Perché l’attuale crisi del capitalismo rafforza quanti l’hanno causata? Perché la maggioranza dei cittadini assiste al proprio impoverimento e all’arricchimento scandaloso di pochi come qualcosa di necessario e inevitabile per non peggiorare la situazione? Perché la stabilità dei mercati finanziari è possibile solo a costo della instabilità della vita della maggioranza della popolazione? Perché la crescita economica è oggi la panacea di tutti i mali dell’economica e della società senza che ci si domandi se i costi sociali e ambientali sono o no sostenibili? Perché Malcolm X aveva ragione quando avvertì: «Se non state attenti, i giornali vi convinceranno che la colpa dei problemi sociali è degli oppressi e non degli oppressori»? (…).
Queste domande dovrebbero far parte dell’agenda di riflessione politica delle sinistre, o presto la strada che queste prenderanno sarà per il museo delle felicità passate. Cosa che non sarebbe grave se non significasse, come significa, la fine della felicità futura delle classi popolari. La riflessione dovrebbe partire da qui: il neoliberismo è anzitutto una cultura della paura, della sofferenza e della morte per la maggior parte delle popolazioni; non è possibile combatterlo con efficacia senza opporgli una cultura della speranza, della felicità e della vita. Le sinistre incontrano difficoltà ad assumersi il ruolo di veicolo di questa altra cultura perché da molto tempo sono cadute nella trappola che le destre hanno sempre teso per mantenersi al potere: ridurre la realtà a quello che esiste, per ingiusto o crudele che sia, di modo che la speranza delle maggioranze appaia irreale. La paura nell’attesa uccide la speranza nella felicità. (…)
Una volta ampliata la realtà sulla quale bisogna agire politicamente, le proposte delle sinistre devono risultare credibili (…). Questa lotta deve essere orientata da tre principi chiave: democratizzare, demercificare e decolonizzare. Democratizzare la democrazia, perché l’attuale si è lasciata sequestrare dai poteri antidemocratici. È necessario mettere in evidenza che una decisione presa democraticamente non può essere annullata il giorno dopo da un’agenzia di rating o da una bassa quotazione delle borse. Demercificare significa mostrare che usiamo, produciamo e scambiamo merci, ma che non siamo mercificati né accettiamo di relazionarci con gli altri e con la natura come se fossero una merce in più. Prima che produttori o consumatori siamo cittadini, e per questo è necessario sottoscrivere l’imperativo che non tutto si compra o si vende, che ci sono beni pubblici e beni comuni come l’acqua, la salute e l’educazione. Decolonizzare significa sradicare dalle relazioni sociali l’autorizzazione a dominare gli altri col pretesto che sono inferiori: perché sono donne, perché hanno un colore della pelle differente o perché professano una religione “strana”.
Stralci di un articolo tratto dal quotidiano boliviano La razón (8 aprile 2012, titolo originale «Quinta carta a las izquierdas», tradotto e pubblicato da Adista (l’immagine in alto è un dipinto murale di Alice Pasquini).
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