Come vivere dentro la distruzione e il caos? In che modo possiamo rifiutare la gabbia dell’indifferenza ma anche le tendenze di tipo apocalittico? Domande come queste rimbalzano ovunque con diverse sfumature di fronte ai molti volti della catastrofe ecologica. Se lo scenario della politica istituzionale è di una miseria infinita vale la pena allora soffermarsi su testi, autori, correnti di pensiero e azione che non smettono di creare una nuova cultura politica. Michael Löwy, ad esempio, in un testo pubblicato in Francia nel 2020 – da poco meritoriamente ristampato da ombre corte – ragiona sul concetto di ecosocialismo, richiamando tra gli altri Walter Benjamin: «Diversamente dal marxismo evoluzionista volgare, Benjamin non concepisce la rivoluzione come il risultato “naturale” o “inevitabile” del progresso economico e tecnico, ma come l’interruzione di uno sviluppo storico che porta al disastro… Benjamin definiva come una “tempesta” il progresso distruttivo che accumula catastrofi». Che fare? «C’è poco da aspettarsi dai governi del pianeta – scrive Löwy, -, salvo rare eccezioni. La sola speranza sta nei movimenti sociali reali; tra questi, uno dei più importanti oggi è quello delle comunità indigene, in particolare in America Latina. … Come afferma la tesi XVIII (di Benjamin) sul concetto di storia, ogni secondo è la porta stretta dalla quale può venire la salvezza…». Un capitolo di Ecosocialismo. L’alternativa radicale alla catastrofe capitalista
Walter Benjamin è stato uno dei pochissimi marxisti che prima del 1945 ha proposto una critica radicale del concetto di “sfruttamento della natura” e del rapporto “assassino” che la civiltà capitalista ha con essa.
Già nel 1928, nel suo libro Strada a senso unico, denuncia l’idea di dominio sulla natura come discorso “imperialista” e propone una nuova concezione della tecnica come “gestione dei rapporti tra la natura e l’umanità”. Come nei suoi scritti degli anni Trenta, di cui parleremo più avanti, si riferisce alle pratiche delle culture premoderne per criticare l’“avidità” distruttiva della società borghese nel suo rapporto con la natura: “le vecchie usanze dei popoli sembrano inviarci un avvertimento: astenerci dal gesto di avidità quando si tratta di accettare ciò che abbiamo ricevuto così abbondantemente dalla natura”. Dovremmo “mostrare profondo rispetto” per la “Madre Terra”; se un giorno “la società fosse in pericolo a causa della sua avidità e si trovasse al punto di rubare i doni della natura […] il suo suolo si impoverirà a tal punto da far fallire il suo raccolto”. Sembra che questo giorno sia arrivato…
In questo libro troviamo anche, con il titolo Segnalatore d’incendio (Fire Warning), una premonizione storica delle minacce del progresso, intimamente associate allo sviluppo tecnologico guidato dal capitale: “se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata”[1].
Benjamin si è sbagliato per quanto riguarda l’inflazione, ma non sulla guerra, anche se non poteva prevedere che l’arma “chimica”, vale a dire i gas letali, non sarebbero stati usati sui campi di battaglia, come nella Prima guerra mondiale, ma per lo sterminio industriale di ebrei, zingari, omosessuali e ritardati mentali. Diversamente dal marxismo evoluzionista volgare, Benjamin non concepisce la rivoluzione come il risultato “naturale” o “inevitabile” del progresso economico e tecnico (o della “contraddizione tra forze e rapporti di produzione”), ma come l’interruzione di uno sviluppo storico che porta al disastro. L’allegoria della rivoluzione come “freno d’emergenza” è già suggerita in questo passo.
È perché avverte questo pericolo catastrofico che Benjamin, nel suo articolo sul surrealismo del 1929, si definisce pessimista – un pessimismo rivoluzionario che non ha nulla a che vedere con la rassegnazione fatalista, e ancor meno con il Kulturpessimismus tedesco, conservatore, reazionario e prefascista (Carl Schmitt, Oswald Spengler, Moeller van der Bruck): qui il pessimismo è al servizio dell’emancipazione delle classi oppresse. La sua preoccupazione non è per il “declino” delle élite o della nazione, ma per le minacce che il progresso tecnico ed economico promosso dal capitalismo pone all’umanità.
La filosofia pessimistica della storia di Benjamin in questo saggio del 1929 si manifesta in modo particolarmente acuto nella sua visione del futuro europeo: “pessimismo su tutta la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte della letteratura, sfiducia nella libertà, sfiducia nella sorte dell’umanità europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli. E illimitata fiducia solo nel gruppo Farben e nel perfezionamento pacifico dell’aviazione”[2].
Questo sguardo lucido e critico consente a Benjamin di percepire – intuitivamente ma con una strana acutezza – le catastrofi che attendevano l’Europa, perfettamente riassunte dalla frase ironica sulla “fiducia illimitata”. Naturalmente, nemmeno lui, il più pessimista di tutti, poteva prevedere la distruzione che la Luftwaffe avrebbe inflitto alle città e alle popolazioni civili europee; e ancor meno immaginare che l’I.G. Farben sarebbe diventata, appena una decina di anni dopo, famosa per la produzione del gas Zyklon B usato per “razionalizzare” il genocidio, né che le sue fabbriche avrebbero impiegato, a centinaia di migliaia, la mano d’opera concentrazionaria. Tuttavia, unico tra i pensatori e leader marxisti di quegli anni, Benjamin ebbe la premonizione delle mostruose catastrofi che poteva partorire la civiltà industriale/borghese in crisi.
Se Benjamin rifiuta le dottrine dell’inevitabilità del progresso, non di meno propone un’alternativa radicale al disastro imminente: l’utopia rivoluzionaria. Le utopie, i sogni di un futuro diverso, nascono, scrive in “Parigi, capitale del xix secolo” (1935), in intima associazione con elementi provenienti da una storia arcaica (Urgeschichte), “vale a dire una società senza classi”, primitiva. Depositate nell’inconscio collettivo, queste esperienze del passato producono, “compenetrandosi col nuovo, l’utopia”[3].
Nel suo saggio del 1935 su Bachofen, antropologo svizzero del xix secolo, noto per le sue ricerche sul matriarcato, Benjamin sviluppa questo riferimento alla preistoria in modo più concreto. Se il lavoro di Bachofen ha attirato l’attenzione di marxisti, come Friedrich Engels, e di anarchici, come Élisée Reclus, è per la sua “nozione di comunismo primitivo”, una società senza classi, democratica ed egualitaria, con forme di comunismo primitivo che significa un vero “rovesciamento del concetto di autorità”[4].
Le società arcaiche sono anche quelle che presentano una maggiore armonia tra gli esseri umani e la natura. Nel Passagenwerk, il suo libro incompiuto sui passaggi parigini, si oppone nuovamente, nel modo più energico, alle pratiche di “dominio” o “sfruttamento” della natura da parte delle società moderne. Ancora una volta rende omaggio a Bachofen per aver dimostrato che l’“idea feroce dello sfruttamento della natura”, una concezione capitalista/moderna predominante nel xix secolo, non esisteva nelle società matriarcali del passato, dove la natura era vista come una madre dispensatrice di doni (schenkenden Mutter)[5].
Per Benjamin, come del resto per Engels o Élisée Reclus, non si tratta di tornare al passato preistorico, ma di proporre la prospettiva di una nuova armonia tra la società e l’ambiente naturale. Il pensatore che per lui incarna questa promessa di una futura riconciliazione con la natura è il socialista utopico Charles Fourier. È solo in una società socialista, in cui la produzione cesserà di essere fondata sullo sfruttamento del lavoro umano, che “il lavoro perderebbe a sua volta il carattere di sfruttamento della natura da parte dell’uomo e si effettuerebbe secondo il modello del gioco infantile che in Fourier è alla base del travail passionné des harmonies. […]. Un tale tipo di lavoro animato dal gioco non è diretto alla produzione di valori, ma al miglioramento della natura. […] Una terra ordinata secondo quest’immagine” sarebbe un luogo in cui l’“azione e il sogno diventerebbero fratelli”[6].
Nelle Tesi Sul concetto di storia, Benjamin ritorna ancora una volta a Fourier, l’utopista visionario che sognava “un lavoro che, lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo” – sogni la cui espressione poetica sono le sue “fantasticherie”, in realtà piene di “senso sorprendentemente sano”. Questo non vuol dire che l’autore delle tesi voglia sostituire il marxismo con il socialismo utopico: considera Fourier come un complemento di Marx, e nella stessa tesi xi si parla della discordanza tra le osservazioni di Marx sulla natura del lavoro e il conformismo del programma socialdemocratico di Gotha. Per il positivismo socialdemocratico, rappresentato da questo programma, ma anche dagli scritti dell’ideologo Joseph Dietzgen, “il lavoro […] ha per sbocco lo sfruttamento della natura, che viene contrapposto, con ingenua soddisfazione, allo sfruttamento del proletariato”. In questo tipo di ideologia, si tratta di un “approccio alla natura che rompe sinistramente con le utopie pre-1848” – un ovvio riferimento a Fourier. Peggio ancora, con il suo culto del progresso tecnico e disprezzo per la natura – “è là gratuitamente” secondo Dietzgen – questo discorso positivista “mostra già i tratti tecnocratici che più tardi si incontreranno nel fascismo”[7].
Nelle Tesi del 1940 troviamo una corrispondenza – nel senso che Baudelaire attribuisce a questo termine nel suo poema Le corrispondenze – tra teologia e politica: tra il paradiso perduto da cui ci allontana la bufera che chiamiamo “progresso”, e la società senza classi agli albori della storia, così come tra l’era messianica del futuro e la nuova società senza classi del socialismo. Come interrompere la catastrofe permanente, l’accumularsi delle macerie “verso il cielo”, derivante dal “progresso” (tesi ix )? Ancora una volta, la risposta di Benjamin è insieme religiosa e profana: è il compito del Messia, la cui “corrispondenza” profana non è altro che la Rivoluzione. L’interruzione messianica/rivoluzionaria del progresso è quindi la risposta di Benjamin alle minacce che fanno pesare sull’umanità la continuazione della bufera malefica e l’imminenza di nuovi disastri. Siamo nel 1940, a pochi mesi dall’inizio della “soluzione finale”.
Nelle Tesi Sul concetto di storia, Benjamin fa spesso riferimento a Marx, ma su un punto importante prende le distanze dall’autore del Capitale:
“Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”[8].
Implicitamente, l’immagine suggerisce che se l’umanità permette al treno di seguire il suo percorso – già tracciato dalla struttura d’acciaio dei binari – e nulla fermerà la sua corsa, precipiteremo direttamente verso il disastro, o nell’abisso.
Tuttavia, persino Walter Benjamin, il più pessimista dei marxisti, non poteva prevedere fino a che punto il processo di sfruttamento e di dominio capitalista della natura – e la sua copia burocratica nei paesi dell’Est prima della caduta del Muro – avrebbe portato a conseguenze disastrose per l’intera umanità.
Alcune osservazioni sull’attualità politico-ecologica delle riflessioni di Benjamin
In questo inizio del xxi secolo, assistiamo a un “progresso” sempre più rapido del treno della civiltà capitalistica verso un abisso, un abisso che si chiama “catastrofe ecologica”, e che nel cambiamento climatico ha la sua espressione più drammatica. È importante considerare la crescente accelerazione del treno, la vertiginosa velocità con cui si avvicina al disastro. In realtà, la catastrofe è già iniziata, e ci troviamo in una corsa contro il tempo per cercare di prevenire, contenere, fermare questa fuga in avanti, il cui risultato sarà l’aumento della temperatura del pianeta – che avrà come conseguenza (tra le altre) la desertificazione di territori immensi, l’aumento del livello dei mari, e dunque la scomparsa delle grandi città marittime: Venezia, Amsterdam, Hong Kong, Rio de Janeiro.
Per fermare questa corsa, scrive Benjamin, è necessaria una rivoluzione. Ban Ki-Moon, Segretario generale delle Nazioni Unite dal gennaio 2007 al dicembre 2016, che non ha nulla di un rivoluzionario, annunciava nel 2009 (“Le Monde” del 5 settembre) la seguente diagnosi: “Noi – questo “noi” si riferisce ovviamente ai governi del pianeta – abbiamo il piede incollato all’acceleratore e precipitiamo verso l’abisso”.
Walter Benjamin definiva come una “tempesta” il progresso distruttivo che accumula catastrofi. La stessa parola, “tempesta”, appare nel titolo, che sembra ispirato da Benjamin, dell’ultimo libro di James Hansen, il climatologo della Nasa negli Stati Uniti e uno dei maggiori specialisti del cambiamento climatico nel mondo. Il libro, pubblicato nel 2009, si intitola Storms of my grand children. The truth about the coming climate catastrophe and our last chance to save humanity (Bloomsbury, New York 2009) 9 . Nemmeno Hansen è un rivoluzionario, ma la sua analisi della “tempesta” – che per lui, come per Benjamin, è l’immagine di qualcosa di ben più minaccioso – è di una lucidità impressionante.
C’è poco da aspettarsi dai governi del pianeta, salvo rare eccezioni. La sola speranza sta nei movimenti sociali reali; tra questi, uno dei più importanti oggi è quello delle comunità indigene, in particolare in America Latina. Dopo il fallimento della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite a Copenaghen, il presidente Evo Morales – che aveva solidarizzato con le proteste di piazza nella capitale danese – ha riunito nel 2010 a Cochabamba, in Bolivia, la Conferenza Internazionale dei popoli contro i cambiamenti climatici e in difesa della Pachamama, la Madre Terra. Le risoluzioni adottate a Cochabamba corrispondono, quasi parola per parola, alle argomentazioni di Benjamin circa il trattamento criminale della natura da parte della civiltà occidentale capitalista, mentre le comunità tradizionali la considerano una “madre dispensatrice di doni”.
Walter Benjamin è stato un profeta, vale a dire, non qualcuno che pretende di prevedere il futuro, come l’oracolo greco, ma nel senso del Vecchio Testamento: colui che attira l’attenzione del popolo sulle minacce future. Le sue previsioni sono al condizionale: questo è ciò che accadrà, a meno che… salvo se… Nessun fatalismo: il futuro resta aperto. Come afferma la tesi xviii sul concetto di storia, ogni secondo è la porta stretta dalla quale può venire la salvezza.
Note
1 Benjamin, Strada a senso unico, cit., p. 44.
2 Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, in Opere complete. iii . Scritti 1928-1929, ed. it. a cura di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2010, p.212.
3 Benjamin, Parigi, capitale del xix secolo, in Opere complete. ix . I “passages” di Parigi, ed. it. a cura di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2000, pp. 6-7.
4 Walter Benjamin, Johann Jakob Bachofen, in Opere complete. vi . Scritti 1934-1937, ed. it. a cura di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2004, p. 234.
5 Walter Benjamin, Baudelaire, in Opere complete. ix , cit., p. 399.
6 Benjamin, Parigi, capitale del xix secolo, cit., p. 398.
7 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, in Opere complete. vii , cit., pp. 488-489. Come sappiamo, Walter Benjamin, intercettato a Port-Bou, al confine con la Spagna, e minacciato di essere consegnato alla Gestapo dalla polizia di Franco, ha scelto il suicidio (agosto 1940).
8 Ivi, p. 497. Si tratta di una delle note preparatorie delle Tesi, che non appare nella versione finale del documento. Il passaggio di Marx cui si riferisce Benjamin figura in Le lotte di classe in Francia (1850): “Die Revolutionen sind die Lokomotiven der Geschichte” (la parola “universale” non figura nel testo di Marx).
9 James Hansen, Tempeste. Il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti, l’urgenza di agire, trad. it. di E. Cella, Edizioni Ambiente, Milano 2010 [N.d.T].
Capitolo quarto (titolo originale La rivoluzione è il freno di emergenza: attualità politico-eologica di Walter Benjamin) del libro di Michael Löwy Ecosocialismo. L’alternativa radicale alla catastrofe capitalista (traduzione dal francese di Gianfranco Morosato), edito da ombre corte.
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