Per abbandonare l’antico ricorso all’utilizzo della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti abbiamo bisogno di punti di vista ed esperienze in grado di scardinare visioni del mondo ancorate prima di tutto tra le macerie del mondo occidentale. Alcuni pensatori decoloniali hanno mostrato come la modernità colonial-capitalista abbia naturalizzato il paradigma della guerra tanto da far pensare che sia la condizione-norma dell’umanità. Domina ancora oggi quella matrice coloniale che divide tra esseri umani degni di questo nome (noi) e esseri non degni di questo nome (loro). La guerra può finire se riusciamo ad evadere dalla prigione creata dalla matrice coloniale del potere che presuppone implicitamente lo scontro perenne fra un “noi” e un “loro”. Per questo occorre dedicare attenzioni ai temi delle migrazioni e dell’identità. Si tratta di riconoscere quella matrice coloniale ricca di ipocrisia per la quale, ad esempio, l’Europa ha cominciato a parlare di olocausto solo quando questo è stato perpetrato sul suolo europeo e non quando è stato scatenato tante volte fuori dall’Europa (dai bianchi contro i “neri”). Intorno a questi temi è nata anche una interessante ricerca/azione tra un gruppo di ecofemministe condotta durante una Marcia della pace su Kiev promossa nel 2022. Questa straordinaria e composita riflessione che indaga le ragioni della “guerra senza fine” fa parte del libro Quando si dice pace (FrancoAngeli), a cura di Antonia Rubini
Questo saggio consta di due parti distinte ma intimamente correlate (esattamente, Luigi Cazzato ha scritto la prima parte e Marilù Mastrogiovanni la seconda) – la prima di riflessione teorica, la seconda di analisi empirica con osservazione sul campo – che hanno il comune obiettivo di indagare le ragioni della “guerra senza fine”, facendo intravvedere possibili soluzioni utopiche, ovvero che non hanno ancora uno spazio di realizzazione, per arrivare alla “pace duratura”.
Parte I
1. La guerra senza fine nella modernità/colonialità
Notoriamente, secondo Thomas Hobbes, la condizione naturale dell’uomo è quella di Bellum omnium contraomnes, vale a dire, uno stato di guerra permanente e universale. La Guerra dei Cent’anni più sanguinosa della storia avvenuta nel XX secolo (dalla I Guerra Mondiale alla I Guerra del Golfo) darebbero ragione al filosofo inglese del ’600, nonostante le varie forme di potere assoluto (il Leviatano da lui teorizzato) o di potere democratico che l’umanità si è data. Né le prime decadi del XXI secolo hanno invertito la tendenza: dall’invasione americana dell’Afghanistan (2001) fino all’attuale invasione russa dell’Ucraina. Per i pensatori decoloniali, questa condizione dell’uomo vale soprattutto a partire dal 1492: anno in cui gli ebrei e gli arabi furono espulsi violentemente dalla Spagna (guerra di religione), le streghe cominciarono ad essere bruciate (guerra di genere) e l’America venne “scoperta” con analoghi metodi violenti (guerra razziale). Prima di questa data per le civiltà europee o anche dopo per le civiltà non europee, secondo Nelson Maldonado-Torres, il conflitto serviva solo come «paradigm of cosmology and social relations». Mentre nella modernità europea esso è stato naturalizzato «through colonialism, race, and particular modalities of gender differentiation». Insomma, la modernità colonial-capitalista ha naturalizzato il paradigma della guerra tanto da far pensare che sia la condizione-norma dell’umanità. «Il capitalismo porta la guerra come le nuvole portano il temporale», ha detto il pacifista francese Jean Jaurès alla vigilia della I Guerra Mondiale, che provò a scongiurare e per questo assassinato. I motivi o espedienti per implementare tale normalizzazione, limitandoci alla sfera non strettamente economica, avrebbero a che fare con il processo che a partire dal 1492 ha reso l’Io (l’umano) allergico all’Altro (che diventa così sub-umano). Secondo la terminologia proposta dal pensiero decoloniale, questo processo di allergizzazione è la “coloniality of being”, cioè quella logica che, a causa della matrice coloniale del potere nella modernità/colonialità, ha distinto fra humanitase anthropos, ovvero fra esseri umani degni di questo nome e esseri non degni di questo nome. […]
2. Guerra Russia-Ucraina: quando è cominciata e fra chi?
Il 22 febbraio 2014, a seguito delle violente proteste dei nazionalisti filooccidentali, fra cui alcuni nazifascisti, il Parlamento ucraino destituì il presidente filorusso Viktor Yanukovych, che si era rifiutato di sottoscrivere il trattato di associazione con l’Unione Europea. Il 24 febbraio 2022 la Russia di Vladimir Putin, sotto gli occhi increduli degli europei, decide di invadere l’Ucraina con l’intento ufficiale di destituire il Presidente antirusso Volodymyr Zelensky e “denazificare” il Paese. Dato l’immediato appoggio militare degli USA agli ucraini (che per alcuni analisti precede l’invasione russa), appare da subito che lo scontro non è solo fra ucraini e russi ma fra questi ultimi e la NATO.
Ci si accorge da subito che è scoppiata una guerra per procura che la NATO non può combattere direttamente contro il governo oligarchico russo, guidato da un presidente ex funzionario dell’intelligence del KGB, ma nostalgico non tanto dell’URSS quanto dei passati fasti dell’impero zarista. […]
3. Guerra Russia-Ucraina: scontro tra nazionalismi e continentalismi?
Parlando dei fondamentalismi europei, anche Franco Cassano segnalava un quarto di secolo fa che la sola matrice liberaldemocratica, originaria dell’Europa occidentale, non poteva essere il solo modello per l’integrazione europea ad est, come lamentava Kirill (il patriarca della chiesa russa ortodossa). Profeticamente scriveva:
Fino a quando la differenza tra le diverse tradizioni europee sarà vista in modo così caricaturale e manicheo non ci potrà mai essere dialogo, ma solo conquista, annessione […]. Chiudersi nel recinto degli attuali confini culturali condanna a non capire i problemi dell’est come quelli del sud, e trovarsi poi impreparati alle crisi del futuro (Complessità dell’Europa, in Modernizzarestanca, il Mulino).
La crisi del futuro è diventata presente e siamo completamente impreparati, come temeva il padre del pensiero meridiano, che forse ebbe queste premonizioni perché aveva ancora davanti agli occhi i fatti terribili della Jugoslavia e quelli ancor più terribili che potevano accadere nell’ancor più complesso spazio post-sovietico. […]
Rada Iveković parla di “epistemological confusion” e generalizzato “confusionism in political language” quando, ad est soprattutto, ogni posizione antifascista per esempio è scambiata per una posizione stalinista. Questa confusione aumenta quando dalle bocche autoritarie di Putin (nostalgico dell’impero russo) e Erdoğan (nostalgico dell’impero ottomano) spunta fuori la lingua anticoloniale che accusa l’Occidente di voler preservare il proprio sistema neocoloniale, assumendo un volto shakespearianamente grottesco a metà strada tra il padrone Prospero e lo schiavo Calibano della Tempesta. Da qui l’avvertimento dei pensatori decoloniali, secondo i quali la de-occidentalizzazione deve essere criticata da un punto di vista decoloniale, senza dimenticare che questa critica pena il perpetuarsi della logica della colonialità con gli attori che si scambiano meramente di posto. Per questo, la guerra finisce se ci disconnettiamo (delink) dalla logica coloniale che attanaglia il mondo occidentalizzato e quello de-occidentalizzato a venire. La guerra può finire se riusciamo ad evadere dalla prigione della matrice coloniale del potere che presuppone implicitamente la guerra senza fine, lo scontro perenne fra un “noi” e un “loro”, fra the West and the Rest e viceversa: presupposto frutto del retaggio-fantasma ideologico coloniale che ancora infesta lo spazio della differenza coloniale e quello della differenza imperiale.
Oggi questo fantasma provoca lo scontro fra il buon governo ucraino filoccidentale aggredito e il cattivo governo russo antioccidentale aggressore oppure, se cambiamo prospettiva, fra il cattivo governo ucraino filoccidentale aggressore e il buon governo russo antioccidentale aggredito. «A plague on both your houses», ci viene da concludere ancora una volta shakespearianamente con le parole di Mercuzio in Romeo e Giulietta, maledicendo sia la bellicosa occidentalizzazione del mondo sia la sua altrettanto bellicosa de-occidentalizzazione.
4. Guerra Russia-Ucraina: disconnessione decoloniale dal double standard occidentale?
Se così è, allora, decolonialità, per il mondo intero, significherebbe liberarsi da questo gioco e giogo per immaginare l’utopia di un mondo pluripolare, senza binarismi conflittuali. Per noi europei, significherebbe liberarsi dalla storica ipocrisia della nostra civiltà “che gioca coi propri principi”, e per questo “moribonda”, secondo Aimé Césaire ((Discorso sul colonialismo, Ombre corte): ipocriti, ad esempio, perché ci siamo accorti dell’olocausto solo quando questo è stato perpetrato sul suolo europeo (dai bianchi contro i bianchi) e non quando è stato scatenato tante volte fuori dall’Europa (dai bianchi contro i “neri”); ipocriti perché questo storico doublestandard lo attiviamo ancora adesso distinguendo fra aggrediti e aggressori solo quando ci conviene, ad esempio, con gli ucraini ma non con i palestinesi o i curdi; ipocriti perché facciamo combattere una guerra agli ucraini dicendo loro che combattono per la libertà di tutti e non per la difesa degli interessi geopolitici della NATO. Insomma, decolonialità significa liberarsi da questa ipocrisia per provare ad arrivare se non alla “pace perpetua” di Kant, almeno ad una pace che duri il più possibile.
Già si odono, impazienti, i mormorii su queste “fantasticherie utopistiche”. Per noi invece, che abbiamo diversamente da Hobbes un’idea antropologica positiva dell’umanità, “fantasticare” su questo mondo è giusto, e pure possibile. È invece scandaloso che, adornando da secoli i nostri discorsi con le parole “civiltà”, “modernità” e “progresso”, l’antico, primitivo, arretrato strumento che tiriamo fuori per la risoluzione dei conflitti sia ancora una volta la pratica della guerra.
Parte II
1. Domande sul campo come pratica ecofemminista di pace
Le domande emerse nella sezione precedente sono state riformulate nell’ambito di un’osservazione partecipante condotta all’interno di sette gruppi di ecofemministe italiane, alcune delle quali hanno partecipato alla marcia della pace su Kiev, svoltasi il 10 luglio 2022. Il framework metodologico è stato quello della Grounded Theory e la posizione assunta durante la marcia è stata laterale: fisicamente e concettualmente, per interrogarsi, tra l’altro, sulla riflessività dell’osservante. […]
La pratica ecofemminista “dell’esserci”, come corpo “situato”, che crea conoscenza partendo dalla relazione e attraverso la relazione, è diventata una pratica pacifista, messa in atto alla marcia per la pace che il Mean (Movimento Europeo di Azione Non violenta), nato dal basso, sulla rete, dopo il 24 febbraio 2022 e ispirato alle pratiche pacifiste ed ecologiste di Alex Langer e al suo motto Lentius, profundius, suavius, che rivede per contrasto il motto olimpico Citius, altius, fortius, ritenuto escludente, per- ché basato sul concetto di selezione naturale, su una visione colonialista che in una pratica pacifista deve essere destrutturata, ad ogni livello, a partire da quello etnico-centrico (appunto, lontani da ogni centro). L’osservazione partecipante che si è provato ad approntare non poteva dunque prescindere dall’esserci, come ricercatrice, col proprio vissuto, per osservare anche il rapporto tra le co-ricercatrici osservate, il paesaggio e l’ambiente, la loro percezione e la percezione di sé attraverso loro, in una circolarità che ancora una volta è metodo di appercezione collettiva ma anche elemento identitario, la “Matria”, appunto.
2. Risposte “in campo”di guerra
Le interviste alle attiviste e le ecofemministe, che offriamo come appendice, sono state condotte durante il lungo viaggio di ritorno in pullman, prima da Kiev a Melika, passando per Leopoli, e poi da Melika a Cracovia: in tutto quasi venti ore di tragitto e l’attraversamento a piedi della frontiera ucraino-polacca. Facendo frequentemente ricorso alla tecnica del backtalk, si è concordato con le partecipanti alla marcia la “centratura” delle domande, discutendole insieme e identificando insieme, le testimonianze che sarebbero state più significative. In questo modo si sono potute avere “le interpretazioni dei partecipanti sulle interpretazioni del ricercatore”, ossia uno strumento qualitativo per “metacomunicare la ricerca”. La scelta di condurre le interviste semistrutturate in pullman, durante il viaggio di ritorno, è stata dettata dalla condivisione, tra le partecipanti e la ricercatrice, dell’attribuzione alla marcia dei propri corpi col proprio vissuto una forte valenza simbolica in tutti i luoghi possibili: per strada, nei palazzi delle istituzioni (dove si sono tenuti i tavoli tematici di discussione e confronto tra gli attivisti europei ed ucraini), nei bunker antiaerei. Volevano (volevamo) raccogliere a caldo le loro autonarrazioni, attorno alle domande anticipate loro nel viaggio di andata, con l’intento di aprire la riflessione in chiave intersezionale. Insomma, il racconto persona- le, attraverso le interviste semistrutturate condotte dopo la marcia per la pace, è finito per diventare il racconto di diverse forme di oppressione, il racconto di diverse guerre, senza che tuttavia questo sguardo intersezionale venisse mai esplicitato.
Pinuccia Montanari (storica esponente dell’ecofemminismo italiano, impegnata in numerose missioni pacifiste e femministe con Alex Langer) “Il viaggio che facemmo durante il conflitto in ex Jugoslavia / un viaggio di donne lungo i confini / chiamate dalle madri dei soldati… per poter costruire dei ponti di pace. E lì Alex Langer / che ci aveva seguito e sostenuto in questo viaggio / disse una cosa / importante / (scandisce) che vale anche qui / oggi / (enfasi) per l’Ucraina… che per costruire la pace bisogna costruire dei ponti tra le persone / tra gruppi di donne / come facemmo allora / tra sindacati e sindacati / tra studenti e studenti / tra insegnanti e insegnanti. Costruire delle relazioni ad ogni livello che possano essere la premessa per un percorso solido di pace durevole”.
Tetyana Shyshnyak (mediatrice culturale e cantante lirica) “La guerra in Ucraina per me è iniziata nel 2014 / le prime truppe… di… persone… erano persone… / ma erano soldati / (accenna un sorriso amaro) / ben equipaggiati / (sgrana gli occhi) ma non si capiva di / quale / (scandisce) esercito / che hanno riempito la mia città. Sono riuscita a far scappare mia mamma / nel maggio 2014. È stata con me in Italia. Non ha studiato italiano perché pensava che il mese prossimo ritornerà. Viveva praticamente sulle valigie. Dopo il 24 febbraio ha capito che non può più tornare e in due mesi ha / recuperato il suo italiano / (sorride) che non ha studiato per otto anni”.
Marianella Sclavi (etnografa urbana, già docente al Politecnico di Milano di “gestione creativa dei conflitti”) “La riflessione su un quadro più ampio / su quello che sta succedendo / è fondamentale anche per un negoziato che non sia quello di Dayton, un negoziato cioè che fa permanere le ragioni del conflitto e non cambia il contesto che l’ha reso possibile. È questo il luogo dal quale lanciare / questo / (enfasi) messaggio e questo Movimento europeo di azione non violenta. Rimanere in contatto, umanamente, raccontarsi cosa accade e cosa si vede. Non siamo importanti solo se riusciamo a dare un contributo materiale. Se c’è una communitybuilding/ lì si innescano anche una serie di azioni / […] Per esempio: il problema dei musei. I russi o i filorussi che rubano o distruggono beni museali considerati elementi identitari: possiamo trovare in Italia (tramite le nostre reti) il modo di intervenire”.
Elizabeth Rijo (originaria di Haiti, è presidente dell’associazione La Rosa Roja, della rete Coordinamento Diaspore in Sardegna) “Essere qui per me significa essere fisicamente […]. Mi sono mobilitata con la mia organizzazione a raccogliere beni immateriali e materiali… […] Sentivo che comunque non è sufficiente […] io sentivo il bisogno e il desiderio di andarci per vedere, e vedere che cosa si può fare di più oltre a quello che si può fare da remoto. Essere qui come donne per me significa trovare le donne, stare vicino a loro. Infatti, appena arrivata il mio sguardo si incrociò con quello di due donne, Julia e Valentine […] All’incrocio dello sguardo […] mi hanno detto: ‘Il tuo sguardo ci dà conforto’. Secondo me si sono sentite complici con una complice che viene da oltremare per condividere con loro il loro dolore e vedere in che cosa poteva essere utile”.
Marija Todorovic (lavora nel settore della cooperazione internazionale) “Sono di origine serba / abito in Italia da 21 anni / dopo l’ultima guerra / dall’aggressione della Nato contro la Serbia. Era il… 24 marzo del 1999… quando è cominciata. Finita dopo… 78 giorni. Avevo 20 anni. Il primo giorno / stavo ri entrando la sera dal lavoro / si sentivano le sirene dappertutto / i pullman erano tutti bloccati / la città era completamente nel buio. Io stavo camminando in un punto che si chiama autocoman, giù a Belgrado / ho sentito un boato dietro di me / mi sono girata / era un cavalcavia… un ponte… era caduto. Ho continuato a camminare / facendo finta di niente / (sorride). […] Non è che non avevamo paura / (scandisce). È semplicemente che non avevamo / tempo / (enfasi) di avere paura. Non ce ne stavamo nemmeno accorgendo di quello che stava accadendo intorno a noi. Un po’ come agli ucraini… quello che succede adesso. […] Soprattutto chi l’ha vissuto in prima persona / Capendo quello che loro provano in campo, sono voluta tornare su / quel campo / (con il tono di voce pone l’accento sulla parola ‘quel’) per cercare di fare qualcosa, quello che non ho potuto tanti anni fa quando ero ancora bambina. Dopo 23 anni. Perché adesso mi sento pronta a fermare i carri armati a mani nude, io ci sono, eh! (ride). Se abbiamo dieci guerre nel mondo oggi, delle altre guerre nessuno ne parla. Ma i bambini sono bambini di tutto il mondo, le mamme sono mamme di tutto il mondo. Mi sono accorta che c’è tanto rancore / tanto rancore perché… è giusto / (annui- sce) è giusto avere rancore in questo momento e / lo giustifico tantissimo / (annui- sce) e qui faccio l’esempio della guerra che è successa tra la Serbia e la Croazia… piano piano avevamo capito che comunque loro sono nostri fratelli […] potevamo avere rancore nei confronti dei presidenti che sono veramente responsabili di tutta quella strage / con tutta la ex Jugoslavia, ma non potevamo mai avere rancore con le persone / anche se sono successe delle porcherie sia da una che dall’altra parte / sono cose ingiustificabili che io penso che nessuna persona sana di mente del mio popolo avrebbe mai voluto che accadesse”.
Questo testo è un capitolo (titolo originale “La guerra senza fine dentro la modernità/colonialità: riflessioni decoloniali e pratiche intersezionali per una pace duratura“) del libro Quando si dice pace (FrancoAngeli), a cura di Antonia Rubini. Qui di seguito il lungo capitolo completo, arricchito da un’ottima bibliografia e da una sitografia:
Nicoletta dice
Sono d’accordo su quanto ho potuto leggere, nn ho mai accettato l’idea dei buoni/cattivi e l’attribuzione soprattutto di questa categoria divisoria a un popolo, a una nazione, a un gruppo di persone, per esempio anche l’uso della parola “terroristi” che spesso chi è al potere utilizza nei confronti dei suoi oppositori, grazie degli spunti di riflessione