È In cartellone al Teatro Due di Roma, dal 28 marzo al 2 aprile, Di chi è la terra? Ballata per Chicco di grano, Pannocchia e Sacchetto, con Daniela Giordano e Danila Massimi. Lo spettacolo, che la locandina definisce «un rap per alimenti e cose», è una riflessione critica e ironica sul rapporto tra essere umano e ambiente, società dei consumi e trappole della green economy.
«Non tutto ciò che pensiamo cibo – si legge nelle note di regia – viene coltivato per soddisfare i bisogni alimentari del pianeta. Grani e cereali sono diventati flex crops, vale a dire che sono flessibili all’utilizzo per fini diversi da quello alimentare. La green economy necessita di grandi aree per coltivare cereali e vegetali destinati a biocarburanti e bioplastiche, generando un fenomeno chiamato land grabbing, accaparramento delle terre, che nega i diritti di sopravvivenza e di utilizzo alle popolazioni che ci vivono da sempre. L’Africa è uno dei continenti maggiormente coinvolti dal fenomeno del land grabbing.
ARTICOLI CORRELATI
Il rap Di chi è la terra? è il filo conduttore della storia, nella quale, con ironia graffiante, Daniela Giordano, accompagnata da Danila Massimi, dà voce e volto ai protagonisti Chicco di grano, Pannocchia e Sacchetto, proponendo il loro spiazzante e surreale punto di vista. Tutti rispondono alla domanda: di chi è la terra? Di chi la abita o di chi la governa?».
Di seguito le parti iniziali dei monologhi dei tre personaggi. *
.
Sacchetto
Sento addosso questa grande missione per la quale sono nato. Ricordo mia mater, Mater–Bi, emozionata, piena d’amore, che mi disse, quando nacqui: “Figliolo, i tempi sono maturi, le menti consapevoli si rivolgono alla tutela dell’ambiente. Tu nasci in una congiuntura propizia: il destino è favorevole, si sono sciolte le calunnie del passato, la modernità guarda a noi come dei salvatori. Porta con fierezza il nome della nostra famiglia nel pianeta. E ora va, figlio mio, fatti valere e conquista il mondo”. Sono un prodotto del pensiero verde, mia Mater-Bi aveva ragione. Sono Bio certificato, ecologico e antigoccia. So di appartenere a una grande famiglia, siamo tanti ormai, siamo i buoni: Piatto, Forchetta, Bicchiere, Giocattolo, Bastoncino cotonato, Pannolino, Packaging, e io, Sacchetto, siamo tanti, siamo la vera modernità. Ma come in tutte le grandi famiglie, non ho avuto un’ infanzia facile. Troppa competizione, avrei voluto essere figlio unico. Mia sorella, Penna biodegradabile, si dava le arie perché a lei davano premi internazionali. “Hai saputo, Sacchetto?” – “No” – “Mi utilizzano come penna ufficiale al primo Summit Internazionale sull’ambiente e lo sviluppo sostenibile dell’Onu a Rio De Janeiro”. Era il 1992. Mia Mater–Bi era orgogliosa di lei. E questo mi faceva incazzare…..
Pannocchia
È già passato un anno. È arrivata di nuovo la fine dell’estate. Sento il profumo delle piogge che arriveranno a bagnare la terra. Finalmente. L’oro dei campi sarà raccolto, la terra nuda berrà gli scrosci dell’autunno e il verde tornerà a coprire i campi. Custodisco un cuore di granella, chicchi gialli come il sole, che si aggrappano a me in questi ultimi attimi di abbraccio. Mi aspetta la grande festa del raccolto. Sarò bella, come tutti gli anni, sarò la regina della festa. Piena dei miei frutti, cullati, amati, cresciuti in me, e ora maturi per affrontare il viaggio, per andare incontro al loro destino. Ancora pochi attimi e cesserò di essere Pannocchia e tutto quello che sono sarà di nuovo chicco e un nuovo ciclo inizia. Il villaggio si popola alla raccolta. Si torna a casa, si torna alla terra. Le famiglie si riuniscono. Le donne preparano con cura da giorni cibi speziati e dolci. L’aria è intrisa del profumo di pane cotto sulla pietra rovente. Si preparano cibi speciali per la festa del raccolto, perché arriveranno da lontano i parenti e bisogna fare bella figura. Si preparano cibi speciali perché tornano i figli lontani, e avranno fatto un lungo viaggio e saranno stanchi e avranno fame. Ognuno viene a dare una mano nei campi. Tutti sono qui per qualcuno: chi a salutare i genitori, le sorelle, i fratelli, chi ad abbracciare i parenti. Tutto si colora. Stoffe dai toni sgargianti, tinte per l’occasione, sono indossate dalle donne di tutte le età o sventolano come grandi bandiere fuori dalle case, perché la mia festa, è anche la festa dell’amore e tutti e tutto si fa bello per attrarre. Le giovani lo sanno, che la festa del raccolto è anche per loro. Dopo la mietitura, ci si abbandona al ritmo delle danze. La musica entra nei corpi e li seduce. E gli occhi brillano nella notte come riflessi di luna sull’acqua. E ci si innamora e le giovani coppie fanno progetti per il futuro, mentre gli adulti raccontano storie sui raccolti e sulle semine. Come mi piace questa abbondanza. Mi strugge il pensiero dell’addio ma sono ricca di tutte queste voci, dei suoni, delle risate, delle corse dei bambini in mezzo ai fusti del mio stelo. Mi sto preparando. Il vento mi porta il canto e la musica, sto per aprire il mio cuore, e liberare i miei semi perché diventino nutrimento e vita che si rinnova. La festeggiata tra poco lascerà la festa. È un rito che si ripete sempre uguale. Eppure, ogni anno noto differenze. Cambiano le pettinature, gli abiti, i discorsi. I canti, no, sono sempre quelli. Da sempre. Ai miei chicchi di mais piace cantare, protetti dalla notte e dal fruscio delle foglie, quando il villaggio è ebbro e addormentato, anche noi cantiamo. Facciamo dei bellissimi cori. Mamma Pannocchia & figli, beh, c’è anche qualche stonatura… Il concerto è preludio al nostro dirsi addio. Addio per questa stagione, ma ci ritroveremo qui tra un anno, quando da chicco tornerò a essere Pannocchia.
Mi gira la testa. C’è un trambusto dentro di me. Qualcosa che mi sconcerta e mi spinge sulla via del non ritorno. Voci da dentro che agognano cambiare il destino. Sono i miei figli, i miei frutti, il mio futuro. Vogliono cambiare. Sono già cambiati…..
Chicco di grano
Fino a cinque minuti fa non sapevo come cominciare. Sono in grande imbarazzo. Poi mi sono detto “via, togliamoci questo dente, così poi il resto del discorso sarà in discesa”. E allora sì, ve lo dico. Io quel giorno d’estate del 1935 c’ero, a Sabaudia. Come sarebbe: “e allora?” Non vi dice niente Sabaudia, città di fondazione del periodo fascista? Che non ve lo ricordate quel cinegiornale dell’istituto Luce con Mussolini a torso nudo che lavora nei campi? Ebbene io non solo ci stavo, ma ero il protagonista della giornata. Ah, ma non penserete mica che mi facesse piacere partecipare a quell’orgia di retorica rurale e militaresca? Io ci dovevo stare per forza. Io e milioni dei miei fratelli chicchi di grano.
L’Italia fassista avanzava a grandi e baldanzosi passi sulla strada dell’autarchia alimentare… premessa della costruzione della più grande infamia della storia italiana, la guerra di aggressione insieme alla Germania nazista.
“Il popolo italiano avrà quindi … il pane necessario alla sua vita… Ma se anche gli fosse mancato … non si sarebbe mai – dico mai! – piegato a sollecitare un aiuto qualsiasi … dalle cosiddette grandi demoplutocrazie!”
Battaglia del grano, l’hanno chiamata quei disgraziati. E ci hanno messo a tutti un metaforico elmetto in testa. Non glielo posso perdonare. Non è giusto. Io sono nato per fare la festa, non la guerra.
Il dittatore vuole essere il corpo stesso della Nazione, e vuole che la Nazione si identifichi nel suo corpo, e naturalmente la cosa più naturale è passare per la pancia. Ecco, spesso e volentieri se si vuole arruolare “la pancia del popolo” io vengo convocato. Perché non sono semplicemente un vegetale: sono un figura retorica, anzi più d’una. Sono una metonimia e una sineddoche, sono un’antonomasia. Io sono “il cibo”, e sono la vita stessa.
Sono? Ero. Non lo so. Cavolo, se vengo da lontano! Ma dove vado non lo capisco più…..
.
* di Michele Citoni, Daniela Giordano, Danila Massimi, Marco Veruggio
Lascia un commento