La pandemia ha mostrato una volta di più che le filiere lunghe sono insostenibili ed esposte agli shock, mentre le catene produttive corte sono caratterizzate da maggiore resilienza e sostenibilità. Cresce quindi l’urgenza di ripensare i sistemi economici a partire dalla produzione per il mercato locale, e il cibo è un buon punto di ingresso per portare la riflessione sul “reshoring” nel contesto politico-istituzionale. L’esempio di Roma è interessante perché nasce da un percorso lanciato dalla società civile: cinquanta associazioni, aziende agricole, reti, movimenti, professionisti e accademici hanno chiesto e ottenuto l’impegno dell’amministrazione a realizzare una politica del cibo partecipata, che si fondi sui valori dell’agroecologia e della giustizia sociale

“Rilocalizzare” è oggi uno degli imperativi che il mondo dei movimenti e delle reti della società civile dovrebbe mettere molto in alto nella lista delle sue priorità. Il dibattito sul cosidetto reshoring o – meglio ancora – backshoring, è entrato infatti anche nella vulgata istituzionale.
Ne discutono le Nazioni Unite, gli USA, l’Unione europea, i media. Non poteva essere altrimenti: la pandemia ha mostrato tutta la fragilità e la precarietà di una globalizzazione basata sullo spostamento dei centri produttivi nei luoghi del mondo a più bassi standard sociali e ambientali.
Le istituzioni sono state costrette a riflettere su come riorganizzare i sistemi economici per evitare una crescita della sfiducia nel modello di sviluppo. In questo spazio può inserirsi la società civile con le sue istanze più trasformative.
Una delle strategie possibili è partire dai territori, per spingere le autorità a svolgere quel ruolo – costantemente compresso, ma non ancora svanito – di gestione e indirizzo mirato di flussi economici e politiche sociali.
Ci sono alcuni settori in cui la politica pubblica, anche a livello locale, può giocare un ruolo concreto per praticare la rilocalizzazione: uno di questi è il cibo. Intorno al cibo stagionale di filiera corta, infatti, si registra un generale consenso da parte del pubblico e pressoché tutti siamo preoccupati del futuro degli agricoltori, di ciò che mangeremmo senza di loro e del buono stato ecologico delle aree rurali intorno alle nostre città. C’è quindi da un lato il “terreno fertile” per agire politicamente a supporto di sistemi alimentari locali, dall’altro la necessità di farlo prima di subito.
Oggi, secondo le Nazioni Unite, il 55% della popolazione mondiale vive in ambienti urbani, la tendenza globale è in costante crescita e le proiezioni indicano che entro il 2050 questo numero salirà al 68%. Nel nostro Paese questa soglia è stata superata già nel 2018 e oggi più del 70% degli italiani vive in contesti urbanizzati. Nella prospettiva in cui la domanda di cibo nelle città sarà sempre maggiore, è divenuto fondamentale pianificare lo sviluppo ecologico dei sistemi alimentari urbani.
Ci troviamo oggi a un punto di svolta, che vede un’agricoltura di piccola scala biodiversa ed ecologica arretrare costantemente di fronte all’incedere dell’agroindustria, la quale porta con sé una maggiore capacità di servire le mutate abitudini di consumo, ma genera al contempo significativi impatti climatico-ambientali, riduce il numero di occupati e contribuisce allo spopolamento delle aree rurali.
In modo simmetrico, notiamo che a valle della filiera cresce la concentrazione dei consumatori nei grandi centri urbani e si moltiplicano le persone collegate a filiere meno sostenibili, con chiare ripercussioni sul diritto di accesso al cibo e la povertà alimentare.
In questo quadro, le istituzioni sono chiamate a mettere in campo politiche alimentari integrate, capaci di garantire l’equo accesso a un cibo sano e sostenibile, di sostenere lo sviluppo rurale e le filiere locali e di incentivare l’agroecologia e il lavoro agricolo di qualità. Intervenire sui sistemi alimentari urbani permette di promuovere la sicurezza alimentare, valorizzare le attività agricole di prossimità e i rapporti tra città e campagna, contrastare il fenomeno del consumo di suolo e lo spopolamento delle aree rurali.
È qui che entrano in gioco le politiche del cibo (food policies).

Politiche del cibo per i territori
L’espressione food policy, che è possibile tradurre in italiano come politica alimentare o politica del cibo, indica l’insieme delle strategie e degli strumenti che le istituzioni possono adottare per intervenire sui sistemi alimentari locali, dai processi di produzione alla trasformazione, distribuzione, consumo e smaltimento del cibo, con l’intento di garantire la salute delle persone e dell’ambiente, favorire l’occupazione e promuovere l’innovazione.
In tutto il mondo, negli ultimi anni, le istituzioni locali hanno progressivamente compreso le sfide chiave relative ai sistemi alimentari e hanno aumentato il loro impegno nella programmazione in questo ambito. La natura di queste sfide cambia a seconda del contesto di riferimento e la scelta delle priorità e degli obiettivi delle food policies è del tutto politica. Questi percorsi, per quanto differenti tra loro e specifici per ogni territorio, presentano temi comuni.
Per esempio, decine di città nel mondo hanno posto tra gli obiettivi delle proprie politiche alimentari la riduzione degli sprechi e la valorizzazione dei rifiuti organici. Questo è avvenuto principalmente per i Paesi più sviluppati, nei quali lo spreco alimentare è prevalente nelle fasi finali della filiera.
Nelle città nordamericane, invece, si interviene spesso sul tema della salute pubblica con la lotta all’obesità e alle patologie legate alle abitudini alimentari, così come sulle questioni della giustizia e dell’accesso al cibo. Toronto, per esempio, per contrastare la crescita dei food deserts, ha favorito lo sviluppo di attività commerciali che vendono a prezzi accessibili cibo sano e di qualità.
Nelle città dell’America Latina, le food policies sono declinate più esplicitamente in termini di sicurezza alimentare e promozione di sviluppo economico locale, soprattutto attraverso iniziative di sostegno all’agricoltura urbana e familiare. Un esempio viene da Rio de Janeiro dove, dal 2012, una legge garantisce che ogni mercato di produttori dello Stato includa, come minimo, il 10% di agricoltori del comune di Rio. Vendendo principalmente prodotti freschi, il circuito rafforza e favorisce l’agricoltura sostenibile su piccola scala e a basso impatto ambientale in tutto lo stato di Rio, portando cibo sano e locale nell’area urbana, direttamente dall’azienda agricola alla tavola, a prezzi equi e con continuità.
Le politiche del cibo in Italia
Nonostante il dibattito sulle food policies sia da tempo avviato, e nel nostro paese abbia visto nascere l’esperienza – ormai sette anni fa – della città di Milano, la sfida non è stata raccolta con decisione da molte altre amministrazioni. Eppure in un paese come l’Italia, con un settore agricolo caratterizzato da un’ossatura di piccole e medie aziende, le politiche locali del cibo potrebbero giocare un ruolo chiave di pianificazione economica, inserendosi nel percorso di rilocalizzazione dei sistemi produttivi e dei consumi. Si tratta quindi di politiche determinanti per la transizione ecologica del sistema alimentare.
Con questa idea, nel 2019 a Roma è nato un movimento di circa 50 associazioni, aziende agricole, reti e movimenti sociali, professionisti e accademici che ha avanzato una proposta politica rivolta all’amministrazione comunale: impegnarsi nella costruzione di una politica del cibo attraverso una pianificazione condotta in pieno ascolto delle istanze provenienti dalla società civile.
Il Comitato promotore della food policy per Roma si è accordato intorno a un manifesto che analizza il sistema alimentare romano e propone alcuni punti di indirizzo, che ha poi promosso in una campagna durata fino all’aprile 2021, quando finalmente il Consiglio comunale ha adottato all’unanimità una delibera che impegna l’amministrazione a realizzare la food policy attraverso un processo inclusivo e partecipato.

Capitale del cibo
L’esperienza di Roma, pur scontando un forte ritardo rispetto al percorso milanese, che oggi può vantare un profilo internazionale, potrebbe avere a sua volta una eco importante. Per diverse ragioni: la prima, come accennato, è la natura bottom-up del processo che ha portato alla delibera istitutiva della food policy, un unicum a livello nazionale. Un’altra deriva, più semplicemente, dal contesto sociale, ambientale ed economico che caratterizza la capitale.
Roma è infatti il comune agricolo più grande d’Italia e tra i più vasti in Europa, popolato da circa 2000 aziende agricole e con una provincia che ne conta oltre 20.000. Si tratta in gran parte di realtà di piccola scala, a conduzione diretta del coltivatore e a pieno titolo ascrivibili a un sistema di agricoltura familiare ancora prevalente nel nostro paese. Molte praticano la vendita diretta in azienda, poche arrivano a commercializzare invece sul territorio romano, pur avendo a disposizione una straordinaria rete di 127 mercati rionali.
Qui, su circa 5000 postazioni, oltre la metà è occupata da operatori dell’agroalimentare, in prevalenza commercianti. Appena un centinaio di agricoltori, secondo i calcoli di Terra!, entrano nei mercati rionali romani, ma il numero potrebbe essere ben superiore.
Resta infatti un 20% di banchi vuoti, con licenze scadute da riassegnare. Il declino dei mercati può quindi essere arrestato grazie all’attività del Comune e dei suoi Municipi, che hanno un ruolo chiave nel ripopolare tramite appositi bandi questi spazi alternativi alla grande distribuzione organizzata.
Altri driver di connessione fra agricoltori locali e consumatori nella capitale sono le strutture per la refezione collettiva. Fra queste, è importante citare le mense scolastiche: Roma offre ogni giorno il servizio di ristorazione scolastica a circa 144.000 bambine e bambini delle scuole dell’infanzia, delle scuole primarie e secondarie di primo grado.
Questi dati ci dicono che plasmando i capitolati d’appalto in modo che seguano criteri di filiera corta, sostenibilità e stagionalità si possono ottenere importanti ricadute sul tessuto economico urbano, periurbano e rurale. Intervenire con la leva del public procurement su questo comparto potrebbe avere effetti a cascata anche su altre forme di refezione collettiva, come gli approvvigionamenti per il sistema ospedaliero o universitario, le case circondariali o le case famiglia.
Roma è inoltre una città molto viva anche dal punto di vista dei cosiddetti alternative food networks: mercati contadini, gruppi di acquisto solidale (GAS) e sistemi agricoli supportati da comunità. Per esempio, le ultime stime elencano circa 90 GAS sul territorio comunale, un utile canale alternativo per i piccoli agricoltori locali.
Infine, l’ampia superficie di terreni pubblici presenti nella città e nella regione rappresenta un’opportunità straordinaria di attivare politiche per il ricambio generazionale nel settore produttivo, invertendo una tendenza all’invecchiamento dell’agricoltura che affligge tutta Europa.
L’accesso alla terra dei giovani è scoraggiato dalla mancanza di capitale, oltre che dalla difficoltà di trovare percorsi di formazione che garantiscano un reale inserimento lavorativo. La gran parte degli under 40 che fanno il loro ingresso nel settore primario è composta da persone con titolo di studio medio-alto e una coscienza ambientale più sviluppata, dimostrata dal fatto che, facendo l’esempio italiano, gestiscono il 38% delle superfici destinate al biologico.
L’Italia però soffre più di altri paesi del mancato ricambio generazionale: pur essendo il terzo per numero di aziende agricole nell’UE, per ogni agricoltore sotto i 35 anni ne conta dieci over 65.

Passi avanti
Le condizioni al contorno permetterebbero dunque alla food policy di Roma di frenare la crisi nelle campagne, connettendole più saldamente con il consumo locale. La speranza è ora che il tema dell’agroalimentare possa finalmente diventare oggetto di programmazione nel Comune agricolo più grande d’Italia, e che le sue istituzioni vi pongano la stessa attenzione riservata fino a oggi ad altri ambiti della vita civile. I primi segnali sembrano incoraggianti, ma starà anche alla stessa società civile organizzarsi meglio per attivare un confronto solido e continuo con l’istituzione, fornendo proposte e percorsi concreti di rilocalizzazione efficace dei flussi produttivi e dei consumi connessi.
L’urto della pandemia ha forse contribuito ad accendere un faro sull’importanza della pianificazione urbana, con le diseguaglianze finite ancor più al centro del dibattito pubblico, specialmente per quanto riguarda la povertà alimentare. Ed è forse proprio alla luce di un diritto al cibo gravemente violato che si possono trovare le ragioni e le forze per tradurre in realtà istanze da troppo tempo marginalizzate e sottovalutate.
Troppi anglicismi ,”parla come maggni” ,e poi povertà alimentare , diritto al cibo ….e allora ORTI SOCIALI e ORTI URBANI . Le città sono grandi sempre più estese , ma comprendono tanti spazi coltivabili in piccola e piccolissima scala.
E la domanda di microspazi esiste ed è esplosa negli ultimi anni in tutto il mondo .Trenta metri quadri è la parcella offerta a Padova ( per 70 €/anno) ma a mille recenti domande sono corrisposte 130 assegnazioni !
Questo è il quadro immagino estensibile a ogni città. Soddisfarlo è aprire orizzonti di autosufficienza alimentare , relativa ma importante. E’ riempire la vita di salubrità e relazioni sociali, è benessere e autorealizzazione.
La rivoluzione che auspicate e che condivido : agricoltura URBANA FAMILIARE, ha bisogno per essere completata di questa iniezione “dal basso” che sottrae agli specialismi e, anche forse, moltiplica i potenziali futuri GIOVANI agricoltori di prossimità .
Con stima.