Jean Robert è un architetto svizzero, migrato in Messico da quarant’anni, docente universitario di Storia delle tecnica. Amico e collaboratore di Ivan Illich ha scritto articoli e libri preziosi dedicati ai temi della critica allo sviluppo. Il più importante è «La potenza dei poveri», tradotto e edito in Italia da Jaka book (ne parliamo qui), una lunga conversazione con Majid Rahnema (uno dei relatori alla Conferenza internazionale della decrescita di Venezia). Di seguito, un’intervista a Robert (hanno collaborato Loredana D’Elia e Aldo Zanchetta).
Ne La potenza dei poveri, scritto con Majid Rahnema, sostenete che bisogna smettere di definire e di trattare quattro miliardi di uomini e di donne come «persone che vivono con due dollari al giorno», per ascoltarli, aprirsi a loro, affidarsi alla potenza di poveri. Cos’è la potenza dei poveri?
Definire «povero assoluto» chiunque guadagni meno di un dollaro al giorno e «povero relativo» chiunque ne guadagni meno di due è puro cinismo burocratico in stile Onu e Banca mondiale e crederci si basa su questa beata ingenuità con la quale i bravi cittadini si lavano la coscienza. Ma lei, facendomi questa domanda, si rende conto di postulare uno, un sistema economico, chiamiamolo «dominante» e «capitalista», due, uno stile di vita regolato da standard internazionali indiscutibili e tre un pensiero unico, come viene giustamente definito.
Proviamo ad analizzare questi tre elementi.
Uno. Il sistema economico che i paesi ricchi hanno cercato di imporre nel corso di oltre sei decenni di disastro chiamato sviluppo ha ucciso, nella maggioranza dei cittadini dei paesi sviluppati e «in via di sviluppo» la capacità stessa di pensare che «un altro mondo è possibile», come dicono gli zapatisti, che altri mondi sono esistiti e che tutto ciò che ha un inizio avrà certamente una fine, che l’esistenza di questo sistema economico, nonostante il suo enorme potere di cooptazione e la violenza nei confronti di chi gli oppone resistenza, è precario.
Due. Ciò che Serge Latouche definisce standard di vita fa parte di un progetto di unificazione degli stili di vita in tutto il mondo. All’inizio del XX secolo gli esperti di geografia umana studiavano le diverse modalità di vita dei vari paesi del mondo, mettendo in rilievo le particolarità e l’originalità di ognuna di esse. Oggi, poiché la scienza è diventata, come diceva Ivan Illich, ricerca a pagamento, università e istituti mondiali finanziano gli studi sulle specificità locali non per onorarle ma per analizzare ciò che, all’interno di tali specificità, ostacola lo sviluppo economico. Così ad esempio uno studio messicano «rivelava» come uno degli ostacoli allo sviluppo economico fosse l’amore per il proprio territorio che impediva ai giovani di «realizzare il proprio potenziale economico» emigrando là dove i redditi sono più elevati.
Tre. Tali ricerche sugli «ostacoli locali allo sviluppo» fanno sì che un determinato stile di vita, chiamiamolo stile nord-atlantico, venga considerato «naturale» e quindi indiscutibile. In questo modo si mette il concetto stesso di sviluppo al riparo di qualsiasi critica presentandolo, come voleva Walter Rostow nel suo libro su «Le tappe della crescita economica», pubblicato negli anni Sessanta, come il semplice effetto di una legge evolutiva generale la cui la fase matura corrispondeva a un’esistenza totalmente sottomessa agli spazi e ai tempi imposti dai trasporti motorizzati, nella quale tutto ciò che arriva sulla tavola è stato acquistato in un supermercato e in cui tutto ciò che permetteva la sussistenza autonoma, gli usi civici e comunali, le attività vernacolari che producevano valori d’uso, è progressivamente eliminato in quella che Illich definiva guerra alla sussistenza. Ci sono voluti sei decenni di un simile lavaggio del cervello chiamato «sviluppo» per arrivare a isolare una persona dalle proprie circostanze storiche, geografiche e culturali e considerare del tutto naturale trattarla come un salariato miserabile, inetto oppure sfortunato, che necessita di essere sottoposto a una vera e propria terapia. In un testo purtroppo ormai perduto scritto in italiano, Illich sosteneva che storicamente l’uomo occidentale ha dato prova di tolleranza terapeutica verso tutti quelli che, non essendo ancora come lui, dovevano essere convinti a diventarlo. Le definizioni di povertà assoluta e relativa della Banca mondiale sono i dispositivi della guerra alla sussistenza le cui vittime dovrebbero essere trattate con tolleranza terapeutica.
Perché non sarebbe possibile definire la povertà in modo generale? Cos’è la vita vernacolare, basata sui principi della povertà conviviale, per dirla sempre con Ivan Illich, comune a tutte le civiltà della storia?
Purtroppo, come ho detto prima, definire la povertà in termini generali non solo è possibile ma è oggi un vero e proprio fatto scientifico, in un mondo in cui la scienza non è altro che ricerca a pagamento. Foucault parlava di «produzione di verità». Quando nel 2008 uscì il nostro libro ebbe una discreta visibilità nelle librerie di Parigi, ma un altro testo, pubblicato dallo stesso editore e apparentemente sullo stesso tema, andava a ruba. Titolo, «Perché siete poveri?»; Metodo: prendere alla lettera tutte le «verità scientifiche» che sostengono lo sviluppo e andare nei paesi poveri a interrogare degli sfortunati testimoni sui motivi che li hanno spinti a rompere con gli standard e le norme: «Signora, perché si ostina a guadagnare meno di due dollari al giorno?». Personalmente ritengo un simile metodo, acclamato dagli scienziati, più disonesto che ingenuo.
Se potessimo liberarci dai paraocchi imposti di volta in volta dallo sviluppo, dalla scienza, ossia la cosiddetta scienza economica, e dall’immersione nel comfort che ancora caratterizza l’esistenza dei ricchi, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, capiremmo: che il lavoro salariato è un’invenzione relativamente recente; che l’idea keynesiana di un’economia capace di offrire «un lavoro per tutti» ha meno di settantacinque anni; che questa stessa idea è stata sconfitta dai recenti accadimenti.
In un primo libro consacrato al tema della povertà, Quando la povertà diventa miseria, Jaka Book, Majid Rahnema tracciava una distinzione chiarissima tra povertà e miseria. Durante le nostre conversazioni riprende con forza questa distinzione essenziale. Appartenente alla tradizione sufista per discendenza materna, conosce bene i concetti arabo-persiani di povertà felice e povertà volontaria di certi mistici e la possibilità aperta, oggi, di una povertà conviviale. Storicamente la povertà volontaria è legata a un mondo vernacolare che favorisce la produzione autonoma di valori d’uso. Il cosiddetto sviluppo, nella sua guerra alla sussistenza, ha significato la distruzione implacabile di qualsiasi vestigia di vita vernacolare e sussistenza. Il vero etnocidio delle culture contadine europee dopo la Seconda Guerra mondiale è una fase di questa guerra che, dopo la morte dei contadini tradizionali, si è estesa a tutti i settori dell’esistenza.
Nel 1991 André Gorz scriveva: «La civiltà capitalistica va inesorabilmente verso il crollo catastrofico; non è più necessaria una classe rivoluzionaria per abbattere il capitalismo, poiché esso scava la propria tomba…». È d’accordo? La crisi globale, economica quanto ambientale, è il crollo al quale alludeva Gorz?
Durante la Seconda Guerra mondiale, Karl Polanyi, che la vedeva come la crisi finale del capitalismo, pensava che questo non le sarebbe sopravvissuto. E invece l’ha fatto, e in base ai suoi parametri, anche molto bene. Durante i famosi «trent’anni gloriosi», il capitalismo per un certo periodo ha addirittura mostrato un «volto umano»: riduzione delle ore di lavoro, allungamento delle ferie retribuite, accesso massiccio delle donne al sacrosanto impiego. Questi vantaggi e diverse «vittorie sindacali» hanno reso i cittadini ciechi di fronte al lento e inesorabile scempio che si stava compiendo: mutamento della relazione tra città e campagne, ristrutturazioni territoriali su larga scala, persecuzione degli artigiani in vista della loro estinzione e etnocidio della classe contadina. Sia André Gorz che Polanyi avevano ragione, ma è impossibile fare delle previsioni precise: non sappiamo se il capitalismo si riprenderà dalla cosiddetta «crisi» finanziaria. Ciò che è certo è che, se si riprende, nel corso della sua ripresa distruggerà gli ultimi settori di esistenza vernacolare, di comunità e di vera libertà rimasti.
Nel libro scrivete anche che movimenti inediti, dai Sem terra agli zapatisti, mettono in luce fatti semplici, ancorati al quotidiano. Siamo di fronte a pratiche nuove di rivoluzione che potrebbero diffondersi?
Sì, ma è difficile prevedere i tempi. Majid ha collezionato per il nostro libro degli esempi di questi cambiamenti radicali, prodotti di azioni che mirano a obiettivi limitati.
Cosa pensa dei movimenti latinoamericani del «buen vivir» emersi negli ultimi anni, delle rivolte arabe? È cominciata una nuova stagione per i ribelli di tutti i «sud del mondo»?
Sì, credo che una nuova stagione sia cominciata. Ma andiamo per ordine: sì, Evo Morales entusiasmava quando parlava di «buen vivir». Purtroppo le sue decisioni politiche successive hanno smorzato l’entusiasmo. Si tratta di un concetto che, a mio parere, dovrebbe essere ripensato immergendolo nelle comunità indigene, così ricche di potenzialità per un «mondo in cui ci sarebbe posto per molti mondi».
Gli indignati europei mi hanno fanno pensare alla nostra età, la mia e quella di Majid, «nuestra bola de años» come si dice in Messico. L’espressione, e l’essenza stessa del movimento che la rivendica, viene dall’esempio e dall’opera di un ultraottuagenario, Stéphane Hessel. C’è stata una distruzione della memoria di tale portata che «noi vecchi», memorie viventi, come nel caso degli indigeni non possiamo morire senza aver fatto sentire la nostra voce, il ricordo di «ciò che è stato» e che potrebbe, se «rifunzionalizzato» per dirla con Alfredo Lopez Austin, ritornare vitale. È il tempo delle alleanze tra nipoti e nonni. Forza nonni!
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