L’arte di creare e la ricerca di un lavoro indipendente sono, per migliaia di persone, da oltre due secoli strade per sfuggire a un destino di dominio e di miseria. La storia dell’architetto Giambattista Piranesi, bravo quanto irrequieto, come le vicende di chi oggi svolge una lavoro autonomo, precario o intermittente, sono parte del “Quinto Stato”. Precari antichi e moderni cambiano città e impiego lottando contro povertà ed esclusione. In Italia, sono circa 13 milioni di persone, migranti inclusi. Questa condizione, tuttavia, si traduce anche in un’altra possibilità, spiegano Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, autori Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente sarà il nostro futuro: “proteggere e affermare l’autonomia nel lavoro e nella società da parte dei non garantiti e di chi conduce una vita indipendente”.
di Giuseppe Allegri, Roberto Ciccarelli*
«Giambattista Piranesi, architetto veneziano, membro onorario della Società degli Antiquari di Londra, socio dell’Accademia di san Luca, cavaliere dello Speron d’oro, figlio di Roma, morì il 9 novembre 1778, accudito dalla famiglia». Dopo avere rifiutato le cure mediche, dettò queste parole e chiese di leggere Tito Livio, di rivedere i suoi disegni, le sue acqueforti, i suoi rami incisi. I suoi figli Francesco e Pietro sarebbero emigrati nel 1799 a Parigi dopo avere partecipato attivamente ai moti rivoluzionari italiani della Repubblica romana. Attorno a quel letto erano radunate due generazioni.
La prima era quella della pittura e dell’architettura veneta, di cui Piranesi fu uno dei massimi rappresentanti. La seconda era quella illuminista, e rivoluzionaria, che provò ad assaltare il cielo sull’onda della Rivoluzione francese e del triennio delle repubbliche giacobine in Italia. Padre e figli ebbero un destino comune: furono nomadi in Italia e in Europa, in cerca di un ingaggio da parte di un mecenate, fuggendo da quei monarchi (o dal papa) che avevano riconosciuto la loro insubordinazione a difesa dell’indipendenza della propria arte e per creare un regime politico repubblicano, laico e democratico.
A Venezia, come a Verona, nacquero artisti di fama mondiale che da Vienna a Mosca, da Roma a Madrid fino a Londra e al Nord Europa allietarono le vedute e gli affreschi dei grandi palazzi imperiali, di mercanti e di borghesi. Tiepolo, Tiziano e Canaletto, insieme a Bellotto, erano all’avanguardia sul mercato europeo dell’arte, mentre in patria erano precari sottopagati e sfruttati; molto spesso lavoravano gratuitamente e alcuni di loro furono costretti ad abbandonare Venezia poiché committenti o mecenati non rispettavano i tempi di pagamento, lasciandoli così nella miseria più nera, in attesa che l’ufficiale giudiziario bussasse alla porta.
Piranesi rappresenta l’intelligenza più irrequieta della rivolta contro l’opportunismo dei committenti i quali, pur tenendo in grande considerazione i valori artistici assoluti, rifiutavano di pagarli. Il «figlio di Roma» – perché a Roma, diversamente che nell’odiata Venezia, il suo talento era stato riconosciuto (e pagato) – pochi mesi prima di morire, nel marzo 1778, scrisse una lettera a una sorella: «Esule da Venezia, sua patria, per non aver potuto ottenere nemmeno un impieguccio… non vi farà mai più ritorno tanto più che questa città, quantunque adorna di magnificentissimi edifici e dipinti, non era teatro capace a dar pascolo alla sublimità dei suoi grandiosi concepimenti, come lo era Roma, e le altre città dell’Italia meridionale».
A Roma, delle sue opere «il Santo Padre ne faceva a quando a quando acquisto per regalarle ai Principi che visitavano Roma, pagando 200 scudi per copia». Aveva fatto fortuna, sessantamila scudi da investire nella sua officina e in un museo personale. Nella «santa città», il valore della creazione, e del lavoro della sua impresa, andava difeso contro «quelli che farsi dovrebbero Mecenati e sottrarla [l’architettura] all’arbitrio di coloro, che i tesori posseggono, e che vi fanno credere di potere a loro talento disporre delle operazioni della medesima».
Per Piranesi, innovatore concettuale e artigiano intagliatore, l’architettura doveva avere un carattere civile e funzionale. E l’unico modo di pensare e agire era quello pragmatico: «spiegare con disegni le proprie idee». Parlava dell’«arte di disegnare non solo le mie invenzioni, ma di intagliarle ancora nel rame». Nel repertorio di questa corrispondenza, emerge uno spirito costituente. Piranesi condivideva le passioni di una civiltà mai sopita. La sua resistenza incarnava lo spirito della grande e popolare rivolta che avrebbe terrorizzato il potere europeo per tutto il secolo successivo.
La sua attitudine alla creazione, come alla ricerca di un lavoro indipendente, ancora oggi indica una via per sfuggire al destino di miseria riservato alla gran parte della popolazione attiva nel nostro continente, in particolare nell’Europa meridionale. La rivendicazione di Piranesi è giunta intatta sino ai nostri giorni. La richiesta di un congruo compenso da parte dell’artista è la stessa che avanzano i lavoratori indipendenti contemporanei. Essere pagati in maniera equa, e nei tempi prestabiliti, è la rivendicazione di chi vuole veder rispettata, tutelata e garantita la propria operosità.
Nel risentimento del grande architetto, così come nel modello di vita di chi oggi svolge una lavoro autonomo, precario o intermittente, si rispecchia la condizione del Quinto Stato. Parliamo di una forma di vita dove ritroviamo le esperienze degli attori della commedia dell’arte che transitavano dall’Italia alla Francia; dei librai e stampatori che diffondevano il libero pensiero; degli artigiani o lavoranti – quindi non solo grandi artisti o filosofi – che emigravano in Europa oppure cambiavano città, impiego e committenti in Italia. Questa condizione viene sempre raffigurata come il lato oscuro della povertà, dell’esclusione e dell’abbandono. Lo è stata, e lo è senz’altro oggi. Essa traduce tuttavia anche un’altra possibilità: proteggere e affermare l’autonomia nel lavoro e nella società da parte dei non garantiti e di chi conduce una vita indipendente.
Nella penombra rumorosa delle officine, tra il piombo e gli inchiostri, nel silenzioso sfruttamento delle botteghe e nella persecuzione degli indipendenti trattati come disoccupati o vagabondi, devianti o lazzaroni, sono state molte le generazioni determinate a scatenare il conflitto per il riconoscimento personale, per la negoziazione del valore di una prestazione o per la libertà della propria esistenza, ancor prima che della propria attività. La battaglia è ancora in corso. Restiamo in ascolto del suo rumore sordo nell’Europa dell’austerità.
Foto: un momento del workshop sul diritto alla città promosso a Roma da Macao e Valle occupato
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* Tratto da Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente sarà il nostro futuro, di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli (Ponte Alle Grazie 2013, pubblicato anche in e-book). Sabato 5 ottobre sarà presentato al Mezzocannone Occupato di Napoli (ore 19).
Dalla precarietà alla convivialità
A proposito di reinventare il lavoro e del concetto di autonomia, suggeriamo la lettura di questo saggio di Gustavo Esteva e Irene Ragazzini della Universidad de la Tierra (Oaxaca, Messico). La nozione di precariato diffusa in Europa assume significati diversi nel contesto latinoamericano. Comincia da questa differenza la loro originale analisi. Richiamando il pensiero di diversi autori e osservando le esperienze maturate in pezzi di società latinoamericana, Esteva e Ragazzini mostrano come gruppi di lavoratori (i piqueteros o i lavoratori delle imprese recuperate in cooperative in Argentina, alcuni produttori e commercianti dei mercati mesoamericani, diverse comunità indigene, i lavoratori sem terra in Brasile…) affrontino sempre più spesso le loro condizioni di precarietà costruendo relazioni di mutuo soccorso e solidarietà, cioè nuove relazioni sociali che vanno oltre il capitalismo, pur agendo al suo interno ed essendo sfruttati in forma diversa da quella salariale. In questo contesto emergono espressioni come buen vivir, con i governi che tendono a screditare oppure a cooptare, e si recupera il significato di convivialità proposto da Ivan Illich. Secondo gli autori sono in atto cambiamenti che dimostrano, tra le altre cose, come la dominazione di classe resti prima di tutto un dominio sulla coscienza delle persone e sulla loro fiducia in se stesse. Tuttavia, «gradualmente le persone stanno articolando i termini di un’organizzazione sociale basata sull’energia personale», recupeando spazi di autonomia in modo collettivo con il «sostegno dei tre pilastri di amicizia-speranza-sorpresa». Per questo viene segnalata l’opportunità di passare dalla descrizione della precarietà alla ricerca e al riconoscimento delle relazioni «conviviali».
Is that all you have to say? What, Witty, you’d have skipped over this article completely were it not for the opportunity to browbeat a woman of Palestinian origin? You’ll print reams upon reams of mostly empty verbiage condemning Hamas, but when Israel commits blatant acts of aggression and ethnic cleansing in your name as a sec-ideslrfbed Jewish national, you have absolutely nothing to say except, “Oh, it might actually be legal.”