A due anni dall’uscita negli Stati Uniti, viene pubblicato anche in Italia “Racconto Palestina” di Mohammad Sabaaneh. Si tratta di una originale graphic novel dove si incontrano l’amore per la sua terra e il suo popolo, le sofferenze nel carcere e sotto un’occupazione senza fine, il desiderio di raccontare quel che accade al mondo, la cultura come mezzo di resistenza. Alessandra Mecozzi ha realizzato una bella intervista con Mohammad il 2 ottobre, il giorno successivo dell’affollata presentazione a Roma del suo libro, poco prima che un nuovo violentissimo incendio segnasse una devastante escalation per la sua terra. La soluzione dei “due popoli per due stati”, dice Sabaaneh, non è mai stata possibile, è un’illusione. In realtà ci sono già due stati: quello di Israele e quello dei coloni

Incontro Mohammad il 1° ottobre, durante l’affollata presentazione del suo libro a Roma, con l’attivista Carmelo Chitè e la fumettista Laura Scarpa, nel bar Kif Kif, dove Luce Lacquaniti lo traduce ottimamente dall’arabo. È una delle tappe del suo lungo tour dal nord al sud promosso dall’editrice Mesogea e AssopacePalestina. Concordiamo un’intervista per il giorno dopo.
Mohammad vive a Ramallah. È nato in Kuwait nel 1979, all’inizio della prima guerra del Golfo, la famiglia si è spostata in Giordania e poi in Palestina.
Lavora da 20 anni come fumettista politico per giornali come Al Hayat Al Jadida, quotidiano della ANP e Al Quds al Arabi, Londra. Insegna all’ Università arabo-americana tra Ramallah e Jenin, in un programma congiunto con l’Università di Verona. Fa quindi la spola tra le due città, anche perché a Jenin vive la sua famiglia. Ha ottenuto un Master a Londra nel 2020. Ha portato le sue opere in diverse esposizioni internazionali, tra cui New York nel Palazzo delle NU, e alla Corte Penale Internazionale.

Bianco e nero sono i colori di “Racconto Palestina”, che esce adesso anche in Italia (titolo originale: Power born of dreams – My story is Palestine) pubblicato da Mesogea, tradotto da Enrica Battista, sostenuto da Palestine Museum US.
Anche il titolo del suo primo libro è Black and White (pubblicato negli Stati Uniti). Perché? “Per indicare il contrasto, la contraddizione, ed anche che devi scegliere dove stare, da una parte o dall’altra. Non intendo che il nero è il male, il bianco il bene, seguendo uno stereotipo razzista. Mi importa esprimere il senso della drammaticità”.

Storie palestinesi
Questo libro l’ho pensato nel mio viaggio di sei mesi in prigione. Sono riuscito a rubare una matita e un pezzo di carta durante un interrogatorio, per fissare le mie idee! Ho intervistato prigionieri dentro e fuori dal carcere e racconto al mondo alcune delle loro storie: ogni palestinese ne ha una. La vita dei prigionieri è molto dura, dagli interrogatori alla cella, dalla sofferenza agli scioperi della fame.
Ho cominciato a disegnare nel 2001 durante la seconda Intifada, quando a me come ad altri artisti, le famiglie chiedevano di disegnare i ritratti di chi veniva ucciso, dei martiri, per poi innalzarli ai loro funerali. Allora ero studente e facevo questo come lavoro, per guadagnare qualche soldo.
Una volta ho fatto il ritratto di un ragazzo ucciso, vicino Nablus e quando l’ho consegnato alla famiglia, il fratello, un ragazzino di 13 anni mi ha chiesto: “Se io muoio da martire lo farai anche a me il ritratto?”. La domanda mi ha sconvolto, gli ho risposto che no, che la sua vita sarebbe stata lunga, diversa…Poco dopo ho saputo che anche lui era stato ucciso, mentre cercava di vendicare il fratello. Ho dipinto con molta pena, usando gli stessi pennelli e colori, anche il suo ritratto, ma è stato l’ultimo che ho fatto!
Ricordo che durante il mio interrogatorio gli israeliani cercavano di intimidirmi dicendomi che sarei stato in cella con criminali, non con eroi romantici … Non sapevano che molti dei prigionieri erano già prima miei amici!
In realtà i Palestinesi sono tutti prigionieri, anche se non sono dietro le sbarre. Sono circondati e bloccati da un muro, senza possibilità di muoversi liberamente. Perfino i Palestinesi della diaspora si sentono bloccati, la maggior parte vorrebbe ritornare in Palestina, alle loro case, ma non possono…

Nel mio libro c’è tra i personaggi anche un uccellino, esprime il desiderio di libertà e la cura dei prigionieri verso questa creatura. Avevo visto che i prigionieri davano da mangiare agli uccellini, insegnavano loro a volare, come conquistare la libertà, e facevano persino scommesse su chi riusciva per primo a farne volare uno.
I colori dei miei disegni sono bianco e nero, ma il colore dell’ambiente carcerario è totalmente grigio, io per vedere un colore diverso cercavo di sbirciare attraverso la finestrella da cui mi passavano il cibo. Grigio è il muro ruvido, su cui molti incidono il proprio nome. Io non ci sono mai riuscito, così ho deciso di incidere le loro storie, con la tecnica della linoleografica.
Un’altra storia è quella del ragazzino che, andando a scuola, è stato bloccato ad un check point israeliano e, come fanno sempre i ragazzini, ha cominciato a tirare sassi. È stato ucciso lì, e il suo corpo confiscato, come altri 300, negati alle famiglie. Ho capito il dramma di queste confische quando la madre ha detto: “Tutte le madri nel mondo si preoccupano di provvedere un letto caldo per i propri figli, io invece devo sperare di dargli una tomba calda!”.

Hai parlato di resistenza palestinese. Pensi che la cultura sia una forma di resistenza?
La cultura è uno degli strumenti fondamentali, ma penso che siano necessarie tutte le forme di resistenza. È molto importante quella nelle strade, le manifestazioni, anche quella di chi prende le armi. È vero, sanno che potranno essere uccisi, che pagheranno il prezzo massimo. È molto dura per tutti noi, ma è normale. Non c’è scelta, come palestinesi. Puoi essere ucciso mentre cammini o anche se sei a casa, ogni notte fanno irruzioni… Per noi è anche difficile parlare di occupazione, perché dovrebbe essere per un tempo determinato, ma qui è infinita. Poi spesso sento parlare di conflitto israelo/palestinese o arabo/israeliano. È sbagliato: il conflitto avviene tra due parti alla pari, qui non ci sono, c’è un popolo oppresso, espropriato, cacciato dalla sua terra, e uno Stato che agisce con la violenza delle armi.
Come in altre parti del mondo, quali Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, qui c’è un colonialismo di insediamento, ovvero l’occupazione serve per eliminare le radici dei popoli, nella propria terra, eliminando o espellendo le persone.
Per raggiungere questo obiettivo disumanizzano le persone: negano la loro storia, il loro legame con la terra. Ad esempio dicono che i Palestinesi non sono agricoltori, non sanno coltivare la terra…Insomma vogliono rappresentare un popolo senza cultura, senza storia, senza un proprio patrimonio. Si appropriano perfino di siti archeologici, come ad esempio Sebastia.
Gli israeliani pensano di avere un diritto divino sulla terra, dappertutto, storicamente, parlano di Giudea e Samaria come loro proprietà. E cercano di cambiare tutti i nomi dall’arabo in ebraico, proprio per sradicare le origini, come hanno fatto in Irlanda.
Per questo nella mia produzione artistica cerco sempre di usare simboli come l’olivo, la khefia, l’hummus, il falafel…Scrivendo e disegnandoli indichi il legame con la terra, con la sua cultura. L’arte è resistenza, anche perché serve a smantellare la propaganda israeliana.
Che cosa pensi della politica della ANP? E di quella dell’Europa?
Penso che l’ANP non abbia una strategia. La soluzione dei “due popoli due stati”, non è mai stata possibile, è un’illusione. Come ha detto Noam Chomsky: “Non c’è un processo di pace, ma solo un processo, durante il quale colonizzano, distruggono, espropriano”. Se guardi a nord gli insediamenti sono sempre più vicini alle nostre case. E i coloni usufruiscono di molte facilitazioni, come le autostrade, vietate ai Palestinesi, sulle quali possono facilmente muoversi e comunicare tra loro. In realtà ci sono già due stati: quello di Israele e quello dei coloni.
Riguardo all’Europa, non ho molta fiducia nelle istituzioni. Penso comunque che dovrebbero almeno riconoscere lo Stato palestinese a pieno titolo nelle Nazioni Unite. Io credo di più nella società civile che nelle istituzioni. La differenza può farla la società civile, impegnandosi a parlare e raccontare quello che succede in Palestina, a sostenerla con manifestazioni, campagne, aderendo attivamente al BDS, il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, lanciato da tante associazioni palestinesi e raccolto a livello internazionale. Ed è essenziale andare in Palestina, vedere cosa succede e, anche se brevemente, ascoltare le loro storie.
Le immagini sono tratte dal libro “Racconto Palestina”

…è vero, non c’è nessun processo di pace, c’è il processo, si è esteso anche in Italia, in Europa.
Hanno rimosso 75 anni, pretendono di scrivere la storia a modo loro.
Anche in SudAfrica, sembrava impossibile sconfiggere l’apharteid.