Sarà, come s’è detto sempre, perché affondano salde radici nella terra e lanciano i rami verso il cielo dell’infinito. Sarà anche per quell’allegoria di saggezza ma tutti sanno che gli alberi, da che mondo è mondo, sono espressione della vita. La straordinaria quanto esemplare esperienza di un contadino saheliano del Burkina Faso, l’uomo che ha piantato oltre diecimila alberi – con una tecnica naturale e per oltre quarant’anni – laddove sembrava assurdo farlo, assegna nel nostro tempo agli alberi un’altra essenziale valenza simbolica. È quella della resistenza, in primo luogo alla desertificazione e ad altre nefaste conseguenze degli effetti dei cambiamenti del clima di questi anni. Loukmane Sawadogo è il figlio di quel contadino, e naturalmente cammina con disinvoltura sulle orme del padre. Nelle scorse settimane è venuto nel Salento, invitato dal Gruppo Umana Solidarietà, per incontrare persone impegnate in progetti volti ad affermare l’autonomia e l’inclusione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel territorio della provincia di Lecce. Un’occasione per avviare un dialogo tra esperienze lontane ma capaci di entrare in risonanza su grandi temi come la difesa della biodiversità, la dimensione comunitaria e il territorio, la lotta alla cultura patriarcale e alla povertà educativa. In Puglia c’erano molte persone che desideravano ascoltare il racconto della nostra esperienza in Africa, sono stato accolto bene, ha detto Loukmane rispondendo a una delle nostre domande. Poi ha aggiunto: adesso siamo insieme, siamo diventati una famiglia. Possiamo imparare gli uni dagli altri, il cambiamento comincia così, da noi. Sì, non sarebbe male tenere a mente che ogni cambiamento vero, profondo, deve affondare le radici nella terra, far cadere le foglie quando serve e farne nascere di nuove, ma poi lanciare i rami verso l’infinito

Ormai quella consapevolezza lì è abbastanza diffusa: piuttosto che tentare di prevederlo, il futuro, non possiamo che darci da fare perché un giorno esso diventi presente. Non è più un fatto scontato, com’era accaduto per secoli. Lo sappiamo: la terra continuerà a riscaldarsi, i ghiacciai a sciogliersi, il livello degli oceani ad alzarsi sommergendo città e terre emerse, ma l’acqua che non è salata sarà invece un privilegio per pochi.
C’è chi ha calcolato che fra una dozzina d’anni la desertificazione che avanza e gli altri effetti nefasti dei cambiamenti del clima avranno elevato il numero delle persone costrette a cercare rifugio fino a 135 milioni. E c’è chi sostiene, con argomenti alquanto plausibili, che quasi la metà di essi dall’Africa subsahriana tenterà di spostarsi in Nordafrica e in Europa.
Già oggi nel Sahel, la fascia di territorio che dalla Mauritania corre verso il Corno d’Africa, è la precarietà dell’esistenza a dettare i ritmi della vita e le stagioni del tempo per gran parte della popolazione. I raccolti, il lavoro, l’educazione, la salute, la coesistenza pacifica sono esposti come non mai all’incertezza e all’avanzare della sabbia, materia da cui tutti discendiamo, come ricorda sempre – sulle pagine di Comune – Mauro Armanino, missionario a Niamey.

La spasmodica ossessione delle politiche securitarie, poi, pur nascendo da diverse esigenze spesso drammaticamente reali, finisce per alimentare quasi sempre un’illusione pericolosa che serve soprattutto a giustificare la militarizzazione del territorio e gli intenti predatori delle nuove forme della colonialità e dell’economia estrattivista.
Malgrado le tinte fosche del quadro generale, tuttavia, nelle terre poco più a sud del Sahara ci sono persone e comunità che, attraverso un complesso e molteplice mosaico di interventi, soprattutto a scala ridotta, mostrano ogni giorno con evidenza che non hanno alcuna intenzione di arrendersi a un “destino” così avverso. Resistono a ogni tipo di sopruso, così come alle minacce generate dall’impoverimento dei suoli e da modelli di sviluppo e di consumo che devastano l’ambiente, le relazioni sociali tra le persone e quelle con la natura.
Una di quelle persone, un contadino del piccolo villaggio di Gourga, nel nord del Burkina Faso, è diventato molto nota in tutto il mondo come “l’uomo che ha fermato il deserto”. Per diversi decenni Yacouba Sawadogo ha piantato tenacemente alberi con una tecnica ancestrale, quella delle fosse zai, in un territorio dove sembrava assurdo farlo. Quando ha cominciato la sua impresa titanica, nel 1974, nel mezzo di una spaventosa carestia che ingoiava animali e terreni coltivabili, Sawadogo non trovava certo consensi, anzi veniva perfino deriso dalle autorità dei villaggi.

Oggi si calcola che Yacouba, ormai ottantenne, in una delle aree più aride del Sahel, di alberi ne abbia piantati più di diecimila. La sua lotta ostinata ha creato una grande foresta che ha salvato dal deserto più di 40 ettari di terreno, un’avventura diventata con il trascorrere degli anni un esempio quasi miracoloso per il mondo intero. Lo testimoniano, tra le altre cose, il Right Livelihood Award, una sorta di Nobel alternativo, ottenuto nel 2018 e il titolo di “Campione della terra” che il Programma dell’Onu per l’ambiente gli ha conferito nel 2020.
Loukmane Sawadogo, figlio di Yacouba e presidente dell’associazione Arbres et Arbustes, segue naturalmente il sentiero aperto dal padre. Nelle scorse settimane è stato invitato dal Gruppo Umana Solidarietà (GUS) per incontrare molti di coloro che, a diverso titolo, sono impegnati nei progetti e nel lavoro per affermare l’autonomia e l’inclusione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel territorio della provincia di Lecce.
La presenza di Sawadogo nel Salento ha fornito una preziosa quanto rara occasione di discussione e confronto aperto – tra esperienze tanto lontane ma in grado di comunicare tra loro e a chiunque – su alcuni dei grandi temi che sono alla base dell’impegno del Gus: dalla biodiversità al contrasto della povertà educativa, dalla lotta alla cultura patriarcale all’affermazione del diritto a un cibo sano e di qualità, dalla dimensione comunitaria al racconto sociale del territorio, solo per citarne alcuni.
Il momento di ascolto e approfondimento più intenso ha visto un bel dialogo pubblico tra Loukmane e Virginia Meo, presidente del Gus, intitolato significativamente “Non moriremo deserto, la resistenza dei popoli e le migrazioni climatiche”. È avvenuto nella serata che ha concluso, a Castiglione d’Otranto, la Notte Verde, la più grande festa pugliese dedicata alla terra e all’ambiente, giunta quest’anno alla XII edizione. Ne abbiamo approfittato per rivolgere a Loukmane qualche domanda.

Il sogno e la lotta di suo padre per fermare l’avanzata del deserto con tecniche naturali ha impiegato oltre 40 anni per diventare un esempio di resistenza e di speranza riconosciuto e ammirato nel mondo. Oggi, buona parte degli scienziati e degli esperti dei cambiamenti climatici dice che forse non c’è più tempo per invertire la rotta e fermare una catastrofe annunciata da decenni. Altri, probabilmente spinti soprattutto da interessi di grandi lobby del business tecnologico, sostengono invece che saranno proprio le tecnologie a salvarci dall’estinzione di molte delle specie viventi sulla Terra. Che idea si è fatto della possibilità di costruire ancora un futuro che affermi la vita e la dignità di tutti gli esseri viventi?
Credo che abbiamo ancora il tempo per reagire, ma bisogna far presto. Quel che va capito subito è che non possiamo vivere senza gli alberi. Sono loro a donarci tutto. Se abbandoneremo gli alberi, non solo noi, ma anche le generazioni future ne pagheranno le conseguenze. Oggi c’è troppo inquinamento e, a mio parere, solo gli alberi ci possono salvare, solo gli alberi possono avviare un cambiamento.
Negli ultimi anni da noi fa più caldo rispetto agli anni precedenti, ci sono venti violenti, grandi piogge e inondazioni che non possiamo controllare… Tutto questo avviene per molte ragioni, ma soprattutto perché ci mancano gli alberi.

I governi del mondo, in modo particolare quelli del mondo più ricco, hanno dimostrato di non essere all’altezza della portata epocale dei grandi problemi del nostro tempo: dalle migrazioni alla guerra, dalla sete ai cambiamenti climatici. Cosa può fare la gente comune, a cominciare da quella che soffre maggiormente ed è dunque più motivata a cambiare il mondo intorno a sé?
Sono convinto che sia il cosiddetto “sviluppo” a distruggere l’ambiente, ed è proprio lo sviluppo che distrugge gli alberi. È del tutto evidente che i paesi sviluppati sono responsabili di ciò che ci sta accadendo. Coloro che non hanno i mezzi, grandi macchine, grandi industrie, non producono gas inquinanti, non distruggono le foreste, non distruggono la fauna. È mia opinione che i paesi sviluppati siano i responsabili, mentre i più toccati dal cambiamento climatico sono gli agricoltori, gli allevatori, i pescatori e tutto ciò che li circonda.
È trascorso quasi un anno da quando una Giunta militare ha sospeso la Costituzione in Burkina e assunto la guida del Paese. In Europa, questo colpo di Stato, il secondo in un anno e l’undicesimo nella storia del Paese, viene criticato dal punto di vista delle libertà “democratiche”. Un anno dopo è cambiato qualcosa per quel che riguarda le disuguaglianze e per la vita quotidiana dei contadini e della gente comune del Burkina?
Sì, è vero, effettivamente c’è stato un colpo di Stato in Burkina Faso un anno fa. Un colpo di Stato che ha condotto alla guida del Paese un giovane capitano, sua eccellenza Ibrahim Traoré, che oggi è presidente ad interim ed è l’orgoglio del Burkina Faso. Era ciò che noi agricoltori aspettavamo e speravamo accadesse. Traoré non è venuto per fare i suoi interessi ma per l’interesse di tutto il popolo burkinabé: agricoltori, pescatori, funzionari, giovani. A me sembra che questo abbia portato un beneficio per tutti. Ogni anno, per fare solo un esempio, ci sono delle barche che affondano con giovani che sono partiti per cercare altrove condizioni di vita migliori, se Ibrahim Traoré riuscirà a far sviluppare al meglio la nostra agricoltura, i giovani decideranno di rimanere sul nostro territorio, potranno lavorare dignitosamente e riusciranno a nutrire le loro famiglie. Un tempo non c’erano così tanti migranti diretti verso l’Europa, oggi la situazione è diventata molto difficile e ogni anno ci sono giovani vite che annegano in mare. Da parte mia, non posso che esprimere un sincero ringraziamento verso l’impegno del presidente, soprattutto nell’agricoltura, affinché nessuno perda più la sua dignità a causa della fame.
La popolazione del Burkina Faso è in media molto giovane, l’età media dovrebbe essere inferiore ai 20 anni, c’è una specificità del ruolo delle donne nelle culture tradizionali che viene conservata, o che magari si estende, tra le nuove generazioni?
La donna è molto coinvolta per tradizione nella nostra società, oggi è davvero molto difficile pensare di poter fare qualcosa senza le donne. Perfino nell’ambito della sicurezza, quando il governo ha fatto il suo appello per chiamare volontari a difendere il Paese, ci sono state delle donne che si sono iscritte. Le donne giocano dunque un ruolo molto importante e sono molto impegnate in ogni campo. Ci sono sempre contadine e donne che si dedicano all’allevamento ma molte oggi sono coinvolte nell’amministrazione, lavorano nei ministeri, e nel governo.
Può raccontarci qualcosa sugli obiettivi principali e le pratiche della sua associazione, “Arbres et Arbustes”?
Per la nostra associazione l’obiettivo principale è quello di migliorare la condizione di vita della popolazione della nostra regione nei diversi ambiti: preservazione del territorio, agricoltura, allevamento, educazione e salute. In tutti questi ambiti seguiamo le vie che mio padre aveva tracciato.
Il nostro intervento si fonda sull’educazione, c’è l’educazione alla base di tutto e tutto parte da lì: il modo di coltivare, di proteggere gli alberi, ecc. Per questo Arbres et Arbustes ha iniziato nel 2021 a fare attività nella foresta, nel Comune e nella regione, donando alberi e formando i cittadini. Vorremmo creare una seconda foresta come quella fatta nascere da Yacouba Sawadogo. Siamo alla ricerca di finanziamenti per realizzare questa seconda foresta, abbiamo costruito il progetto e lo abbiamo condiviso con alcuni partner che però non hanno ancora risposto, così ora siamo in attesa che lo facciano per poter proseguire con le nostre attività.
Le minacce alla biodiversità agricola sono meno note ma non meno gravi e preoccupanti di quelle ambientali. Le determina soprattutto l’asservimento dei governi e delle istituzioni internazionali ai mercati dell’agrobusiness e ai modelli intensivi. Le Nazioni Unite, tramite la Convenzione per la Diversità Biologica, nel 2010 in Giappone s’erano proposte di porre fine entro il 2020 alla perdita di biodiversità nel mondo. Oltre 10 anni dopo, nessuno dei target dell’Onu è stato raggiunto. Come giudica questo fallimento dalla prospettiva che fornisce uno sguardo dal territorio saheliano in cui lei vive?
Credo che se qualcuno prende qualcosa e la nasconde è inutile cercare, non la troverai mai. Se loro decidessero di cambiare potremmo farlo tutti, ma dire a qualcuno di cambiare è complicato.
A proposito dell’Onu, però, vorrei approfittare di questa occasione per rendere nota una cosa e magari inviare un messaggio, una richiesta di aiuto per risolvere un problema che sento nel profondo del cuore: nel 2020 mio padre ha ottenuto il titolo di Campione della Terra, ma fino ad oggi non abbiamo mai avuto traccia di questo riconoscimento. Non c’è nessuna testimonianza di questo premio. A suo tempo mi hanno detto che avrebbero mandato un attestato e che, a causa del Covid, non avrebbero potuto organizzare una cerimonia di consegna. Però non abbiamo ancora avuto l’attestato. Molti mi chiedono di parlare di questo premio ma non posso farlo se non ne ho alcuna traccia. Non posso diffonderlo nella rete dei social, alla televisione nazionale… Qualcuno puà aiutarci?

In queste giornate trascorse in Puglia, al di là della simpatia e della cortesia, ha trovato interesse e ascolto sincero nelle realtà locali che ha avuto la possibilità di conoscere? Le è sembrato che, al di là della pur indispensabile e fondamentale solidarietà, ci sia l’opportunità di costruire uno scambio paritario di conoscenze ed esperienze all’interno del riconoscimento di una lotta davvero comune?
Sono stato accolto bene e sono molto contento del fatto che tante persone di qui aspettavano il mio arrivo. Aspettavano le mie parole, l’esperienza che avevo da condividere. Nel confronto con alcuni ho capito che molte persone chiedono di essere formate per mettere in pratica i saperi che ho condiviso in questa occasione solo a livello teorico con loro. Altri mi hanno chiesto la disponibilità di proseguire con una introduzione alla pratica l’anno prossimo, questo dipenderà dall’associazione. Da parte mia sono disponibile, siamo diventati una famiglia, siamo insieme. Credo che quando siamo insieme, uniti, possiamo imparare gli uni dagli altri ed è così che ognuno cambia. Il cambiamento parte da noi, siamo noi stessi che dobbiamo cambiare, a partire da ora.
Lascia un commento