Le regolarizzazione approvata è un provvedimento intriso di contraddizioni e di condizioni restrittive. Scrive Gianfranco Schiavone dell’Asgi: “Si conferma sulle migrazioni un messaggio violento che vede nello straniero poco più che una merce liberamente disponibile sul mercato, non portatore di diritti e di doveri bensì soggetto alla nostra libera e volubile volontà”
1. «Al fine di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da Covid-19 e favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari…»: sono le parole che si leggono all’inizio del comma 1 dell’art. 103 che, nel decreto legge 19 maggio 2010 n. 34 denominato “Rilancio Italia”, disciplina il provvedimento di regolarizzazione, esito di un tormentato confronto politico interno alla maggioranza di governo.
Qualsiasi lettore, anche non esperto di diritto, leggendo questo incipit che pare enunciare la ratio della norma, si aspetta di trovarsi di fronte a una regolarizzazione di ampio respiro, finalizzata a cercare di fare emergere dalla invisibilità quel mezzo milione almeno (secondo stime prudenti) di cittadini stranieri in condizioni di irregolarità. Sempre il nostro ideale lettore che si appresta a proseguire la lettura del testo può ben immaginare che nel provvedimento ci saranno vincoli e procedure e che, ragionevolmente, alcune situazioni non verranno comunque regolarizzate perché, per quanto ampio possa essere il provvedimento, la concessione (perché di ciò si tratta) di una autorizzazione al soggiorno rilasciata a stranieri che finora non ne avevano alcun titolo, deve bilanciarsi con altri interessi pubblici non meno rilevanti relativi alla sicurezza e all’ordine pubblico. Può forse immaginare che, trattandosi di una norma di compromesso, alcune situazioni siano trattate in modo più sfavorevole e che ci siano persino delle esclusioni discutibili.
Certo non può però immaginare ciò che invece scoprirà nel continuare la faticosa lettura di un provvedimento intriso di contraddizioni e di condizioni restrittive tali da disegnare un quadro confuso nel quale coloro che rientrano e coloro che rimarranno esclusi dalla regolarizzazione non appartengono a situazioni nettamente diverse e meritevoli di trattamenti differenziati, bensì ricadono in situazioni del tutto analoghe che si differenziano tra loro in ragione di eventi casuali e fortuiti. Ma andiamo con ordine.
2. Il principio della regolarizzazione 2020 non è per dichiarazione di “presenza” indipendentemente dalla propria condizione lavorativa attuale o passata ma rimane, pur con qualche novità, una emersione dal lavoro irregolare, in modo simile ad alcune delle regolarizzazioni avvenute in passato (per una eccellente ricostruzione della storia di questi provvedimenti si veda http://www.questionegiustizia.it/articolo/una-regolarizzazione-in-tempo-di-pandemia-la-lezione-del-passato_28-05-2020.php). Il comma 1 della norma in esame infatti prevede che sia possibile iniziare ex novo un rapporto di lavoro con un cittadino straniero in condizioni di irregolarità di soggiorno (sanando così la sua irregolarità) o dichiarare un lavoro in nero con un cittadino straniero dal soggiorno regolare o irregolare. Tuttavia ecco la sorpresa: è possibile fare la regolarizzazione per emersione da lavoro in nero solo se gli ambiti lavorativi sono tre: a) agricoltura e attività connesse, b) lavoro domestico, c) assistenza alla persona (badanti). In tutti gli altri settori di lavoro non è possibile. Così che i lavoratori stranieri impiegati in nero (e spesso soggetti a grave sfruttamento) in edilizia, ristorazione, manifattura, turismo, cantieristica, commercio, lavori connessi alla logistica, al facchinaggio di vario genere e altri settori dovranno rimanere irregolari.
Cosa li distingue dal lavoratore in agricoltura o nel lavoro di cura? Il fatto che si tratti di situazioni residuali? Certamente no, considerato che il tasso di presenza di migranti irregolari nei settori esclusi dalla regolarizzazione è elevatissimo, non inferiore a quello che si riscontra nei settori che sono ammessi a beneficiarne. Forse il fatto che si tratti di settori di lavoro irregolare ma con basso tasso di sfruttamento? Indubbiamente no, considerato che, se le condizioni di grave sfruttamento (fino alla riduzione in schiavitù) nel lavoro di cura e in agricoltura sono tristemente note, quelle in edilizia e manifattura non lo sono da meno. E allora quale è la ragione di tale irragionevole limitazione? Non è dato saperlo perché nessuna spiegazione è stata fornita in merito, al di là delle voci di corridoio sui contrasti in seno all’esile coalizione di governo.
Qualcuno dirà che nella mediazione politica non si può avere tutto e che questo è un primo passo; dopo anni di crescita della bolla della irregolarità meglio un provvedimento scadente che nessun provvedimento: comprendo bene questo ragionamento che ha una sua validità. Tuttavia va considerata anche l’importanza del messaggio politico e culturale che, con un simile provvedimento, comunichiamo agli stranieri (e agli italiani); un messaggio di sfrenata discrezionalità anzi di arbitrio, come se la gestione della res pubblica e in particolare il governo delle migrazioni potesse avvenire attraverso provvedimenti privi dei requisiti di ragionevolezza ed equità che dovrebbero sempre impostare l’agire pubblico. Si conferma sulle migrazioni un messaggio violento che vede nello straniero poco più che una merce liberamente disponibile sul mercato, non portatore di diritti e di doveri bensì soggetto alla nostra libera e volubile volontà. Come pensiamo, portando avanti questo tipo di messaggi, in un’epoca appena per un soffio post-salviniana, di modificare quella stessa mentalità che ha portato alla rapidissima ascesa dei movimenti populisti e xenofobi? Il problema, ancora una volta, è di quale visione delle migrazioni e della loro gestione, si vuole diffondere e consolidare nel Paese.
Gli stranieri che potranno essere ammessi alla regolarizzazione dovranno, poi, provare di essere stati presenti in Italia prima dell’8 marzo 2020 attraverso un avvenuto foto segnalamento o tramite l’esibizione della dichiarazione di presenza resa a suo tempo o di documentazione di data certa proveniente da organismi pubblici. Due su tre dei settori ammessi alla regolarizzazione sono costituiti da lavori domestici e di cura di tradizionale appannaggio alle donne straniere, spesso entrate in Italia in modo regolare provenienti da Paesi con i quali non c’è obbligo di visto e rimaste a vivere e a lavorare nelle nostre case in condizioni di totale invisibilità. O meglio in condizioni di visibilità della rete sociale e parentale della persona assistita o al più delle figure professionali che riguardano l’anziano accudito (il medico, il prete, il farmacista) ma totalmente invisibile alle istituzioni pubbliche a meno che l’interessata non abbia avuto la sventura (oggi tramutatasi, come in una fiaba, in una novella fortuna) di essere stata fermata e identificata dalla polizia, di essere stata essa stessa bisognosa di cure mediche o di essere incappata in altri eventi accidentali. Ecco che, a parziale rimedio di questa limitazione, che avrebbe tagliato fuori proprio le situazioni più invisibili, è venuta in soccorso in data 30 maggio 2020 una circolare del ministero dell’Interno che allarga le maglie della prova di presenza. Un piccolo rimedio che non risolverà però tutte le situazioni e che soprattutto, ancora una volta, fa scivolare ciò che dovrebbe essere materia del legislatore verso il piano della cangiante discrezionalità dell’amministrazione centrale dello Stato.
3. Il comma 2 rappresenta una indubbia novità positiva anche nella prospettiva di future modifiche delle norme sull’ingresso e il soggiorno che oggi producono incessantemente quella stessa irregolarità che i ciclici provvedimenti di regolarizzazione debbono affrontare. Si prevede, infatti, di potere rilasciare un “permesso di soggiorno temporaneo” di validità semestrale a coloro il cui permesso è ora scaduto e che in passato hanno lavorato in uno dei settori di lavoro nei quali è ammessa la regolarizzazione. Con detto permesso potranno cercare un nuovo lavoro, sempre nei medesimi settori, avendo appunto sei mesi di tempo per farlo, anche se ora non lavorano affatto o lavorano in nero ma il datore di lavoro rifiuta di regolarizzarli (o loro stessi non sono interessati a ciò perché vogliono cambiare datore di lavoro). Per la prima volta si introduce nell’ordinamento giuridico italiano in materia di ingressi e soggiorno dei cittadini stranieri, la possibilità, seppure data in via di semplice concessione e per brevissimo tempo, di potere passare da una condizione di irregolarità di soggiorno a una di regolarità per cercare un lavoro, prefigurando così una norma presente in altri ordinamenti giuridici europei e da tantissimi anni proposta più volte dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) quale strumento ordinario nella disciplina dei soggiorni.
Concedendomi per un attimo di correre in avanti a futuri scenari evidenzio come l’introduzione, a regime, della possibilità che uno straniero divenuto irregolare dopo un percorso di regolarità possa recuperare tale condizione, usufruendo di un periodo congruo di tempo, costituirebbe una sorta di cambio profondo di paradigma rispetto alla legislazione vigente, da sempre incardinata sul principio del “senso unico” in base al quale si può passare dalla regolarità alla irregolarità ma mai è possibile fare retromarcia, generando così sempre maggiore irregolarità invece di provare a riassorbirla.
Questa innovazione di cui il provvedimento di regolarizzazione avrebbe potuto rappresentare un ottimo banco di prova è però quasi annullata da due aspetti: il primo è dato dal fatto che anche in questi casi il lavoro regolare avuto in passato, per ragioni imperscrutabili che attengono alla sfera del non conoscibile, deve essere stato in uno dei tre settori di lavoro ammessi alla regolarizzazione. Non solo: è altresì necessario che da quella sfera magica non ci si sottragga giacché dal permesso temporaneo si potrà si accedere a un nuovo permesso di lavoro ma solo nuovamente in uno dei tre settori: il bracciante agricolo deve tornare a fare il bracciante agricolo o eventualmente potrebbe sperimentare l’ebrezza di fare il badante; la colf potrebbe tentare fortuna in agricoltura e tutti potrebbero buttarsi sul lavoro domestico, probabilmente fingendolo, nella casa dello stesso datore di lavoro che in nero o regolarmente li ha assunti in tutt’altro settore. Il secondo motivo è ancora, mentre scrivo, un piccolo “giallo” (e invito chi vorrà scoprirne il finale a seguire gli sviluppi della discussione parlamentare). Il testo normativo prevede che i soprannominati stranieri meritevoli di accedere alla misura debbono avere un “permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019”. Ma se il permesso è scaduto prima del 31 ottobre, ma è comunque, appunto, scaduto e il lavoro regolare nei settori giusti, c’è stato in passato? Cosa distingue sul piano sostanziale, queste diverse situazioni? È del tutto evidente che il numero degli stranieri con permesso scaduto ma solo dopo il 31 ottobre e che hanno lavorato in passato nei tre settori è del tutto residuale. Tra parlamentari ed esponenti del Governo che in queste ore giurano (in privato) che è stato un errore di battitura – “dal” invece di “al” – che si rimedierà subito e chi invece lo riconduce a valutazioni di politica dell’immigrazione troppo profonde per il modesto livello dello scrivente, il giallo si chiarirà a breve e potremo sapere se siamo di fronte a una strada stretta ma esistente o a una imbarazzante finzione.
4. Dedichiamo ancora l’ultima attenzione a una delle categorie di stranieri di cui si è tanto parlato negli ultimi mesi e che molti hanno indicato, al pari dei braccianti agricoli, come i veri destinatari della regolarizzazione, ovvero i richiedenti asilo e, per la precisione, i richiedenti che sono ricorrenti in giudizio avverso il rigetto della domanda di asilo, divenuto esito maggioritario dopo la cancellazione dell’istituto della protezione umanitaria disposta dal decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini) convertito con modificazioni nella legge n. 132/2018. Si tratta di persone presenti da molti anni in Italia spesso con un lavoro stabile e un ottimo livello di inclusione sociale, ma appesi al permesso per “richiesta di asilo” e ai contenziosi giudiziari (oltre diecimila davanti alla sola Corte di Cassazione in conseguenza della improvvida abrogazione del grado di appello voluto nel 2017 dalla legge Minniti-Orlando).
Come è noto il permesso per richiesta di asilo non è mai convertibile in quello per lavoro in ossequio a uno dei principi cardine delle normative vigenti ovvero quello dei “binari paralleli” tra il canale dell’asilo e quello dell’ingresso e soggiorno per lavoro. Una distinzione la cui ragionevolezza è in crisi da molto tempo ma che qui, per brevità, non affrontiamo. Restiamo sulla regolarizzazione per evidenziare che, in assenza dell’apertura di una finestra temporanea che autorizzi la conversione del permesso di soggiorno da richiesta asilo in lavoro i richiedenti che non accedono alla regolarizzazione e che si vedranno rigettare definitivamente il loro ricorso verranno automaticamente trasformati in nuovi irregolari anche se sono vissuti anni in Italia, anche se lavorano e lo Stato italiano ha in passato sostenuto non poche spese per la loro accoglienza come richiedenti (in genere almeno un paio di anni). Mi si farà osservare che ai sensi di quanto disposto dal comma 1 anche i richiedenti asilo possono accedere alla regolarizzazione giacché “presenti” nel territorio dello Stato. Vero, ma a condizione che il lavoro che trovano o già hanno sia in uno dei tre celebri settori; altrimenti se hanno un lavoro regolare, magari a tempo pieno e indeterminato in un settore sbagliato, dovrebbero licenziarsi e trovarne subito uno giusto (ovvero comprarlo) per fare la regolarizzazione e porre fine al loro calvario. Eppure, uno degli obiettivi, politicamente trasversale, era quello di ottenere, con la regolarizzazione, un forte effetto deflattivo sul contenzioso e magari anche liberare posti in accoglienza, lo si sarebbe potuto ottenere solo introducendo in modo chiaro la convertibilità del titolo di soggiorno da richiesta asilo a lavoro.
5. Se non interverranno alcuni importanti cambiamenti in sede di conversione in legge (rinvio in particolare alle ottime proposte elaborate sia dal Gruppo GREI250 sia dalla Campagna Ero Straniero), con queste strettoie e ostacoli di ogni genere, quanti stranieri alla fine riusciranno ad accedere alla regolarizzazione? Non lo sappiamo ma possiamo ragionevolmente supporre che il loro numero sarà alquanto ridotto, ben lontano dalla platea generale degli irregolari. Una delle previsioni più accurate e realistiche è stata fornita il 19 maggio 2020 in sede di audizione alla Commissione Lavoro del Senato dal presidente dell’Inps Pasquale Tricarico che ha ipotizzato un numero di persone compreso in una forbice tra 100 e 200 mila (ovvero tra un quarto e un quinto di tutti gli irregolari) che resteranno probabilmente tali ancora una volta, anche nel 2020, anno della pandemia.
La regolarizzazione del 2020, anno della pandemia
Studioso delle migrazioni internazionali, Gianfranco Schiavone è presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà-Ufficio Rifugiati, fa parte dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione ed è tra i fondatori del sistema Sprar-Sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
Pubblicato su Volerelaluna.it.
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