Le piattaforme che consentono locazioni di breve durata si sono inserite nel trend della turistificazione dei centri urbani e hanno fatto proliferare il fenomeno degli affitti brevi fino a incidere radicalmente negli equilibri che caratterizzano il settore turistico e i centri storici della maggior parte delle città contemporanee. È un fenomeno complesso che investe una pluralità di dimensioni e di temi legati alla qualità della convivenza nelle città e che preoccupa non poco per le conseguenze che comporta sulla situazione già drammatica del diritto all’abitare. E non è certo un fenomeno trascurabile, basti pensare che solo a Roma, a febbraio 2020, erano presenti più di 30mila strutture ricettive disponibili attraverso la piattaforma Airbnb. Da tempo, tuttavia, sulla base delle denunce sempre più puntuali provenienti da giornalisti, attivisti e studiosi, molte città del mondo hanno intrapreso processi di regolamentazione per governare queste trasformazioni, proteggere l’accesso alla casa e opporsi ai processi di gentrificazione legati al fenomeno. Se ne parla a Roma il 24 maggio nella giornata di studio intitolata “Riabitare il centro. Regolamentare gli affitti brevi nelle zone ad alta tensione abitativa”
L’arrivo della platform economy ha cambiato il paesaggio delle nostre città introducendo nuove pratiche organizzative, di consumo, di relazione e soprattutto nuovi attori e interessi nelle dinamiche che producono lo spazio urbano. In particolare le piattaforme a supporto delle locazioni di breve durata, impropriamente incluse nell’alveo della sharing economy – si sono inserite nel trend della diffusa turistificazione dei centri urbani e hanno fatto proliferare il fenomeno degli affitti brevi fino a incidere radicalmente negli equilibri che caratterizzano il settore turistico e i centri storici della maggior parte delle città contemporanee. Si tratta di un fenomeno complesso e articolato che investe una pluralità di dimensioni e di temi legati alla qualità, all’identità e alla convivenza nelle città ma che preoccupa, in maniera stringente, per i suoi impatti sull’accesso alla casa.
La trasformazione del bene-casa è il risultato, in verità, di un lungo processo che si è avviato già a partire dagli anni ‘70[1]. Progressivamente trasformatasi da bene primario a bene rifugio in parallelo con la progressiva precarizzazione del lavoro e alla sfumata certezza di una pensione, negli anni ’90, la finanziarizzazione della casa si sarebbe poi perfezionata – tra indebitamento delle classi più fragili e promozione di prodotti ad alto rischio nel mercato finaziario globale – nel corso di quegli anni 2000 che ci avrebbero condotti alla crisi subprime del 2007-‘08. Ma l’arrivo delle piattaforme per la ricettività a breve termine quali Airbnb, la più nota e utilizzata insieme a Booking e Homeaway, ha aggiunto un’importante novità.
Dietro la benevola immagine dell’host voglioso di incontrare il mondo e di arrotondare le entrate erose da crisi e precarietà, la relazione alla casa e al suo valore si è arricchita di una nuova variabile particolarmente rilevante soprattutto nei centri cittadini ad alto potenziale turistico. Qui la scelta di chi possiede un’abitazione non si limita più a contemplare il vivere, il vendere o l’affittare la casa ma immediatamente vede in qualsiasi unità abitativa una potenziale attività imprenditoriale (benché spesso non registrata come tale) di facile avvio e a bassa tassazione. Ciò cambia non solo lo scenario della scelta del proprietario ma anche – e soprattutto – quella degli attori potenzialmente interessati al bene.
Il problema non risiede infatti nell’esiguo numero di host che affitta la propria abitazione per arrotondare gli introiti di fine mese ma negli attori professionisti – sia dell’immobiliare che del settore turistico – i quali, grazie a questo cambio di paradigma che hanno ampiamente contribuito a determinare e alla mancanza di regole, si sono trovati a disposizione un mercato vastissimo di potenziali clienti interessati a vendere (capitalizzando al massimo la propria rendita di posizione indicizzata alla luce della nuova variabile) o a cedere a esperti le loro abitazioni per immetterle nel nuovo mercato delle locazioni brevi.
Le conseguenze in termini di accesso alla casa sono drammatiche in tutte le città del mondo che abbiano una vocazione turistica più o meno spiccata. Basti pensare che nella sola Capitale, a febbraio 2020, erano presenti 31.359 strutture ricettive disponibili attraverso la piattaforma Airbnb (dati Inside Airbnb). Secondo recenti ricerche, considerando aree comparabili nei tessuti delle “città turistiche”[2], si tratta di circa il 17% dello stock di case ad uso residenziale disponibili con picchi di concentrazione anche molto più elevati in diversi quartieri di Roma: circa la metà degli annunci riguardano infatti il solo Municipio I, il cuore storico della città[3]. Adottando criteri analoghi, tale percentuale giunge al 22% a Venezia e sale fino a circa il 30% a Bologna e a Firenze. Molti, moltissimi di questi appartamenti sono sottratti al mercato degli affitti ad uso residenziale e nemmeno la pandemia, che sembrava dover introdurre una discontinuità senza precedenti, ha invertito in modo durevole questo trend in piena risalita con il ritorno dei flussi turistici.
Da tempo, tuttavia, sull’onda di contestazioni sempre più diffuse e di denunce sempre più puntuali provenienti da giornalisti[4], attivisti e studiosi, molte città del mondo hanno intrapreso processi di regolamentazione nel tentativo di governare queste trasformazioni con l’obiettivo primario di proteggere l’accesso alla casa ma anche quello di opporsi all’insieme degli effetti dei processi di gentrificazione legati al fenomeno.
Molti a livello internazionale gli esempi virtuosi di questo tentativo di riportare il fenomeno all’interno della pianificazione urbana: da San Francisco – una delle prime città a introdurre regole per tracciare e sottoporre ad autorizzazione le locazioni- a Barcellona con l’importante piano turistico che ha introdotto un approccio multidimensionale e territoriale; da Parigi – che ha predisposto misure particolarmente stringenti per coloro che affittano la casa dove non risiedono e ha realizzato una tenace battaglia giudiziaria con Airbnb – ad Amsterdam che ha ridotto a soli 30 giorni il limite annuo massimo per poter dare in affitto un’abitazione nel quadro delle locazioni brevi.
Molti gli strumenti escogitati ex novo dalle amministrazioni o riutilizzati in modo rinnovato per far fronte al al dilagare degli affitti brevi. Benché permangano problemi cruciali e ancora scarsamente affrontati come la questione della collaborazione delle piattaforme e della condivisione dei dati, altro importantissimo valore al centro di questa contesa, queste politiche mostrano come, allorquando si concretizzi la consapevolezza e la volontà di governare tale dinamica, l’archivio di dispositivi e norme applicabili sia ampio e implementabile in modo originale[5].
Tra i più interessanti il piano turistico speciale di Barcellona dedicato alla ricettività (PEUAT), uno dei primi ad affrontare il fenomeno adottando una logica di pianificazione territoriale attenta ai diversi tessuti e ai diversi contesti urbani e ad introdurre una moratoria nelle aree sature del centro con dispositivi di ridistribuzione territoriale per le aree meno congestionate. Uno dei primi esempi di come le politiche turistiche possano declinarsi, non solo nel senso del sostegno lineare all’offerta, ma accompagnando con lungimiranza gli operatori del settore alla preservazione del patrimonio materiale e immateriale in cui si iscrive la loro attività.
Non secondario rispetto all’adozione del piano catalano, il fatto che esso riprenda la precedente sperimentazione del Piano d’uso approvato nel 2010 nel solo distretto della c.d. Ciutat Vella con la quale si regolavano l’insieme di licenze commerciali, licenze alberghiere e licenze per locazione brevi.
A titolo d’esempio, ricordiamo che a Roma il piano regolatore predispone già una serie di limitazioni territoriali per licenze a particolari tipologie di attività economiche e che tale logica ha permesso di stabilire delle moratorie per aree specifiche, come l’area del sito UNESCO e altri quartieri caratterizzati da particolare saturazione commerciale (San Lorenzo, Via di Tor di Quinto, Corso Francia e altri, si veda ad es. le delibere capitoline n. 36/2006 e la n. 47/2018 ora in scadenza). Il Consiglio di Stato chiamato a pronunciarsi su tali strumenti ha dichiarato legittime quelle limitazioni al rilascio delle licenze imposte «al fine di salvaguardare i caratteri tradizionali del centro storico dal rischio di degrado e snaturamento » e ha osservato che «sussiste una preminenza delle utilità e delle finalità sociali rispetto a quelle di profitto della libera iniziativa economica, non potendo svolgersi l’attività imprenditoriale in contrasto con le finalità pubblicistiche dell’amministrazione di tutela della vivibilità centri storici, con un necessario coordinamento ed indirizzo con il perseguimento di tali finalità, di rango costituzionale (art. 41, commi secondo e terzo, Cost.)».
La possibilità di limitare una serie di attività a carattere economico e commerciale nel rispetto della vivibilità della città è dunque ammessa e ammissibile e risiede senz’altro nel campo del possibile delle nostre politiche urbane.
Di particolare interesse, in termini di governo delle trasformazioni urbane e degli strumenti che ne permettono lo sviluppo, anche la politica parigina che ha introdotto un distinguo netto tra chi metta il locazione la propria casa di residenza per non più di 120 giorni all’anno (per loro non ci sono particolari restrizioni) e chi voglia mettere in affitto la seconda o terza casa. Qui lo scenario cambia dovendo l’host chiedere non più una semplice registrazione ma un vero « cambiamento d’uso »[6] e in parallelo dovendosi predisporre una compensazione. Il meccanismo prevede infatti che lo stesso proprietario debba convertire un’analoga superficie commerciale all’uso residenziale, nella stessa o in altre aree affini della città, per rispondere alla « perte de logement » causata. Congiuntamente con il corposo sforzo di controllo messo in opera dalla Mairie de Paris, il meccanismo della compensazione ha effettivamente scoraggiato la diffusione estensiva del fenomeno mostrando quanto politiche coraggiose e originali possano essere intraprese con il benestare europeo. «La lotta contro la scarsità di alloggi destinati alla locazione di lunga durata costituisce un motivo imperativo di interesse generale che giustifica una siffatta normativa» ha infatti dichiarato nel 2020 la Corte di Giustizia UE a proposito della stringente regolamentazione parigina e della sua coerenza con i principi dell’Unione.
Questo complesso movimento di resistenza ricorda, ad una scala locale, quel doppio movimento descritto da Karl Polanyi per analizzare la Grande Trasformazione (1944) che condusse alla diffusione globale dell’economia di tipo capitalistico: un primo movimento di progressiva espansione degli imperativi di mercato a tutti i settori e le sfere della vita, anche quelle più strettamente connessa alla dimensione fondamentale del vivere come la casa, e dall’altra il tentativo delle forze sociali, già individuato dallo storico austriaco, di difendere i propri principi organizzativi, riaffermando l’embeddedness, quella necessaria incorporazione tra relazioni economiche e relazioni sociali, contro la tendenza a stabilire il primato del mercato, su tutto, anche sui beni di primaria necessità.
Questa dialettica sembra bene rappresentata dalla vicenda familiare al cuore del film Welcome Venice di Andrea Segre intensa riflessione sul tema. Il film racconta il conflitto tra i due fratelli, Alvise – che vorrebbe trasformare la casa di famiglia in una dimora di lusso per turisti stranieri – e Pietro – che non vuole lasciare la vita, gli affetti e le pratiche di vita legate a quella casa e si ostina a proteggerla non solo per sé ma anche per tutto ciò che essa rappresenta per la famiglia e simbolicamente per la città. Attraverso la metafora del conflitto fraterno in seno ad una famiglia di pescatori della Giudecca, il regista ci mostra quanto sia intima la lacerazione che la trasformazione della casa e dei valori che ad essa assegniamo sta producendo nelle nostre società, in particolare in una città come Venezia, ormai svuotata dei suoi abitanti e delle sua forze più vitali.
Ma come spiega Nancy Fraser[7], il frame del doppio movimento – estensione mercantilistica vs. protezione sociale – non è più in grado di spiegare con sufficiente accuratezza i cambiamenti politici del nostro secolo poiché, secondo la filosofa femminista, oscurerebbe un terzo movimento, quello che a partire dagli anni ’60, i movimenti hanno realizzato puntando non tanto alla protezione della società (per come essa era), ma piuttosto all’emancipazione, quindi ad una trasformazione sostanziale dei rapporti sociali.
In questo terzo movimento, sembrano iscriversi diversi movimenti che si sono opposti alla c.d. airbnbficazione della città e che hanno investito sia la produzione di conoscenza e di dati -,si pensi al sito di controinformazione e conoscenza Inside Airbnb divenuto un riferimento per tutti gli studi sul tema – ai diversi movimenti alla scala urbana o anche di quartiere, talvolta persino di condominio, il cui obiettivo non sembra essere solo quello di arginare il fenomeno delle locazioni brevi, ma di riportare il diritto fondamentale all’abitare al centro delle agende politiche urbane globali. Se il diritto alla città come immaginato da Lefebvre non si limita infatti al diritto di mero accesso o esistenza nello spazio urbano, e si estende al contrario fino a ricomprendere una dimensione pienamente politica e creativa della cittadinanza, questi movimenti mostrano, che senza la possibilità di avere accesso alla casa, i processi di rivendicazione di un pieno diritto alla città vengono ad essere compromessi alla radice.
Il tentativo proposto dalla campagna Alta Tensione Abitativa, che nasce proprio a Venezia, epicentro dei processi di turistificazione[8] e di progressiva esclusione urbana, sembra proprio andare nel senso di questo terzo movimento. Frutto della collaborazione tra diverse associazioni veneziane, tra cui Ocio, Osservatorio CIvicO indipendente sulla casa e sulla residenzialità, la proposta ci parla infatti del tentativo di governare le trasformazioni urbane e di farlo con obiettivi non solo conservativi o contenitivi ma con l’idea di garantire i più essenziali obiettivi di giustizia spaziale all’interno delle nostre città, in particolare quelle che figurano tra i comuni ad alta tensione abitativa (art. 8 l. n. 431 del 1998), modulando sapientemente le differenze territoriali e i diversi strumenti di policy che le possono far vivere.
La proposta, che trae ispirazione dalle numerose misure adottate in Europa e introduce importanti elementi innovativi, offre inoltre un altro elemento di interesse per la nostra analisi: l’uso politico del diritto sempre più diffuso tra gruppi e coalizioni di attivisti.
Questa tendenza a imbracciare l’arma del diritto[9] non è nuova ed è stata discussa da molti studiosi a livello internazionale[10]. Tuttavia, i movimenti per beni comuni, nella seconda decina di questo secolo hanno investito il diritto in modo nuovo: non solo come terreno di conflitto giudiziario nelle aule dei tribunali al fine di mostrare le contraddizioni sistemiche e spingere al cambiamento – cosi come numerosi movimenti hanno fatto e fanno nel solco della tradizione della disobbedienza civile – ma come terreno di elaborazione e proposta dal basso, riappropriandosi direttamente del sapere giuridico come sapere sociale, trasformativo ed emancipativo.
Ben venga dunque questa proposta che coglie nel segno la latitanza del nostro ordinamento centrale, il quale si è tuttalpiù limitato a guardare il fenomeno Airbnb nell’ottica della disparità fiscale – mancando peraltro, anche su quel piano, di coglierne gli elementi organizzativi e gestionali essenziali – e stenta, tuttora, a riconoscere i profili urbani e sociali del fenomeno.
Con la pandemia, numerose voci sembravano pur essersi levate per invocare una rimodulazione delle relazioni tra politiche turistiche, politiche urbane e piattaforme ricettive, ma la ripartenza dei flussi turistici sembra aver ricacciato quei discorsi in un lontano orizzonte dai contorni sfocati e spiacevoli.
La giornata di studio “Riabitare il centro. Regolamentare gli affitti brevi nelle zone ad alta tensione abitativa” organizzata da Ocio, Osservatorio CIvicO indipendente sulla casa e sulla residenzialità e dal Progetto di Ricerca Nazionale Short Term City – Digital platforms and spatial justice, martedì 24 maggio presso il Centro Convegni La Sapienza, è l’occasione per riavviare il confronto su questi temi a partire dalla necessità di una migliore regolamentazione delle locazioni brevi, offrendo un’occasione di incontro tra accademici, amministratori, cittadini ed esponenti politici.
Molti i ricercatori specializzati sul tema che interverranno per offrire una panoramica delle politiche urbane europee e dei loro impatti territoriali, moltissimi gli assessori provenienti da numerose città italiane (Roma, Napoli, Milano, Palermo, Genova, Bologna, Venezia) ma anche gli esponenti politici regionali (Lazio, Veneto) e i parlamentari che hanno accettato l’invito a discutere della proposta di legge e della necessità di adottare un quadro regolativo che possa sostenere quei comuni che intendono governare il fenomeno delle locazioni brevi all’interno delle nostre città. L’iniziativa è pubblica e l’accesso alla Sala congressi di via Salaria, 113 non richiede iscrizione.
[1] Raquel Rolnik, Urban Warfare: Housing under the Empire of Finance, London: Verso Books, 2019.
[2] F. Celata, A. Romano, «Overtourism and online short-term rental platforms in Italian cities» in Journal of Sustainable Tourism, July 2020.
[3] M. Ciorra et al., Airbnb: dalla sharing economy a una nuova frontiera imprenditoriale in Mapparoma, 2020.
[4] In Italia si veda il saggio di Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019.
[5] T. Aguilera, F. Artioli, C. Colomb, « Explaining the diversity of policy responses to platform-mediated short-term rentals in European cities: A comparison of Barcelona, Paris and Milan ». Environment and Planning A: Economy and Space. 2021; 53, 7, 1689-1712.
[6] In Francia si tratta di un dispositivo specifico e particolarmente restrittivo relativo alla casa e all’edilizia residenziale delle città con più di 200.000 abitanti e dei comuni dell’Ilê de France.
[7] Nancy Fraser, “Chapter 5. Marketization, Social Protection, Emancipation: Toward a Neo-Polanyian Conception of Capitalist Crisis”, in Craig Calhoun & Georgi Derluguian (eds), Business as Usual: The Roots of the Global Financial Meltdown, , New York, USA: New York University Press, 2011, pp. 137-158.G
[8] G-M. Salerno, Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione, Quodlibet, 2020.
[9] Liora Israel, L’arme du droit, Paris, Presses de Sciences-Po, 2009.
[10] Fracnçois Ost, A quoi sert le droit ? Usages, fonctions, finalités, coll. Penser le droit, Bruxelles, Bruylant, 2016 ; Jacques Commaille, Laurence Dumoulin et Cécile Robert (dir.), La juridicisation du politique, Paris, LGDJ, coll. « Droit et Société », 2010.
Lu dice
sempre precisi ed esaustivi su un tema, quello del diritto all’abitare, così volutamente trascurato e ignorato dai governi nostrani nonostante le croniche “emergenze abitative” lombarde e generali. Politici venduti alle speculazioni finanziarie ed edilizie che emargnano dalle città i cittadini economicamente deboli e, oggi, anche parte del ceto medio impoverito dalla precarietà del lavoro (come tutti) e dalle crisi economiche.