
Il 12 marzo 2001, ventiquattro anni fa, la “Marcha del Color de la Tierra” arrivava allo Zocalo di Città del Messico, dopo aver attraversato tutto quel grande paese. Una moltitudine in cammino, seguendo gli ultimi della terra usciti dalla Selva Lacandona per mostrarsi al mondo.
Chiudo gli occhi, passo in rassegna ogni volto di quelli che con me, giunti dall’Italia, ebbero il privilegio di esserne parte. Ci sono tutti nel mio cuore, anche quelli che non ci sono più.
Ho imparato lì, con gli zapatisti, che la “speranza” non è , come mi avevano detto altri maestri illuministi d’occidente, “una fregatura dei padroni, con la quale la religione e lo Stato ti mettono in testa l’idea di una inutile ed eterna attesa di un mondo migliore”. No, la speranza può essere un agire, una traduzione concreta in questo mondo del fatto che non lo si accetta così come è e ci si mette in cammino, insieme, per attraversarlo, per giungere a una Terra Promessa che non è segnata sulle mappe. La speranza non è un’attesa, ma un andare incontro.

Un cammino quello che feci allora, che mescolava a ogni metro sogno e realtà, e quindi che cambiava la realtà, rendendola modificabile immediatamente, con le nostre mani e con i nostri piedi, e cambiava anche il sogno, trasformandolo in una cosa viva, fatta di carne, sudore, lacrime e gioia, mani strette le une con le altre.
L’agire della speranza, ho imparato allora, è la potentissima risposta al moto di disperazione, che chiude nel rancore e nella rabbiosa reazione alle ingiustizie di un mondo che non cambia, ogni possibilità di pensare, attuandolo fin da subito, ad un futuro diverso. I moti di disperazione si prestano ad essere utilizzati da altri, e chi ne è portatore, non ha nessuna possibilità di metterli a valore.
Quella marcia per molti di noi non si è ancora conclusa. E non si concluderà mai. Alimentare il fuoco, e non custodire le ceneri, è il suo insegnamento che mi porto dentro.
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