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di Marco Aime*
Con la prosopopea che gli è tipica, Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, alcune settimane fa ha bollato come «razza di ignoranti» coloro che hanno osato criticare le parole di Attilio Fontana, politico della Lega, per il quale la razza bianca è a rischio a causa dei troppi migranti. Ciò che colpisce è il tono perentorio e ducesco con cui il giornalista afferma «Tutte le razze, quindi, pari sono anche per la legge, e questo è pacifico, ma esistono». Forse lo ha fatto per celebrare l’ottantesimo anniversario della stesura del Manifesto della razza, il cui punto 1 affermava proprio: “Le razze esistono”.
I genetisti hanno dimostrato che non è possibile classificare gli umani in razze. Ma la scienza, come diceva Einstein, può spezzare l’atomo, non scalfire un pregiudizio. Si attacca, Sallusti, alla evidente diversità umana. E come smentirlo! Il problema è che quella diversità non divide i “bianchi” dai “neri”, ma anche i biondi dai castani, quelli alti da quelli bassi, che però sono tutti bianchi. Come la mettiamo allora? La distinzione funziona solo quando ci fa comodo, per guadagnare qualche voto in più? La razza è una pessima idea che nel secolo scorso ha causato milioni di morti.
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Sallusti si rifà alla lingua italiana che prevede la parola razza e cita il Devoto-Oli: «Razza: gruppo di individui di una specie contraddistinti da comuni caratteri esteriori ed ereditari». Leggiamola bene questa definizione, seppure contestabile. Parla di esseri umani? Parla di individui della stessa specie, e nessuno nega che in molte specie animali esistano individui di razze differenti, per selezione naturale o artificiale (vedi cani e gatti). Quanto ai caratteri ereditari, sarebbe bene sapere che ciascuno di noi è erede di centinaia di migliaia di anni scambi genetici e quindi meticciato (per non dire imbastardito) quanto basta.
Rileggiamo il bellissimo dialogo di due personaggi di Gabriel Garcia Márquez in Dell’amore e di altri démoni:
«Alla mia età, e con tanto di quel sangue mescolato, non so più con sicurezza di dove sono» disse Delaura, «Né chi sono». «Nessuno lo sa in questi regni» disse Abrenuncio, «E credo che ci vorranno secoli per saperlo».
La lingua italiana prevede anche le parole: unicorno, befana, elfo e anfisbena, ma non per questo esistono.
Pubblicato su Nigrizia.it e qui con il consenso dell’editore.
*Docente di antropologia culturale presso l’università di Genova, è autore di numerosi libri di saggistica (tra cui Eccessi di culture e Il dono al tempo di Internet per Einaudi, Etnografia del quotidiano e La macchia della razza per eleuthera) e di alcuni libri di narrativa e per bambini.
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