Dopo aver provato ad usare la moneta come volano per una unione politica europea, adesso è il turno della guerra. “La variabile, non prevista, non calcolabile, che può fare irruzione – scrive Luca Casarini – e scompaginare le carte già preparate di questo gioco truccato dalla macchina dell’accumulazione capitalistica, siamo noi. Donne, uomini, che abitano in basso o più in alto nei livelli, ma che non si rassegnano all’unico mondo possibile, quello dell’Apocalisse come promessa e dell’Apocalisse come minaccia…”

Le due guerre mondiali, che insieme a rivoluzioni, cultura, scienza e tecnica, sono anch’esse nate dall’Europa e costituiscono insieme la più grande carneficina umana mai accaduta nel pianeta terra, hanno avuto come anticipo protezionismo, sovranismi, spinte alla guerra commerciale e di accaparramento di risorse. La presidenza statunitense, per tentare di reagire a un indebitamento colossale e seri problemi di competizione con altre potenze della scena globale, ha ricreato attraverso i “dazi”, il clima di guerra. Tutti contro tutti, intanto, perché gli interessi sono quelli della nazione, che non coincide con chi abita e lavora entro i suoi confini. Il clima di guerra dei dazi, è stato accompagnato dal clima di guerra interno, istituito con ordini esecutivi, che ha innanzitutto lo scopo di “governare” la guerra civile interna, che è il vero timore di ogni Stato (Machiavelli).
Il clima di guerra esterno, il tutti contro tutti rappresentato dai dazi, deve però essere governato anch’esso: il maggior rischio è quello che si percepisca nelle opinioni pubbliche, ciò che probabilmente va più vicino alla realtà che stiamo vivendo, e cioè che non vi è alcuna idea, da parte di nessuno dei comandanti in capo, in primis quello statunitense, di come possa andare a finire. Non si può dire, ma si vive alla giornata anche dallo studio ovale, seduti su una polveriera, cercando di fare attenzione che qualcuno non butti un mozzicone acceso mentre fa finta di saper governare il mondo.
La guerra dei dazi, che serve a far percepire il mondo in guerra anche dove non risuonano i colpi di artiglieria pesante, ha come antidoto al contraccolpo interno che potrebbe portare alla guerra civile, il rifinanziamento dell’economia tramite la vendita di armi a tutti coloro che nel clima di guerra, che spinge a proseguire e non a concludere anche le guerre in corso, si lanciano nel riarmo degli Stati e dei volonterosi club di candidati a guidare nuove alleanze. Il 64 per cento di tutte le armi che serviranno al riarmo, le venderanno gli Stati Uniti a tutti gli altri, al di là del luogo di produzione. Sono infatti i brevetti e i dispositivi tecnologici più avanzati all’interno delle macchine di morte, il vero valore, non le carcasse degli strumenti. Dunque, la guerra civile interna, con la quale il comandante in capo ha a che fare, viene dapprima “orientata”, mettendosene a capo e indicando nello “straniero interno” il nemico sul quale scagliarsi, e poi “governata” attraverso un rifinanziamento dell’economia individuato nei tre assi strategici: AI, energia, armi di distruzione di massa.
Questo tentativo di “governo della guerra civile”, si comprende bene se si osserva come è stato trattato Capitol Hill, un assalto con morti e feriti, con bombe pronte ad esplodere etc, da Trump: un atto eroico, di guerra civile assunta come legittima dal presidente in carica, e con la grazia agli “ostaggi” finiti nel frattempo in galera per averla praticata. Non è radicalismo questo, di una destra golpista vecchia maniera: è una strategia politica del tempo nel quale gli Stati dovranno fare i conti con la guerra civile come ipotesi concreta, spinta dall’aumento della povertà e dal taglio del welfare, che fanno da corollario in ogni angolo dell’Occidente, a questa nuova fase del capitalismo globale finanziarizzato.
Tornando agli insegnamenti del passato, la guerra contro altri Stati e altri poteri, è sempre stata un antidoto insostituibile al pericolo della guerra civile interna. Oggi mi sembra che il tentativo da parte dei comandanti in capo, sia quello di assumere la prospettiva di guerra civile interna, come una cosa con la quale non solo saper convivere, ma addirittura governare con essa, domandola, direzionando la sua furia perché aumenti gli elementi di controllo e comando invece che metterli in discussione. Altri hanno scritto sulla tendenza alla guerra civile globale, a me sembra non solo che abbiano ragione, ma che ci siamo già. Il laboratorio statunitense e anche quello europeo che si sta formando dall’alto in questa situazione, andrebbero considerati proprio per il tentativo di introduzione nello schema imperiale e nazionalistico insieme, globale e protezionistico allo stesso tempo, del “governo della guerra civile”, scatenata da diseguaglianze e compressione dei diritti che possono solo crescere in Occidente nel prossimo futuro.
Il rifinanziamento dell’economia Usa tramite la vendita dei sistemi di distruzione di massa, non sarebbe potuto avvenire senza che tutti si riarmassero. La guerra in Ucraina, dovuta all’invasione di un esercito di un altro impero, è stata inserita anch’essa in questo schema: è uno dei simboli, maledettamente tragici e concreti per milioni di esseri umani, della guerra globale permanente e dei suoi attori. Il “negoziato” di Trump e in particolare l’imposizione della spartizione come bottino di guerra -territori a Putin, terre rare agli Usa – mostra chiaramente, senza l’ipocrisia “democratica“, che la guerra è innanzitutto un business. Putin mandando a farsi massacrare mezzo milione di soldati che ha prelevato da regioni come la Siberia, mica da Mosca o da San Pietroburgo, ha ottenuto quella sedia al tavolo con Trump.
Ora è chiaro che tutto questo accade con noi dentro, e anche se volessimo fuggire su Marte, non ci riusciremo (anche perché nemmeno Marte come sappiamo, sarà un luogo tranquillo e disponibile fra non molto). A diverse distanze, il “popolo”, quello che sta in basso, che vive all’ultimo livello sottoterra e respira finché quelli dei piani alti non chiudono gli areatori, e quello che via via abita più su, verso la superficie, è dentro tutto questo. E se gli attaccano la casa sparando da un carro armato, come in Ucraina, magari prova a resistere. Ma se la sua resistenza viene inghiottita dalla guerra fra Stati, non vi è più verso di salvarla, di preservarne il senso profondo di giustizia che ogni resistenza a un esercito invasore che colpisce i civili per imporre con la forza brutale il suo dominio, possiede. La lettera di Ocalan, con la quale chiede ai suoi la fine della resistenza armata “contro un altro Stato”, a questo proposito rappresenta un enorme contributo politico e culturale.
L’Italia, come riporta il Sole 24 ore, ha aumentato dal 2023, del 138% l’esportazione di armi, diventando il primo paese al mondo per livello di incremento di questo business di morte. Pensavo prima di leggere l’articolo, che fosse per l’Ucraina. Manco per sogno. Abbiamo riempito il Medioriente, abbiamo armato fino ai denti l’Egitto ad esempio, che è una dittatura militare. Come noi, un po’ meno bravi ma sempre ad alto livello, tutti gli altri nostri alleati. Dunque noi riempiamo il mondo di armi, e poi ci riarmiamo perché la situazione diventa “pericolosa“. Il riarmo tedesco, è l’ultima volta che è successo non è andata molto bene, deve recuperare la crisi del gas (perché con Putin, fino all’altro ieri, nonostante la Georgia, nonostante la Cecenia, nonostante Aleppo, ci facevamo altro che affari) e dell’industria in generale, a partire da quella dell’auto. “Bisogna produrle qui le armi”, ragionano quelli della Spd. Il riarmo nazione per nazione, non ha una alternativa: non esiste una Europa politica, in grado di avere una politica estera comune. “È la volta buona”, dicono gli entusiasti del ReArm. Quindi, dopo aver provato ad usare il commercio e la moneta come possibili volani per una Unione politica, adesso è il turno della guerra. È per difendersi ripetono gli entusiasti. I nostri valori, le nostre democrazie. Non a caso, il giorno del primo annuncio di Ursula sugli ottocento miliardi in cannoni e missili, è stato anche quello dell’approvazione del piano per deportare migranti in campi di detenzione fuori dai confini europei (che brava Giorgia Meloni, dice il capo dei volonterosi, il democratico Sturmer). Come Trump con quel curioso rituale della firma con il pennarello su un foglio che sarà bianco, vai con il nemico interno, straniero. Guerra civile da governare, e indirizzare, anche qui.
Quindi valori? L’Spd prima di lanciarsi al sostegno del progetto di costruzione del “più grande esercito europeo”, ha fatto deportare con la forza, mentre era al governo, 132 persone rifugiate afghane: li hanno riconsegnati ai talebani. I valori europei, galleggiano vicino ad un relitto nel Mediterraneo centrale, o si mescolano al puzzo dei cadaveri delle fosse comuni in Libia. Sono impressi nei polpacci delle donne e dei bambini della rotta balcanica, morsi dai cani della polizia croata o ungherese. Oppure giacciono lì, nella terra di mezzo tra il muro polacco e il filo spinato bielorusso, dove muoiono di fame e di freddo le famiglie che sono rimaste intrappolate, davanti agli occhi dei militari.
Dovremmo davvero riflettere su come recuperarli, i valori europei, la civiltà. Non credo che si possa fare sulla punta non del fucile, ma di un missile a testata nucleare tattica. Forse, invece di pensare a come fare a sconfiggere i potenti che opprimono altri popoli, dovremmo provare a lottare contro i nostri di governanti, che i valori europei li usano come zerbino per pulirsi le scarpe.
La variabile, non prevista, non calcolabile, che può fare irruzione e scompaginare le carte già preparate di questo gioco truccato dalla macchina dell’accumulazione capitalistica, siamo noi. Donne, uomini, che abitano in basso o più in alto nei livelli, ma che non si rassegnano all’unico mondo possibile, quello dell’Apocalisse come promessa e dell’Apocalisse come minaccia. Le due varianti non mi interessano. Meglio Blade Runner.
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