nella sua impostazione eclettica e schematica, essa viola molti dei canoni di lavoro postmodernista. Ciò che condivide con il postmodernismo è la convinzione che non esiste collocazione sociale o posizione analitica in base a cui si possa giudicare la veridicità di un testo o di un discorso. Se da un lato ritengo che un preciso lavoro contestuale sia la linfa vitale della teoria, credo anche che si possa dire qualcosa di utile anche trasversalmente a culture ed epoche storiche, purché limitiamo il nostro obiettivo alle similitudini strutturali.
Così, la strategia analitica qui seguita prende le mosse dal presupposto che forme di dominio strutturalmente simili presentano reciprocamente una certa aria di famiglia. Tali rassomiglianze, nel caso della schiavitù, della servitù e della subordinazione di casta, sono abbastanza chiare. Ciascuna di esse rappresenta una struttura istituzionalizzata per l’appropriazione del lavoro o di beni di consumo e servizi a spese di un gruppo subordinato. Sul piano formale, in queste forme di dominio i gruppi subordinati non hanno diritti politici o civili, e il loro status è determinato per nascita. La mobilità sociale, in teoria se non in pratica, è preclusa. Le ideologie che giustificano domini di questo tipo includono presupposti formali di inferiorità o superiorità, i quali a loro volta trovano espressione in determinati rituali e forme di etichetta che regolano il contatto pubblico tra gli strati sociali. Nonostante un certo grado di istituzionalizzazione, le relazioni tra il padrone e lo schiavo, il proprietario terriero e il servo, l’indù di casta elevata e l’intoccabile, sono esempi di un potere personale che lascia ampio margine al comportamento arbitrario e capriccioso da parte di chi sta sopra. In queste relazioni è invariabilmente presente un elemento di terrore personale, che può prendere la forma di bastonature arbitrarie, brutalità sessuali, insulti, umiliazioni pubbliche. Può anche darsi che una certa schiava sia abbastanza fortunata da sfuggire a tali trattamenti, ma la consapevolezza che ciò potrebbe accaderle pervade tutta la relazione. Infine, in queste strutture di dominio su larga scala i subordinati hanno comunque una vita sociale piuttosto intensa che si svolge fuori del controllo diretto del dominante. È in questi ambienti separati che, in linea di principio, può prendere forma una critica comune della dominazione.
Nella mia analisi, la relazione strutturale testé descritta è fondamentale per la tesi che vorrei dimostrare. È fuor di dubbio che non intendo sostenere che schiavi, servi, intoccabili, razze colonizzate e soggiogate abbiano in comune caratteristiche immutabili. Posizioni radicali di questo tipo sono insostenibili. Quanto intendo asserire, piuttosto, è che se è dimostrabile che le strutture di dominio funzionano secondo schemi paragonabili, tali strutture, a parità di condizioni, indurranno reazioni e modi di resistenza anch’esse grosso modo paragonabili. Così, normalmente schiavi e servi non contestano in modo aperto i termini della propria subordinazione. Fuori della scena però, dietro le quinte, è facile che creino e difendano uno spazio sociale dove sia possibile esprimere il proprio dissenso verso il verbale pubblico delle relazioni di potere. Le forme specifiche di questo spazio sociale – mascherature linguistiche, codici rituali, taverne, fiere, ritualità religiose come negli hush arbors (i boschetti del sussurro) degli schiavi – o i contenuti specifici del dissenso ivi espresso – speranza nel ritorno di un profeta, aggressività rituale attraverso la magia, celebrazione di eroi fuorilegge o di martiri della resistenza – sono qualcosa di unico, frutto della cultura particolare e della storia dei partecipanti. Allo scopo di delineare alcuni modelli generali ho deliberatamente trascurato la grande particolarità delle singole forme di subordinazione, ad esempio le differenze tra la schiavitù caraibica e quella nordamericana, tra il servaggio presente nella Francia del diciassettesimo secolo e in quella della metà del diciottesimo, tra il servaggio russo e quello francese, tra le diverse regioni, e via dicendo. Il valore conclusivo dei modelli generali che qui descrivo può essere stabilito solo inserendoli con precisione in assetti storicamente e culturalmente determinati.
Stante la scelta delle strutture prese in considerazione, è evidente che ho privilegiato i temi della dignità e dell’autonomia, che in genere sono visti come tipicamente secondari rispetto allo sfruttamento materiale. Schiavitù, servitù, caste, colonialismo e razzismo generano continuamente pratiche e rituali di denigrazione, insulto e aggressione fisica, che a quanto pare costituiscono in gran parte l’oggetto del verbale segreto delle vittime. Queste forme di oppressione, come vedremo, negano ai subordinati il comune lusso della reciprocità negativa, la possibilità di ripagare uno schiaffo con un altro schiaffo, un insulto con un altro insulto. Anche nel caso dell’attuale classe lavoratrice, a quanto sembra, le offese alla dignità personale e lo stretto controllo subìto fanno parte integrante dello sfruttamento alla pari delle considerazioni più direttamente legate al lavoro e al compenso.
Grosso modo, il mio scopo è suggerire la possibilità di leggere, interpretare e capire con maggiore precisione la spesso elusiva
condotta politica dei gruppi subordinati. Come studiare le relazioni di potere quando chi è privo di potere è spesso obbligato ad adottare un atteggiamento strategico in presenza di chi il potere ce l’ha, e quando il potente può avere interesse a esagerare l’importanza della propria reputazione e superiorità? Se prendiamo tutto ciò per il suo valore apparente, rischiamo di scambiare quella che potrebbe essere una tattica per la verità. Invece, ho tentato un diverso studio del potere che metta in luce contraddizioni, tensioni e possibilità immanenti. Ogni gruppo subordinato crea dalla sua stessa esperienza un verbale segreto che rappresenta una critica del potere mossa dietro le spalle del dominante.
Anche i potenti, da parte loro, sviluppano un verbale segreto che rappresenta le attività e le concezioni del loro dominio che non possono
essere dichiarate apertamente. Mettendo a confronto il verbale segreto del debole con quello del potente ed entrambi con il verbale pubblico delle relazioni di potere si ottiene la possibilità di capire in modo sostanzialmente nuovo la resistenza al dominio.
Dopo un avvio un po’ letterario su George Eliot e George Orwell, ho provato a dimostrare come il processo della dominazione generi una condotta pubblica egemonica e un discorso fuori scena che riguarda ciò che non può essere detto di fronte al potere. Al tempo stesso, ho esplorato l’intento egemonico che sta dietro le manifestazioni di dominio e consenso, chiedendomi a quale uditorio sono dirette tali performance. Questa ricerca porta a sua volta a capire come possa accadere che letture anche approfondite delle testimonianze storiche e archivistiche tendano a favorire un’interpretazione egemonica delle relazioni di potere. In mancanza di una ribellione vera e propria, i gruppi senza potere hanno, a mio avviso, un interesse diretto a cospirare per rafforzare le apparenze egemoniche.
Il significato di queste apparenze può essere compreso soltanto paragonandolo al discorso subordinato che si manifesta fuori delle situazioni condizionate dal potere. Poiché la resistenza ideologica può meglio crescere quando è sottratta alla sorveglianza diretta, siamo indotti a esaminare con più attenzione i siti sociali dove tale resistenza può germogliare.
Se la possibilità di decodificare le relazioni di potere dipendesse dal totale accesso al discorso più o meno clandestino dei gruppi subordinati, gli studiosi del potere (sia storico che contemporaneo) si troverebbero in una impasse. Ma ci viene risparmiato di dover alzare le mani per la frustrazione grazie al fatto che il verbale segreto è tipicamente espresso in modo aperto, anche se mascherato. Seguendo queste linee, suggerisco poi come si possano interpretare le voci, i pettegolezzi, le storie popolari, i canti, i gesti, le battute e il teatro dei senza potere come veicoli tramite i quali, tra l’altro, costoro insinuino una critica del potere nascondendosi dietro l’anonimato o dietro interpretazioni innocue del proprio comportamento. Tali modi di mascherare l’insubordinazione ideologica sono in un certo senso analoghi ai modi in cui, secondo la mia esperienza, contadini e schiavi hanno espresso segretamente la propria lotta per opporsi all’appropriazione materiale del loro lavoro, della loro produzione e della loro proprietà: bracconaggio, indolenza, furtarelli, dissimulazione, fuga. Tutte insieme, queste forme di insubordinazione possono adeguatamente essere definite l’infrapolitica dei senza potere.
Infine, credo che il concetto di verbale segreto ci aiuti a capire quei rari momenti di effervescenza politica quando, spesso per la prima volta, esso viene espresso apertamente e pubblicamente in faccia al potere.
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Docente di Scienze politiche e Antropologia all’Università di Yale, James Campbell Scott ha condotto le sue ricerche sul campo soprattutto nel Sud-est asiatico. Nella seconda metà degli anni Settanta si era trasferito a Durham, in Connecticut, dove tra una lezione allevava pecore nella fattoria aperta insieme alla moglie. Autore di numerosi libri tradotti in tutto il mondo, in italiano sono usciti Le origini della civiltà. Una controstoria (2018) e L’arte di non essere governati. Storia anarchica degli altopiani del Sudest asiatico (2020) per Einaudi e Il dominio e l’arte della resistenza (2021 n.e., la cui versione originale è stata scritta nel 1990), Elogio dell’anarchismo (2022 n.e.) e Lo sguardo dello Stato (2019) per elèuthera.
Scrivono i nostri amici di elèuthera:
“Il contributo di Scott, frutto della sua quarantennale ricerca sul campo nel Sud-est asiatico, rimane uno snodo fondamentale del pensiero contemporaneo sia per le ricerche legate a quella specifica area geografica sia per l’analisi, profonda e innovativa, delle relazioni di potere. Un’analisi in grado di aprire prospettive di interpretazione inedite sull’impatto che il processo di formazione e affermazione degli Stati moderni ha avuto sulle pratiche di autorganizzazione dal basso delle comunità e sulle modalità di resistenza che queste ultime hanno saputo opporre…”
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