Il sottosegretario al ministero dell’interno Nicola Molteni ha subito parlato di una “sentenza storica”, dimenticando che la sentenza non è ancora definitiva e che fa riferimento a due casi specifici, ma non è automaticamente applicabile a tutti i soccorsi operati in acque internazionali dalle navi umanitarie delle ONG. Non è tuttavia certo una buona notizia quella che arriva dal Tribunale amministrativo del Lazio sull’obbligo di soccorso in mare e l’assegnazione di porti di sbarco lontani e “vessatori” che mettono in grave pericolo la vita di chi è stato raccolto a bordo

1.Il Tribunale amministrativo del Lazio ha deciso su due ricorsi proposti contro l’assegnazione di porti di sbarco “vessatori”, a notevole distanza dall’area nella quale venivano operati i soccorsi da parte di una organizzazione non governativa, legittimando le scelte del ministro dell’interno ed affastellando una serie di motivazioni che vanno oltre la portata del caso esaminato e gettano ombre inquietanti sul futuro dei soccorsi in mare nel Mediterraneo centrale. Il sottosegretario al ministero dell’interno Nicola Molteni ha subito parlato di una “sentenza storica”, dimenticando che la sentenza non è ancora definitiva e che fa riferimento a due casi specifici, ma non è automaticamente applicabile a tutti i soccorsi operati in acque internazionali dalle navi umanitarie delle ONG. Non è del resto la prima volta che la giustizia amministrativa adotta una linea conforme agli indirizzi del Ministero dell’interno, salvo poi ad essere smentita da una successiva decisione di un organo giurisdizionale superiore o da un Tribunale internazionale, come è successo nel caso della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea l’1 agosto dello scorso anno, in materia di fermi amministrativi delle navi umanitarie, dopo i controlli operati in porto allo sbarco dei naufraghi. In quell’occasione i giudici di Lussemburgo avevano affermato che non potevano essere considerati come “passeggeri” i naufraghi soccorsi in mare, e che le navi delle ONG non potevano essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Con l’avallo di parte della giustizia amministrativa.
A gennaio di quest’anno le autorità italiane avevano assegnato i porti di Ancona e La Spezia alla ‘Geo Barents’, la nave di Medici senza frontiere impegnata nel soccorso dei migranti nella cd. “zona SAR libica”, che aveva effettuato due operazioni di salvataggio in acque internazionali. Secondo il Tribunale amministrativo, sarebbe “evidente ed innegabile” che spetti al Viminale assegnare il porto di sbarco in quanto “le operazioni di soccorso vanno inquadrate nel più ampio e complesso contesto del fenomeno migratorio via mare” che oltre al soccorso prevede anche l’accoglienza, l’ordine pubblico e la gestione generale del fenomeno migratorio”. Per questo Tribunale, “manca una definizione chiara ed internazionalmente condivisa di ‘porto sicuro’ indissolubilmente legata al concetto di porto più vicino”. Il Ministero dell’interno, dunque, avrebbe operato adottando provvedimenti legittimi, facendo “corretta applicazione del principio del porto sicuro”, tenendo in considerazione una serie di fattori: la “sollecita definizione delle operazioni preordinate” all’assegnazione del porto per garantire la breve durata delle operazioni di soccorso; le dimensioni della Geo Barents, una nave idonea “ad affrontare in sicurezza un più lungo tragitto”, la “mancata segnalazione” da parte della Ong di “situazioni di urgenza a bordo”.
Malgrado il TAR del Lazio richiami la fondamentale decisione della Corte di Cassazione n.6626/2020 sul caso Rackete, che fissava l’ordine gerarchico delle fonti, sulla base del dettato dell’art.117 della Costituzione, e dunque affermando la prevalenza degli obblighi di soccorso e sbarco, imposti dalle Convenzioni internazionali, sui poteri discrezionali del ministro del’interno, la conclusione a cui si perviene stabilisce sulla base del diritto nazionale una competenza ed un potere esclusivo del Ministero dell’interno nella indicazione di un place of safety per lo sbarco dei naufraghi. A tale riguardo sia le Convenzioni internazionali ed i relativi Allegati, che le disposizioni del Piano SAR nazionale 2020, che ne costituisce attuazione, vengono richiamate solo per la parte che può sostenere la tesi argomentativa, già proposta anche in altre sedi dall’Avvocatura dello Stato, e dunque dal Ministero dell’interno, senza citare altre disposizioni che, senza indicare come porto di sbarco il porto più vicino, impongono agli Stati di assegnare un place of safety (POS) “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”, stabilendo le competenze delle centrali nazionali di coordinamento delle Guardie costiere (MRCC). Il TAR Lazio omette di considerare proprio il passaggio centrale della sentenza n.6626/2020 della Corte di Cassazione, che pure richiama in modo evidentemente strumentale, al fine di motivare la propria decisione.
Secondo questa sentenza della Cassazione, infatti, “….«Né si potrebbe ritenere che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”)». Sul punto la Corte di Cassazione richiama il punto 3.1.9 della menzionata Convenzione SAR, dove si stabilisce l’obbligo delle Parti contraenti di cooperare tra loro affinché sia individuato un luogo sicuro dove condurre i naufraghi. A proposito della nozione di luogo sicuro, la stessa Convenzione riprende quanto indicato dalle direttive elaborate dal Maritime Safety Committeedell’Organizzazione Marittima Internazionale (MSC 167-78 del 2004). In motivazione la Corte di Cassazione ne riporta i passaggi più rilevanti: “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non e più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale” (par. 6.12); inoltre “sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative.”(par. 6.13). Per i giudici della Corte di Casazione in definitiva, «Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse».” Come si dirà ancora più avanti, di questi principi ordinanti derivati da Convenzioni internazionali, nella sentenza del TAR Lazio non si trova traccia.
2. Con una inversione del sistema gerarchico delle fonti stabilito dalla Costituzione (art.117) e ribadito dalla Corte di Cassazione, il TAR del Lazio, attribuisce invece valore preponderante e ruolo gerarchico sovraodinato a norme interne ed a decisioni amministrative, rispetto agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, richiamati anche dal Regolamento UE n.656 del 2014, e dunque vincolanti per il nostro paese. Si afferma infatti che” Il Collegio, quindi, ritiene che l’art. 10-ter del d.lgs n. 286/1998, alla stregua di una sua interpretazione logico-funzionale, costituisca espressione del principio che radica la competenza del citato Dicastero (Ministero dell’interno, n.d.a.) a realizzare le condizioni perché le operazioni di soccorso e la gestione del flusso migratorio nel Paese possano avvenire in modo ordinato, sicuro ed efficiente. Alla medesima conclusione si giunge anche sulla base di un’interpretazione combinata di tali norma con l’art. 1 della l.n. 121/1981 che attribuisce al ridetto Ministero con generalità e pienezza i poteri necessari alla gestione dell’ordine pubblico, di cui fa parte la gestione del flusso migratorio via mare”.
L’art. 10-ter del Testo unico 286/1998 in materia di immigrazione, introdotto nel 2017, non assegna affatto al Ministero dell’interno una competenza esclusiva nella individuazione del Porto sicuro di sbarco, indicando semmai una competenza concorrente con quella di altri ministeri, con riferimento al cosiddetto Approccio Hospot, con riferimento a persone già sbarcate sul territorio nazionale. Secondo la norma, “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.
All’art. 10 ter si aggiunge adesso che (art.1-bis) introdotto dal D.L. 10 marzo 2023, n. 20, convertito con modificazioni dalla L. 5 maggio 2023, n. 50,“Per l’ottimale svolgimento degli adempimenti di cui al presente articolo, gli stranieri ospitati presso i punti di crisi di cui al comma 1 possono essere trasferiti in strutture analoghe sul territorio nazionale, per l’espletamento delle attività di cui al medesimo comma. Al fine di assicurare la coordinata attuazione degli adempimenti di rispettiva competenza, l’individuazione delle strutture di cui al presente comma destinate alle procedure di frontiera con trattenimento e della loro capienza è effettuata d’intesa con il Ministero della giustizia”. E’evidente a questo punto, anche a fronte delle più recenti modifiche legislative, che la norma riguarda poteri del Ministero dell’interno, delegati ai prefetti, in raccordo con altre amministrazioni dello Stato, con riferimento a cittadini stranieri già sbarcati ed entrati nel territorio nazionale, anche a seguito di operazioni di soccorso in mare, ma non anche quei naufraghi che si trovano ancora a bordo della nave soccorritrice e che hanno diritto allo sbarco in un porto sicuro, “nel tempo più breve ragionevolmente possibile” come impongono le Convenzioni internazionali. Fermo restando il potere del ministero dell’interno, e dunque dei prefetti, di trasferire quelle persone via terra (con autobus) in tempi certamente più brevi dei trasferimenti via mare, verso i centri di accoglienza individuati nel territorio nazionale. Come peraltro avveniva normalmente fino al 2017, prima del Codice di Condotta per le ONG adottato dall’ex ministro dell’interno Minniti, e dei Decreti sicurezza imposti nel 2018 e nel 2019 da Salvini.
Se si va a leggere il testo dell’art,1 della legge 1 aprile 1981, n.121,(Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza) citato dal Tar Lazio si scopre soltanto che ” Il Ministro dell’interno e’ responsabile della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica ed e’ autorita’ nazionale di pubblica sicurezza. Ha l’alta direzione dei servizi di ordine e sicurezza pubblica e coordina in materia i compiti e le attivita’ delle forze di polizia. Il Ministro dell’interno adotta i provvedimenti per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Non si vede davvero come il coordinamento di questa norma di portata generale con l’art. 10 ter del Testo Unico n. 286/98 possa portare il TAR Lazio ad affermare una competnza esclusiva del ministero dell’interno nell’assegnazione del porto di sbarco sicuro (POS), valutazione che richiede valutazioni tecniche (ad esempio lo stato del mare o la velocità presunta della nave soccorritrice a seconda delle condizioni meteo) che rientrano piuttosto nell’ambito delle competenze riconosciute al Ministero dei Trasporti ed al Corpo delle Capitanerie di porto presso sui si trova la Centrale operativa di coordinamento dei soccorsi in mare (MRCC), secondo una scala gerarchica ed una rete di collegamento che è stata chiaramente individuata dalla Giurisprudenza ordinaria.
L’interpretazione “logico-funzionale” dell’art. 1 , legge 1 aprile 1981, n.121, (collegata con l’art.10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n. 286/98, proposta dal TAR Lazio, non permette dunque di individuare una competenza esclusiva del Ministro dell’interno nell’assegnazione del porto sicuro di sbarco ed è contraddetta dalla prevalente giurisprudenza di merito e dalla Corte di cassazione, oltre che dalle Convenzioni internazionali lette per intero, e richiamate nel Piano SAR Nazionale 2020, che pure lo stesso Tribunale cita, anche in questo caso solo parzialmente.
3. E’ vero, come ricorda il TAR Lazio, che in base alle Convenzioni internazionali gli Stati devono adottare piani operativi, concordati con le altre amministrazioni interessate (es. autorità competenti in materia di ordine pubblico, immigrazione ecc.), contenenti in particolare – tra le altre – anche le procedure per l’individuazione del luogo sicuro. Come ricorda lo stesso Tribunale “a tale stregua, nell’ordinamento interno sono state adottate, con direttiva interministeriale, le procedure operative standard (c.d. standard operational procedures -SOP) nel caso di operazioni di soccorso coordinate dall’Autorità preposta al soccorso marittimo, definite nel luglio 2015 nell’ambito di un tavolo tecnico interministeriale”.
Dopo il “Tavolo tecnico interministeriale del 2015”, al quale fa riferimento il TAR del Lazio, il quadro normativo nazionale in materia di soccorsi in mare è cambiato in diverse occasioni, mentre sono rimaste immutate le Convenzioni internazionali e i Regolamenti europei che stabiliscono gli obblighi di ricerca e salvataggio a carico degli Stati. Nel tempo si sono succeduti i decreti legge sicurezza di Salvini, in particolare il “Decreto sicurezza bis” n.53 del 2019, il Decreto legge n.130 (Lamorgese) del 2020,, il Decreto legge (Piantedosi) n.1 del 2023.
In particolare, in base all’art.1 comma 2 del Decreto legge n.130 del 2020, ” Fermo restando quanto previsto dall’articolo 83 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689, limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei ministri, puo’ limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale. Non trovano comunque applicazione le disposizioni del presente comma nell’ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorita’ per la ricerca e soccorso in mare, emesse in base agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di diritto del mare nonche’ dello statuto dei rifugiati fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalita’ organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria”.
Appare dunque evidente, già in base a questa previsione normativa, che in nessun modo, in assenza di un qualsiasi accordo, è possibile affermare una competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritrice nella indicazione del porto sicuro di sbarco, come invece ritengono i giudici amministrativi di quel tribunale. E ancora, alla stregua della stessa norma, il potere di vietare l’ingresso nelle acque territoriali, demandato al ministro dell’interno solo in casi particolari, non corrisponde al diverso potere, che si asserisce come esclusivo, di indicare un porto di sbarco sicuro nel territorio nazionale.
Le competenze nella indicazione del porto di sbarco stabilite da un “tavolo tecnico interministeriale”, come le norme adottate nei decreti legge sicurezza, non possono prevalere sulle norme di diritto internazionale del mare, secondo l’ordine gerarchico delle fonti indicato dall’art. 117 della Costituzione, per quanto richiamate dal Piano SAR nazionale 2020 che riporta sul piano del diritto interno le regole delle attività di ricerca e salvataggio previste dalle Convenzioni internazionali e dal Manuale operativo IMO-IAMSAR che ne costituisce applicazione..
Anche se la definizione di porto sicuro non è stabilita in modo certo nelle Convenzioni internazionali, e pur ritenendo che venga richiamata solamente in documenti di soft law, senza una piena efficacia vincolante per gli Stati, non si può sostenere che l’assegnazione del porto di sbarco sicuro rientri nelle competenze esclusive del ministero dell’interno. Si deve ricordare come il Regolamento europeo n.656 del 2014, che certamente costituisce fonte di obblighi vincolanti per gli Stati, e che in questo senso è citato anche dalla giurisprudenza, richiami le Convenzioni di diritto del mare come fonte degli obblighi vincolanti di ricerca e salvataggio a carico degli Stati membri che ospitano operazioni dell’agenzia Frontex, agenzia europea che concorre con le autorità nazionali tanto nelle attività di law enforcement (contrasto dell’immigrazione irregolare), quanto nelle attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali. Secondo l’art. 9 del Regolamento 656/2014/UE, ” Gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conforme mente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”.
Nello stesso Regolamento, l’art.10 prevede che “nel caso di situazioni di ricerca e soccorso di cui all’articolo 9 e fatta salva la responsabilità del centro di coordinamento del soccorso, lo Stato membro ospitante e gli Stati membri partecipanti cooperano con il centro di coordi namento del soccorso competente per individuare un luogo sicuro e, una volta che il centro di coordinamento del soccorso competente abbia determinato tale luogo sicuro, assicurano che lo sbarco delle persone soccorse avvenga in modo rapido ed efficace”. Nè si potrebbe addurre che quanto previsto per le navi coinvolte in operazioni Frontex non valga nel caso di soccorsi operati da navi delle Organizazioni non governative.
Occorre infatti prendere atto come il Piano SAR nazionale 2020, nella distinzione che opera tra le diverse categorie di navi, suddivise esclusivamente in navi da carico e navi passeggeri, e nella individuazione delle attività di ricerca e salvataggio, non faccia alcun riferimento alla categoria di «navi di soccorso», se non per indicare unità militari appartenenti allo Stato, né attribuisce rilievo alcuno alla categoria delle «attività di ricerca e salvataggio svolte in modo continuativo», che sarebbero svolte dalle ONG, categoria priva di base legale nel diritto internazionale e nell’ordinamento interno, ma che è stata adottata in passato a fondamento dei provvedimenti di fermo amministrativo. Appaiono dunque evidentemente discriminatori i criteri per i quali si stabiliscono soltanto per le ONG porti di sbarco sicuri nei luoghi più lontani dalle aree nelle quali sono avvenuti i salvataggi, mentre non si adotta il medesimo criterio con riferimento ai soccorsi operati in via occasionale da navi commerciali o da navi militari, che vengono fatte normalmente sbarcare nel porto sicuro più vicino. Neppure può valere il rilievo secondo cui le navi delle ONG non avrebbero una “rotta certa” rispetto alla quale stabilire il porto sicuro di sbarco con la minima deviazione possibile, perchè anche le navi da pesca non hanno rotte certe e soprattutto perchè le regole sui soccorsi in mare non sono stabilite nell’interesse esclusivo degli Stati che devono proteggere i propri confini o contrastare l’immigrazione irregolare, ma mirano alla salvaguardia dei diritti umani, a partire dal diritto alla vita, ed alla protezione della dignità della persona che viene soccorsa e della sua integrità psico-fisica. Che non può essere messa a rischio dalle scelte discrezionali di un ministro dell’interno che, anche attraverso l’assegnazione vessatoria del POS, intende dissuadere in ogni modo le attività di ricerca e salvataggio delle navi delle Organizzazioni non governative.
4, L’ Annesso alla Convenzione di Amburgo del 1979 individua per ogni Stato il Centro di coordinamento di salvataggio marittimo – MRCC (1.3.5 dell’Annesso) come “Centro incaricato di provvedere all’organizzazione dei servizi e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso” in una determinata zona di ricerca e salvataggio
Al paragrafo 110 del Piano Sar Nazionale 2020 si prevede che «con riferimento alle Mass Rescue Operations correlate al fenomeno migratorio via mare restano salve le previsioni specifiche di cui all’art. 10-ter del d.lgs. 286/98 «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero». Ma, al successivo paragrafo 111 si aggiunge che per soccorso si deve intendere non solo l’operazione destinata al recupero in mare delle persone in pericolo, con le prime cure mediche, ma anche quanto necessario al loro trasporto in un “luogo sicuro”.
L’obbligo di individuare il POS non ricade soltanto sul Ministero dell’interno ma anche sulla Centrale di coordinamento della Guardia costiera – MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni di soccorso, e delle relative comunicazioni, in accordo con tutte le altre autorità governative interessate. Tale obbligo va considerato alla luce dei poteri del Ministro dell’interno, previsti in base al decreto sicurezza bis n. 53 del 2019, modificato solo parzialmente dal successivo «decreto immigrazione» n. 130 del 2020, convertito in legge a dicembre dello stesso anno.
L’art. 11 del Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) attribuisce al Ministro dell’interno poteri molto ampi in materia di controllo delle frontiere. I piani operativi, concordati con il ministero delle infrastrutture, e dunque con la Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRRC), attribuiscono comunque alla Guardia costiera tutte le attività (anche di coordinamento) necessarie all’adempimento degli obblighi di ricerca e salvataggio (SAR), che dunque ricadono nell’area di responsabilità dal Ministero delle infrastrutture e trasporti, come peraltro è confermato dal Codice della navigazione e dal Piano SAR nazionale del 2020 che lo richiama.
Presso la direzione centrale dell’immigrazione, al ministero dell’interno, è istituita una cabina di regia unica, (Centro nazionale di coordinamento per l’immigrazione -National Coordination Center) ove operano in stretta collaborazione oltre ai rappresentanti della polizia di stato anche gli operatori della Guardia di finanza, dei carabinieri, della capitaneria di porto, nonché della Marina militare, conformemente al quadro legislativo nazionale ed europeo. Questa struttura di coordinamento a livello centrale è frutto di una decisione amministrativa di coordinamento tra enti ministeriali diversi, sia pure in attuazione di normative eurounitarie (Regolamento EUROSUR), e sembra destinata a svolgere prevalenti fiunzioni di coordinamento delle attività di law enforcement / contrasto del’immigrazione irregolare. Ma non può evidentemente sottrarre competenze stabilite per legge, per Convenzioni internazionali e per Regolamenti europei vincolanti, ad altre autorità statali che hanno la responsabilità primaria della salvaguardia della vita umana in mare.
Non è affatto vero dunque quanto sostiene il TAR del Lazio quando afferma che ” L’intervento del Ministero dell’Interno nella designazione del porto di sbarco risulta, quindi, necessario in considerazione dell’imprescindibile necessità dello stesso di effettuare:- per un verso, una valutazione, d’intesa con gli altri Ministeri interessati, circa la conformità dell’intervento alle condizioni di cui all’art. 1, comma 2-bis, del d.l. n. 130/2020 (ai fini dell’eventuale adozione del provvedimento interdittivo di cui al comma 2), – per altro verso, un’essenziale valutazione prognostica, per i profili di specifica competenza, circa le possibili ricadute dello sbarco sulle strutture dedicate e sugli organismi preposti alla gestione degli arrivi, in una determinata località, in termini di rapido ma corretto adempimento degli incombenti correlati alle esigenze di assistenza, di accoglienza e di corretta gestione del fenomeno migratorio via mare”. Innanzitutto i poteri di divieto del ministro dell’interno ricorrono soltanto nei casi specifici previsti dal Decreto legge 130 del 2020 , e dunque quando vi sia un comportamento del comandante della nave non conforme agli obblighi di comportamento e di comunicazione stabiliti a suo carico della legge, violazione che non viene contestata nel caso deciso dal Tar Lazio. Per un altro verso, quando si parla di possibili ricadute dello sbarco sul sistema di accoglienza non si può ridurre la conclusione di una operazione di ricerca e salvataggio con lo sbarco in un porto sicuro alla “corretta gestione del fenomeno migratorio via mare”. Perchè le attività di ricerca e salvataggio (SAR) non rientrano nella “gestione del fenomeno migratorio via mare”, trattandosi di atti dovuti e non di scelte discrezionali, ed anche perchè, pure accettando tale definizione, la gestione del sistema di accoglienza, gravemente destrutturato dopo il Decreto sicurezza n,113 del 2018, non può incidere sulla corretta e tempestiva conclusione di una operazione di ricerca e salvataggio in mare.
In base al paragrafo 220.1 del Piano nazionale SAR 2020 l’autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della Convenzione di Amburgo del 1979, e dunque del completamento delle operazioni di soccorso fino allo sbarco a terra, è il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti pro-tempore. Secondo il punto 370 del Piano SAR Marittimo Nazionale, 2020,“in ogni situazione operativa il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi è determinato in virtù della normativa vigente e delle direttive e dalle linee guida emanate dal Ministro dei Trasporti e/o dal Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera”. Il richiamo operato alle competenze esclusive del ministero dell’interno, nella indicazione del porto di sbarco sicuro sulla base del disposto delle norme nazionali sopra richiamate, contrasta peraltro con la linea seguita dalla difesa del ministro Salvini nel processo di Palermo sul caso Open Arms del 2019. In questo processo, tuttora in corso, la difesa dell’ex ministro dell’interno ha fatto di tutto per dimostrare che la decisione di vietare l’ingresso nel porto di Lampedusa fosse condivisa addirittura dall’intero governo, cercando di ottenere tale riconoscimento durante le deposizioni dei ministri del tempo, e dello stesso ex premier Giuseppe Conte. Mentre adesso l’avvocatura dello Stato e il TAR del Lazio sovrappongono il potere di vietare il transito o l’ingresso in porto con il potere di assegnare il place of safety (POS), e ci vengono a dire che la responsabilità di indicare il porto di sbarco sicuro compete esclusivamente al Ministro dell’interno, sia pure di concerto con il Ministero dei trasporti e per esso con la Centrale di coordinamento della Guardia costiera (MRCC). Sarà a questo punto interessante verificare quale valore attribuiranno a questo nuovo orientamento del Tribunale amministrativo del Lazio i giudici di Palermo che dovranno pronunciarsi sulla responsabilità dell’ex ministro dell’interno che, nell’agosto del 2019, malgrado lo stesso TAR del Lazio avesse sospeso un primo divieto di ingresso nelle acque territoriali, continuava a negare lo sbarco nel porto di Lampedusa, poi imposto dalla Procura di Agrigento a seguito di un sopralluogo sulla nave. Certo, molto dipenderà dalle condizioni dei naufraghi a bordo, anche senza arrivare alla gravità delle condizioni fisiche che richiede una evacuazione medica – MEDEVAC. Rimane semmai da chiedersi, come punto di domanda, se la decisione di oggi non sia anche conseguenza della acquiescenza che la maggior parte delle ONG hanno dimostrato rispetto a lunghi tempi di attesa, prima dell’assegnazione del POS (gestione Lamorgese), e poi alla indicazione di porti di sbarco sempre più lontani, che, nella maggior parte dei casi, sono stati accettati e raggiunti dopo l’insediamento del ministro Piantedosi al Viminale, anche se costituivano una pratica ostruttiva rispetto al corretto svolgersi delle operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali che si dovevano concludere, con lo sbarco in un porto sicuro,” nel tempo più breve ragionevolmente possibile”.
5. Le affermazioni incidentali del TAR Lazio sulla competenza (libica) nei soccorsi in acque internazionali rientranti nella cd. “zona SAR libica” e sulla pretesa competenza primaria dello Stato di bandiera ad indicare il porto di sbarco sicuro, appaiono assai inquietanti. Anche per l’uso politico che se ne sta facendo. La sentenza della Corte di Cassazione n.6626 del 2020, e tutta la giurisprudenza che ha archiviato la maggior parte dei procedimenti penali avviati contro le ONG, hanno escluso la competenza dello Stato di bandiera della nave ad indicare un porto di sbarco sicuro, ed ancora di più che vi sia un obbligo di rivolgersi alle autorità libiche in caso di soccorsi operati nella cosiddetta “zona SAR libica”, impropriamente istituita nel 2018 in assenza di una unica Centrale di coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio (MRCC) e di porti di sbarco sicuri in territorio libico. Come sembra riconoscere ancora oggi il ministro dell’interno Piantedosi. Eppure il Tar Lazio sostiene che ” L’Autorità italiana ha, quindi, agito a tutela dei migranti in una situazione di inerzia sia dello Stato costiero nella cui area SAR è stato effettuato l’intervento di soccorso (in questo caso la Libia) sia dello Stato di bandiera della nave, che aveva la giurisdizione in via esclusiva della nave in alto mare (all’interno dell’area SAR libica) come previsto dagli artt. 91, 92 e 94 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay del 1982″. Una tesi, quella della giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera, smentita dalla Corte di Cassazione e da tutte le sentenze dei Tribunali di merito che si sono occupati di soccorsi in mare operati da navi delle ONG battenti diversa bandiera. Ma anche una tesi che ritorna utile nelle difese del processo Salvini a Palermo e che da sempre costituisce la motivazione principale con cui il ministero dell’interno (anche durante la gestione Lamorgese) ha negato o ritardato l’assegnazione di un porto sicuro di sbarco (POS), quando non ha negato del tutto la ricorrenza di un evento di soccorso, trattando il caso come law enforcement e asserendo che i naufraghi si trovavano su una imbarcazione non ancora in condizioni di distress (pericolo grave).
Secondo il TAR del Lazio “l’’assolvimento, da parte del comandante della nave, dell’obbligo di procedere senza indugio al salvataggio di persone in pericolo di vita non impedisce allo Stato di bandiera di fornire alla propria nave le direttive da seguire, compresa l’individuazione del POS, chiedendo eventualmente la cooperazione ad altri Stati, a mente del Capitolo 3 dell’annesso alla Convenzione SAR, rubricato proprio “Cooperazione tra Stati”. E ciò a maggior ragione nel caso di specie in cui la Geo Barents viene impiegata, come le imbarcazioni di altre ONG, in modo stabile e strutturale per soccorrere i migranti in mare in alcune aree del Mediterraneo”. E’ inutile ricordare come su questo punto si sia verificata una grave frattura diplomatica e gli altri Stati dell’Unione, una frattura che appare ben lungi dal risolversi, malgrado la frenetica attività diplomatica del governo Meloni che nei vertici europei più importanti antepone la questione dei soccorsi e dei porti di assegnazione come POS, a tutti gli altri argomenti all’ordine del giorno.
Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, invece «deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il
contatto” sia realizzato con il Centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso
costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle Convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei Trattati e delle Convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile»
Non ha quindi fondamento la successiva osservazione del TAR Lazio, secondo cui, “ anche a voler ritenere applicabile alla specie il par. 6.7 della risoluzione IMO 20 maggio 2004 MSC.167(178), nella parte in cui prevede che il primo Stato contattato è responsabile di coordinare il caso fino all’assunzione della responsabilità da parte dello Stato responsabile o di un’altra autorità competente, non si possono non considerare, per valutare la correttezza dell’adempimento delle Autorità italiane agli obblighi convenzionali: i) la loro prolungata azione di supplenza da tempo svolta, pur senza esservi a stretto rigore tenute (si consideri che l’Italia risulta da anni il Paese con più sbarchi); ii) le connesse rilevanti conseguenze, sotto l’aspetto logistico e organizzativo. In questa chiave valutativa, quindi, ferme le esigenze di soccorso dei migranti, nella specie comunque assicurate, non possono essere pretermesse le esigenze organizzative dello Stato soccorritore a congegnare le operazioni di soccorso in modo da poter gestire in modo ordinato ed efficiente i flussi migratori, nel primario interesse dei migranti a fruire di condizioni di accoglienza decorose. A tale stregua, le modalità di adempimento individuate nella specie risultano senz’altro immuni da censura, nella misura in cui hanno contemperato in modo proporzionale, le esigenze dei migranti con le esigenze organizzative connesse alla loro equa distribuzione e finalizzate ad una migliore accoglienza.
Il rispetto degli obblighi di ricerca e soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali non dipende certo dal numero delle persone che vanno comunque soccorse, e sbarcate in un porto sicuro, indipendentemente dalla capacità recettive del sistema di accoglienza nazionale.
Secondo la Raccomandazione della Commissione europea adottata il 23 settembre 2020 (Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso) lo Stato di bandiera ha una responsabilità relativa al controllo dei requisiti ai fini della registrazione delle navi, ma in alcun modo questa responsabilità comporta l’assegnazione dell’obbligo di indicare un porto di sbarco sicuro (come si può ricavare, seppure indirettamente, dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Sea Watch, C-14/21 del 1° agosto 2022).
6. L’intero ragionamento seguito nella decisione del TAR Lazio si poggia sulla asserita inesistenza dell’obbligo di sbarco nel porto sicuro (POS) più vicino, e su questo non ci possono essere dubbi, ma questa considerazione non può implicare, una volta che la nave soccorritrice abbia richiesto un porto di sbarco, la indicazione di un POS che imponga diversi giorni di navigazione a persone che rivestono a tutti gli effetti la qualità di naufraghi fino alla conclusione dell’operazione di soccorso, con lo sbarco a terra.
La sentenza richiama a fondamento della sua motivazione il punto 3.1.9 dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo SAR del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.
Si omette però di ricordare altre disposizioni dello stesso Annesso alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, che pure viene ritenuto fonte normativa vincolante dal TAR Lazio, che specificano gli obblighi a carico dello Stato tenuto ad indicare un porto di sbarco sicuro alla nave soccorritrice che ne faccia richiesta. Un obbbligo imposto dalle Convenzioni internazionali, e non una mera facoltà discrezionale, anche quando il soccorso è avvenuto in una zona di ricerca e salvataggio che sarebbe di competenza di un altro Stato costiero. La Risoluzione IMO (Organizzazione internazionale del mare) MSC.167(78) (adottata il 20 maggio 2004) impone che gli Stati responsabili debbano “… fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito…” (paragrafo 2.5) ai naufraghi e ai sopravvissuti soccorsi.
Nella medesima risoluzione, il paragrafo 6.12, definisce come “porto sicuro” (o place of safety, POS) il luogo in cui si considerano terminate le operazioni di salvataggio. In detto luogo, i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio per la loro vita e possono accedere ad alcuni beni e servizi fondamentali (cibo e acqua, rifugio e ripario, cure mediche), nonché, a tutte le procedure per poter ottenere un trasferimento verso la destinazione finale o la più vicina, anche al fine di presentare una domanda di asilo.
In base alla Risoluzione MSC.167(78) del 2004, che fissa le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare:
6.3 Una nave non dovrebbe essere soggetta a indebiti ritardi, oneri finanziari o altre difficoltà correlate dopo aver prestato assistenza a persone in mare; pertanto gli Stati costieri dovrebbero dare il cambio alla nave non appena possibile.
6.8 I governi e l’RCC responsabile dovrebbero compiere ogni sforzo per ridurre al minimo il tempo in cui i sopravvissuti rimangono a bordo della nave che presta assistenza
6.13 Una nave che presta assistenza non dovrebbe essere considerata un luogo sicuro basandosi unicamente sul fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato a bordo della nave. Una nave che presta assistenza potrebbe non disporre di strutture e attrezzature adeguate per sostenere altre persone a bordo senza mettere in pericolo la propria incolumità o prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti. Anche se la nave è capace di ospitare in modo sicuro i sopravvissuti e può fungere da luogo temporaneo di sicurezza, dovrebbe essere sollevato da questa responsabilità al più presto in quanto è possibile prendere accordi alternativi.
6.14 Un luogo sicuro può essere a terra, oppure può essere a bordo di un’unità di soccorso o altra imbarcazione o struttura idonea in mare che possa fungere da luogo sicuro fino allo sbarco dei sopravvissuti verso la destinazione successiva.
6.15 Le Convenzioni, come modificate, indicano che la consegna in un luogo sicuro dovrebbe tener conto delle circostanze particolari del caso. Tali circostanze possono includere fattori quali la situazione a bordo della nave che presta assistenza, le condizioni sulla scena, le esigenze mediche e la disponibilità di mezzi di trasporto o di altre unità di soccorso. Ogni caso è unico e la selezione di un luogo sicuro potrebbe dover tenere conto di una serie di fattori importanti.
6.20 Qualsiasi operazione e procedura come lo screening e la valutazione dello stato delle persone soccorse che vanno oltre il fornire assistenza alle persone in difficoltà non dovrebbe essere autorizzata a ostacolare la fornitura di tale assistenza o ritardare indebitamente lo sbarco di superstiti della nave o delle navi che prestano assistenza.
L’articolo 98 della Convenzione UNCLOS fa riferimento ad «ogni persona» e le previsioni più importanti delle Convenzioni SAR e SOLAS vietano qualsiasi discriminazione sulla base dello status delle persone da soccorrere in mare. Non si possono adottare dunque per le navi delle ONG regole diverse da quelle stabilite per tutti i comandanti delle navi che operano soccorsi in acque internazionali. Le convenzioni internazionali non permettono ancora di discriminare i naufraghi, ed i socorritori, a seconda che le attività di ricerca e salvataggio siano svolte dalla nave soccorritrice in modo occasionale, o avvengano con modalità continuative. In ogni caso deve prevalere la salvaguardia della vita umana in mare ed il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Come impone anche l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98, a prescindere dalla loro condizione giuridica.
Rimane poi incomprensibile il richiamo operato dal TAR del Lazio alla nozione di Place of safety (POS) dal “Regolamento 2013/106 del Parlamento Europeo e del Consiglio” secondo sui si definisce il POS come “un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento”. Si tratta probabilmente di una svista formale dell’estensore della sentenza, perchè è il Regolamento UE n.656 del 2014 che, all’art. 2 lettera A punto 12, indica negli stessi termini la nozione di luogo sicuro, appunto come ” un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento“. Se di mera svista formale si tratta, con riferimento al Regolamento europeo n.2013/106 del Parlamento Europeo e del Consiglio, a meno che non esista un Regolamento europeo che ci rimane ignoto, appare interessante che i giudici del TAR Lazio abbiano riconosciuto la valenza normativa di un Regolamento europeo (che non citano correttamente) in ordine alla qualificazione di porto sicuro di sbarco. Perchè quello stesso Regolamento attribuisce valore gerarchico sovraordinato alle fonti nazionali -come diritto cogente- alle norme di diritto internazionale di diritto del mare che pure richiama, ad esempio in materia di accertamento delle condizioni di distress, tanto da impedire qualsiasi confusione tra “eventi migratori”, da monitorare e contrastare con attività di “law enforcement”, ed “attività di ricerca e salvataggio” nelle quali ricorrono obblighi inderogabili di intervento a carico degli Stati costieri.
Analoga “svista” si rinveniva nel decreto con cui il Ministro Piantedosi nel novembre del 2022 cercava di imporre gli “sbarchi selettivi” ai comandanti di due navi delle ONG presenti nel porto di Catania. Nei provvedimenti relativi a firma del ministro si citava erroneamente il Regolamento europeo n. 1624 del 2016, successivamente cancellato dal Regolamento n.1896 del 2019, che appunto abrogava i regolamenti (UE) n. 1052/2013 e (UE) 2016/1624. Mentre non veniva abrogato, invece, il Regolamento europeo n.656 del 2014, tuttora in vigore, che probabilmente, con riferimento agli obblighi di soccorso in acque internazionali, contiene norme che, anche per la loro forza direttamente cogente nell’ordinamento interno, non risultano gradite al Viminale.
Secondo il Tribunale di Catania che in quella occasione affermava la soccombenza “virtuale” del Ministero dell’interno, essendosi comunque verificato lo sbarco a terra di tutti i naufraghi, il soccorso non si esaurisce con l’assistenza in mare, ma si conclude solo quando il naufrago sbarca in un luogo sicuro (place of safety), dove possono essere garantite le necessità umane primarie: cibo, alloggio, cure mediche, protezione internazionale. Lasciare un naufrago su una nave equivale a non prestare il soccorso completo richiesto dagli obblighi internazionali.
7. Appare poi singolare, e sintomatica della torsione politica che dimostra l’intera sentenza del TAR Lazio, l’argomentazione di rigetto del ricorso basata sulla considerazione del tribunale secondo cui non ricorrerebbe “la manifesta irragionevolezza e sproporzione degli atti impugnati, che sarebbero sfociati nella designazione di un porto di sbarco “gravosa”. Al proposito, è sufficiente richiamare quanto già illustrato ai parr. 11.2, 11.3, 11.4, 11.5 e 11.6 sulla correttezza e sulla proporzionalità delle scelte compiute dall’Amministrazione avuto riguardo alla situazione concreta e cioè: i) alla prontezza della designazione del porto di sbarco; ii) all’assenza di situazioni di urgenza da parte dei migranti; iii) all’indisponibilità – puntualmente comprovata dalle allegazioni della difesa erariale non efficacemente confutata dalla ricorrente – dei centri di accoglienza nelle zone vicine a quella del luogo del soccorso, a causa della congestione da sovraffollamento dei migranti già ospitati; iv) allo smistamento dei migranti in zone non lontane dal luogo di sbarco; v) al tempo di permanenza dei migranti a bordo, analogo ad altre pregresse vicende in cui detta permanenza era dipesa dal ritardo della Geo Barents nel contattare le Autorità italiane. A fronte di tali puntuali evidenze, le ricorrenti non hanno offerto alcun elemento tangibile a dimostrazione dell’aggravamento della condizione dei migranti, che era tale da non destare allarme. Neppure è stato enucleato il benché minimo riscontro in merito alla lamentata irragionevolezza delle determinazioni contestate. Altrettanto infondata, infine, risulta la censura di irragionevolezza della decisione (v. nota 8/1/2023) con cui l’Amministrazione ha negato alla Geo Barents diretta verso il porto di Ancona la possibilità di trasbordare i 73 naufraghi a bordo sulla nave Ocean Viking (essa stessa diretta verso il porto di Ancona). Sul punto, va evidenziato che il potere autorizzativo in materia apparteneva in via esclusiva alla competenza dell’autorità SAR coordinatrice al cui interno della Regione SAR è avvenuto il recupero. Pertanto l’autorità di soccorso italiana non era competente per fornire tale autorizzazione. A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 1 comma 2-bis lett. d) del d.l. n. 130/2020, come modificato dal Decreto Legge n. 1/2023, “il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso”. Si ammette in questo modo che il raggiungimento del porto di sbarco sicuro deve verificarsi “senza ritardo”, ma poi si indicano località di sbarco lontane giorni di navigazione. Non si fornisce la prova che a sud di Ancona o La Spezia, nei giorni dei soccorsi operati dalle navi di MSF, non esistessero centri di accoglienza in grado di dare ospitalità ai naufraghi soccorsi in acque internazionali in pieno inverno. Si omette anche di ricordare che l’autorità di coordinamento dei soccorsi (MRCC) può ben coordinare soccorsi al di fuori della zona SAR di propria competenza, come avviene ormai da anni nella zona SAR maltese. Si ribadisce quindi il divieto di “soccorsi multipli”, introdotto dal Decreto legge n.1 del 2 gennaio 2023, anche nella lunga fase di navigazione verso il porto assegnato, ma il Comandante della nave, per effetto dell’obbligo imposto dalla Convenzione Solas, Cap. V, Reg.33 deve prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere- con tutta rapidità- all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia comunque avuto informazione.
Secondo Francesca De Vittor, docente di Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano,“L’assegnazione di porti di sbarco ingiustificatamente lontani contraddice l’idea di cooperazione in buona fede tra gli Stati stabilita dalle Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare”. Secondo l’art.31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, (Regola generale per l’interpretazione) “Un trattato deve essere interpretato in buona fede in base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce dei suo oggetto e del suo scopo”. Si può riscontrare questa buona fede nella applicazione del concetto di porto sicuro da parte del ministro dell’interno ? O prevalgono piuttosto fini politici che non vengono espressamente esplicitati e motivati.
Sulla finalità di una corretta conclusione delle operazioni di soccorso e di una equilibrata diffusione dei naufraghi in diverse regioni italiane, finalità attuata in passato per decine di migliaia di persone con trasferimenti via terra, prevale indubbiamente lo scopo politico di tenere lontane le navi delle ONG da quelle zone del Mediterraneo centrale nelle quali più frequentemente operano interventi di ricerca e salvataggio.
La sentenza del Tar del Lazio che legittima l’assegnazione di porti non solo “gravosi” ma “vessatori”, quelli più lontano possibile dalla zona dei soccorsi, e soltanto per le navi del soccorso civile, asserendo che in questo modo si puo’ garantire una migliore distribuzione dei naufraghi sul territorio nazionale e’ peraltro smentita dal principio di realta’. Infatti, favorendo la presenza e le attività di salvataggio delle Ong, e assegnando sollecitamente porti di sbarco che non ritardano ulteriori attività di soccorso, gli sbarchi possono essere programmati, come avveniva fino al 2017 (fino al codice di condotta Minniti). Fino ad allora, addirittura, le navi delle ONG trasbordavano su altre navi umanitarie, se non su navi della Guardia costiera o della Marina militare, i naufraghi appena soccorsi e riprendevano subito le attività di ricerca e salvataggio, sotto coordinamento della centrale operativa della Guardia costiera italiana. Esattamente l’opposto di quanto avviene oggi, non perchè siano mutate le Convenzioni internazionali, ma per i diversi indirizzi politici dei governi e dei ministri dell’interno. Allontanando le Ong, assegnando porti di sbarco sempre più lontani, ed impedendo i cosiddetti “soccorsi multipli”, come si stabilisce con il Decreto legge n.1 del 2023, oltre la consueta criminalizzazione dei soccorsi umanitari, si violano le Convenzioni internazionali, che da allora ad oggi non sono cambiate, si sguarnisce di mezzi di soccorso il Mediterraneo centrale e si aumentano in modo esponenziale gli arrivi “in autonomia”, almeno di quelle persone più fortunate che il mare non inghiotte dopo giorni di abbandono in acque internazionali, per la mancanza di mezzi di soccorso che possano intervenire con la necessaria tempestività. Una tempestività dei soccorsi che viene meno se si riducono i mezzi navali che possono operare attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali e che, in nome dei poteri esclusivi del ministero dell’interno, e delle “esigenze organizzative” del sistema di accoglienza in Italia, viene negata anche da sentenze come quest’ultima pronuncia del TAR Lazio.
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