di Daniela Degan*
C’e’ una lunga tradizione in molti luoghi, continenti, paesi, regioni, di una memoria storica o anche leggendaria delle Sibille. Sono mai esistite? E se la storia ci dice di sì, spazzolandola al contrario, fa emergere dalla polvere, dalla terra, dall’aria e dall’acqua e dal fuoco una figura di donna saggia, senza tempo, che nel tempo cammina, che ama la vita, la gente, raccoglie e custodisce la conoscenza. Ed è allora che mi pongo delle domande. Chi sono? Cosa facevano, dicevano o pensavano? Quale è l’immagine che resta luminosa nella storia delle donne che desideriamo narrare? Sono anch’esse delle nostre antenate dalle quali possiamo attingere saperi e modelli di vita sensata di cui abbiamo assolutamente bisogno, specialmente ora nel nostro mondo che va così veloce e non si arresta un’ora?
Personalmente, penso che sì, loro sono le nostre antenate, donne di saggezza che si sono rivelate in diversi momenti storici e che proprio perché importanti nella nostra memoria collettiva di donne, nemmeno la chiesa ha potuto cancellarle tanto che girando per Roma, nelle basiliche, nei paesi vicino ai Monti Sibillini esse sono ancora raffigurate nei dipinti. Le raffigurazioni di autorevoli pittori ce le rimandano nella loro potente bellezza, nella consapevole saggezza di donne anziane, nelle loro attività talentuose e di vita quotidiana. Le pennellate colorate allora rivelano la loro esistenza a mio avviso non solo leggendaria, ma storica e si fanno innanzi per narrare chi sono.
Lo scrittore reatino Marco Terenzio Varrone (116-27 prima dell’era comune) ne enumera dieci in ordine di antichità: Persica, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontica, Frigia, Tiburtina. I loro nomi Albunea o Abulnea, Amalthea, Artemide, Berossiana, Carmenta, Cassandra, Dafni, Deifobe, Demarate, Demofile o Demo, Elissa, Erofila, Faennis, Lampusa, Manto, Melankraira, Phoito o Phyto, Sambethe o Sabbe o Saba, Taraxandra.
Sulla base delle riflessioni e delle analisi di Joyce Lussu – che tanto ha scritto sulle sibille nel suo ”Libro Perogno” nel testo delle streghe e nel suo scritto “la sibilla barbaricina” – la figura della Sibilla appare come colei che sa dare giusti consigli, individua problemi e formula soluzioni per le comunità dove vive. Queste donne avevano una importanza fondamentale per la vita della stessa comunità, venivano ascoltate e tenevano unite le genti. Nella nostra terra le Sibille sono legate ai Libri Sibillini. La tradizione li voleva scritti da una donna, una Sibilla, appunto, ed erano custoditi nel tempio capitolino dedicato a Giove Ottimo Massimo, in un cofano di pietra. Ad ogni disordine essi venivano riesumati su un ordine preciso del Senato romano, quando tutte le strade erano state tentate… La loro lettura riportava l’ordine, perché le loro parole risuonavano straordinarie. La sua eco, la sua voce, l’ha resa immortale. Ogni Sibilla è una anticipatrice, perché donna che sa, donna di conoscenza: una figura di grande modernità essa conosce il passato, forte è la sua memoria, ha garantito il presente e costruisce il futuro grazie ai saggi consigli che emergono dal suo cuore, dalla sua mente, dal suo essere donna intera.
Vi porterò allora in un viaggio dove incontreremo queste figure. Cassandra l’abbiamo già conosciuta (Mi ribello con Cassandra, profetessa inascoltata) essa fa parte delle profetesse, delle sibille dell’ambito orientale-greco. Poi vi riporterò un dialogo scritto da Elissa Di Montebianco e Deifobe di Napoli tra la Sibilla appenninica e la Sibilla Cumana presentato ad una conferenza tenuta a Napoli nel 2005 dal titolo. Successivamente, viaggiando nel tempo, passeremo alla Sibilla del Reno: Ildegarda di Bingen (Ildegarda, la sibilla del Reno) e quindi Ipazia di Alessandria e ancora Trotula de Ruggiero. Vi narrerò la storia della Sibilla Barbaricina, Elisabetta di Orgosolo e infine intervisterò Joyce Lussu dalla quale riceveremo informazione di una sua amica sibilla incontrata nelle Marche in un Borgo chiamato Cerreto.
Da “La Sibilla Barbaricina” di Raffaello Marchi
(Note Etnografiche – Istituto Superiore regionale Etnografico della Sardegna)
PRELUDIO di Joyce Lussu
“Era una donna meravigliosa” mi disse. “Ho tanti e tanti appunti su di lei, sulla sua cultura sarda, della Sardegna più vera, calpestata. Devo scriverci un libro. Lo intitolerò La sibilla barbaricina”. Ma non lo scrisse mai, perché anche lui andò a dormire sottoterra, in una bara economica, finita di pagare parecchi mesi più tardi.
Joyce Lussu – IL LIBRO PEROGNO
… Arrivando in Sardegna, dove s’imponeva un mio innesto su un tronco dalle radici non mie, cercai, come prima e necessaria operazione, di capire la storia del popolo sardo. Quando andai a Nuoro, Raffaello Marchi mi parlò della sibilla barbaricina. “Non è una “bruxa””, mi disse, “come quella di Urzulei, che fa venire il carbonchio ai cavalli e infila gli spilli nei pupazzetti di mollica di pane. E’ una “tiina”, una divina o divinatrice, che conosce anche le erbe benefiche e l’arte di guarire le ferite o riacconciare gli ossi; cerca sempre di prevenire i furti e le violenze, ammonendo, con intuizione puntuale, chi sta architettando in segreto una mala azione; la sua sapienza è sempre volta al bene e alla pace. E’ una donna straordinaria. Se vuoi ti presento”.
Fu così che mi recai ad Orgosolo, e andai a bussare al portone di Elisabetta Lovico. Nello splendido costume orgolese (sul corpetto turchino spiccavano i ricami aurei di seta naturale; per ottenere una matassa erano stati allevati dei bachi col gelso piantato in cortile; la sbuffante camicia scollata era di puro lino, tessuto dagli steli di fiori azzurri coltivati nell’orto; il fazzoletto da testa multicolore non era annodato sotto il mento ma ripiegato sopra la testa, sulle onde di capelli color mogano, lasciando liberi il collo e la fronte e le orecchie dai lunghi pendenti d’oro), nelle sue vesti festose Elisabetta, col seno prospero e i gesti vivaci delle braccia rotonde sotto le larghe maniche rimboccate fino al gomito, con gli occhi ridenti e la voce squillante e la schietta risata che scopriva i denti forti, era l’immagine stessa di una vitalità prorompente. “E’ tutta, lei” fu il primo pensiero. “E’ una donna intera”.
È abbastanza raro trovare una donna veramente intera. In generale, alle donne hanno sempre tolto qualche cosa: autonomia, autorità, identità. Portano i segni di adattamenti forzosi, di rinuncia a una parte di se stesse, di mortificazioni secolari, di mutilazioni profonde, di violenze subite che generano paure, inganni e meschinità. In Elisabetta non vi era nulla di tutto questo. Aveva autonomia, autorità e identità; e le usava bene, non per sopraffare, ma per aiutare la sua comunità, in maniera interamente femminile, diversa e opposta al potere patriarcale e guerriero; come le sibille delle antiche società comunitarie. Mi balzo’ in mente l’immagine delle dodici sibille di Visso, così simili a lei nel portamento fiero e ridente.
Come Angeruta, Elisabetta non era cristiana. Non andava in chiesa e non temeva il prete. Mentre il prete temeva lei, e non osava criticarla che sottovoce, nel buio della sacrestia; ma mai era giunto a criticarla apertamente, a “leggere la sua vita” in chiesa durante la predica domenicale, come faceva per gli altri avversari.
Cercavo di capire quale fosse per Elisabetta il massimo sistema, il rapporto con l’universale. Rispondeva alle domande con immediatezza e abbondanza, seria o sorridente, ma senza mai farsi importante o computa; il suo discorso era laico e solare, senza reticenze, misteri o angolini bui, la difficoltà era il suo orgolese stretto, parlato con tambureggiante rapidità, di cui molti termini mi sfuggivano; allora mi rivolgevo a Raffaello, paziente e accorto interprete. Elisabetta parlava di una legge universale di giustizia, che riequilibrava instancabilmente le fratture e le contraddizioni tra le azioni costruttive e le azioni distruttive, tra la vita e la morte. Questa legge la chiamava con un termine che suonava come “perogno”, di cui nemmeno Raffaello sapeva darmi una spiegazione.
Dopo due ore di conversazione durante le quali si parlò di tutto, finalmente ne venimmo a capo. Il “perogno” era il Libro, la parola scritta. Quale libro? Elisabetta era analfabeta. Un libro molto antico, ci spiegò, perché prima, in tempi molto antichi, le donne sapevano leggere e scrivere; poi avevano disimparato, e si erano tramandate oralmente le parole del Libro. E cosa c’era scritto nel libro? La legge, rispose Elisabetta, la legge della giustizia per tutti gli uomini e tutte le donne. Era un libro simile a quello che aveva il prete? “no no no”, si ribellò Elisabetta, “è un Libro tutto il contrario a quello dei preti, che ingannano la povera gente, la gente che non sa. E’ il libro della Sapienza. I preti non hanno sapienza “. E perché si chiama “perogno”? Perché è la sigla iniziale del Libro: per riconoscerlo tra tutti: perogno secula scloru. Finalmente capimmo: il libro cominciava con una , frase latina, per omnia specula saeculorum. Che libro era? Forse saremmo riusciti a scoprirlo, ma rimandammo a una prossima seduta.
Elisabetta aveva un marito e sei figli. Il marito era un uomo dai capelli grigi, dall’aspetto mite e riflessivo. Nella grande cucina, stava seduto su una sediola bassa accanto al focolare, e attizzava il fuoco, guardandoci ogni tanto con uno sguardo acuto e partecipante ma senza aprire bocca, salvo che per le cortesie d’uso. I figli, robusti pastori dal volto bruciato dal vento sotto il berretto tondo, andavano e venivano senza una parola, dopo il primo saluto. Era Elisabetta, coi suoi colori sontuosi e la sua voce sonora, che riempiva tutto l’ambiente. “Quando ci sono ospiti parla lei”, mi disse Raffaello, “ma poi in famiglia parlano molto tra di loro e hanno un rapporto affettuoso e civile. Ma in paese, il marito di Elisabetta è soprannominato “su minghinu”, il miserello”.
Nell’alto risvolto della comunità orgolese, quello patriarcale e maschilista, un vero uomo, l’uomo della valentia e delle bardane, l’uomo che stupra anche la moglie (la vergine tremante che le vecchie gli mettono nuda nel letto per la prima notte di nozze), non avrebbe mai sposato una tiina; anzi, spesso non si sposava affatto, per non rischiare di mettere a confronto il suo potere di maschio armato con la contrapposta autorità della donna disarmata ma sapiente e padrona di sé.
Mi vennero in mente le leggende sibilline del Tannhauser e del Guerrin Meschino dove il guerriero iniziato alla virilità col rito del sangue e della morte cerca l’altra cultura, quella in cui le donne hanno diritto al proprio corpo e alla propria vita e alla gioiosa convivialità comunitaria; ma poi si ritrae, e il venerdì vede le donne gentili e colte che vorrebbe amare trasformarsi in mostri; invece chi si trasforma in mostro è lui, quando si accorge che il suo potere basato sulla sopraffazione e la violenza verrebbe annullato, se accettasse la civiltà che gli offrono le sibille; infatti parte per le crociate, a seminare stragi, stupri e distruzione, con la benedizione del papa e dell’imperatore.
Il maschio della balentia e delle bardane ha come complemento la femmina degli attitus e dei lugubri scialli neri che nascondono anche il mento e i capelli, la donna in perenne lutto, la prefica delle veglie funebri in cui si esalta la virtù dei veri uomini, l’aberrante catarsi della morte data e ricevuta. Elisabetta apparteneva a una Sardegna meno tragica e più umana, a un altro filone storico, a una scelta diversa, perdente ma non ancora cancellata. La sua scienza divinatrice non aveva nulla di magico e di misterioso. Era la preveggenza dell’esperienza e del buon senso, basata su una conoscenza totale della sua comunità, individuo per individuo, e su un’attentissima capacità di osservazione. Percepiva tutti i linguaggi che non sono solo parole, ma gesti atteggiamenti, espressioni, tensioni, sguardi, movimenti minimi delle labbra, delle mani, di tutto il corpo che rilevano l’onda delle emozioni e dei pensieri. Un uomo ossessionata da una volontà omicida o che pianifica nella sua mente il furto abile e pericoloso di un gregge, non è identico al se stesso di prima. Elisabetta captava questi mutamenti e cercava di intervenire e prevenire, non direttamente, perché sarebbe stato inutile, ma usando parole simboliche ed allusive. “Gliel’avevo detto”, raccontava, “al segretario comunale, che una delle aste di ferro del balcone del municipio non era più al suo posto, come se si fosse contorta nella notte. Gliel’avevo detto, ch’era un cattivo presagio, e che per almeno tre giorni non uscisse di casa, non si muovesse dal paese. Non mi ha dato ascolto. L’hanno ammazzato vicino al suo orto, a tre chilometri da Nuoro”.
“Ci sono stati ammazzamenti, qui a Orgosolo …”.
“Qualcuno sono riuscita a impedirlo, gli altri li ho sempre saputi prima. Ma non mi hanno dato retta … ho impedito anche dei furti, ho fatto ritrovare il maltolto …Sabato è venuto da me un vecchio contadino, ha solo un pezzetto di terra e un gioco di buoi vecchi come lui. Glieli avevano rubati. Gli ho detto dove poteva trovarli, ora è contento…”.
Anche in questo caso, non vi era certamente nulla di magico, ma un accurato calcolo delle probabilità. Se però come divinatrice era spesso inascoltata, molto apprezzata era invece la sua scienza medica, frutto di una secolare accumulazione di esperienze e di esperimenti. Lo stesso medico condotto mandava da lei pazienti con fratture e lussazioni, che lei rimetteva a posto con massaggi e unguenti, senza ricorrere all’ingessatura. Guariva le ustioni gravi e le ferite infette, conosceva le erbe medicinali e preparava decotti, pozioni e impiastri per malattie più varie, calmanti per l’insonnia e le tensioni nervose, tisane per la pressione alta, colliri per gli occhi e tante altre cose. Su questo, come pure sul libro della Sapienza, mi ripromettevo di parlare più a lungo in visite successive; ma non potei mai farlo, perché improvvisamente, ancora bella e giovanile e prosperosa e ridente nei suoi abiti splendenti e coloriti, Elisabetta morì.
Io pensai subito che l’avesse fatto apposta, che si fosse stufata di vivere in questo mondo di bardane e di eroi ottusi e assassini, e avesse scelto di mettersi a dormire.
Tornai ad Orgosolo non molto dopo, a cercare le sue memorie incompiute, di cui avevo potuto intravedere una così piccola parte. E mi trovai di fronte a un muro. Orgosolo (non solo gli amici del prete, ma i compagni maxisti – leninisti) l’avevano dimenticata e la volevano dimenticare. Anzi se ne vergognavano, come Agostinho Neto dei suoi griots, e cercavano di sminuirla e calunniarla. Gli antropolici, sociologi, entologi, rivoluzionari alla Feltrinelli che accorrevano da tutte le parti (Orgosolo coi suoi Tandeddu e i suoi Mesina era allora molto di moda tra gli intellettuali di sinistra) s’inmmergevano con delizia nel romanticismo sanguinolento delle maschie vendette e dei funebri ululati delle prefiche. L’immagine energetica e umana di Elisabetta, coi suoi colori squillanti e le sue risa, era seppellita trè volte.
La vidi riemergere anni più tardi, nelle ragazze dai capelli al vento e dai golfini rossi che marciavano a Pratobello per contendere a militari e militaristi i loro pascoli e le loro querce millenarie. Allora, Raffaello Marchi (che era anche lui un barbaricino dell’altro filone storico, un uomo mite e gentile con sempre un lampo di allegria negli occhi, nonostante la miseria e gli acciacchi) tessemmo l’elogio tardivo di Elisabetta.
* Daniela Degan è impegnata da anni nella ricerca sui temi della nonviolenza, della decrescita e della storia al femminile.
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