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di Francesco Martone
C’è un silenzio spettrale, inconsueto oggi fuori dalla mia casa. Non sento voci, i rumori attutiti. Sembra come che questo risveglio oggi ci porti su un orizzonte tragicamente nuovo, sconosciuto. Non so, ma mi pare che la sequenza di attentati da Sharm ElSheik, a Beirut e ora Parigi segni uno spartiacque. Si dice “questo è l’11 settembre dell’Europa”. E ieri mentre mi arrivavano le notizie sul cellulare mi venne in mente quella telefonata dal mio ufficio nel senato nella quale mi si diceva che un piccolo aereo si era schiantato su una delle Torri.
È la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di inedito, nuovo, tragicamente più grande di noi. Oggi ho la stessa sensazione e non perché le migliaia di morti fatti dalle guerre e dal terrorismo jihadista oltreconfine valgano meno, ma perché ora come non mai è evidente che la guerra che sempre veniva vista come qualcosa di “lontano”, da combattare altrove o far combattere per procura, sorte tragica per altri popoli, che secondo la vulgata mainstream forse in fondo in fondo se l’erano andata a cercare, ci accomuna.
Forse la cosa più sensata che ho letto finora oltre alle tristi e prevedibili ma per questo non tanto meno deprecabili reazioni di pancia di politici e non, o di una compulsiva sequela di autoflagellazioni dietrologiche per colpe dell’Occidente, riguarda quelle persone che scappano qui in Europa e che l’Europa vorrebbe lasciare a casa loro. “Voi che ce l’avete con loro, ora vi rendete conto che scappano dalla stessa identica tragedia?”. E mi sono tornate alla mente alcune riflessioni fatte dopo l’assalto a Charlie Hebdo, e ahimé tuttora assai pertinenti. Sono riflessioni che non prescindono dall’urgenza di assicurare a tutti e tutte incolumità e operare per la prevenzione, credo che questo sia un nostro diritto di cittadini e cittadine. Ma di inquadrare tutto intorno ai principi di rispetto dei diritti umani e civili, del dialogo e della convivenza civile, mettendo al bando parole di guerra.
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Dentro-fuori. Mi torna spesso alla mente quest’ipotesi di lavoro per cercare di immaginare una qualche risposta “politica” all’ennesimo dramma che occupa ora le nostre teste, e le testate di giornali di tutto il mondo. Solo frammenti di ipotesi di lavoro. Il primo: prendere coscienza del punto dal quale parte il nostro sguardo sugli eventi. Un punto di partenza di cittadini e persone di sinistra, o per lo meno preoccupate di assicurare i diritti, promovere la pace, ed il bene comune. Io persona di sinistra, non islamica, che si sforza ma che si rende conto di non poter avere tutti gli strumenti per capire un mondo “altro”.
Allora riconoscere la propria limitatezza e la propria “alterità” serve a decifrare meglio le ipotesi sulle quali provare ad avviare una riflessione concreta. Secondo: che l‘Islam lo conosce e lo vive chi è islamico, chi è laico ma deriva da quella storia, chi si sforza di superare barriere, chi costruisce ponti e prova a ridisegnare frontiere. Che la linea di frontiera la definisce chi sta da una parte ma anche da chi sta dall’altra parte. È lì il tema della negoziazione, della mediazione, della traduzione delle differenze. Allora ne sovviene la terza: ogni esperimento di ingegneria sociale, di costruzione a tavolino di società multiculturali è fallito, dall’Inghilterra alla Francia. E si deve riprendere il discorso su altre fondamenta, quelle della centralità del soggetto che si vorrebbe beneficiario di tale politica.
Credo che l’unica maniera per poter affrontare questo grande interrogativo che ci pone l’integralismo islamico, con le sue derive violente e militari sia quello di provare a sostenere una strategia dentro-fuori. Chi è dentro quel mondo sa ed ha gli strumenti per mettere in discussione le sue degenerazioni, ha i linguaggi, le pratiche, nel sangue, nella mente. Sono loro che – senza applicare distinzioni tra islam radicale o moderato – sono cittadini e cittadine di cultura, estrazione o religione islamica che ripudiano la guerra, la violenza, il fanatismo, che vogliono vivere in una società plurale che sappia valorizzare le differenze senza necessariamente omologarle a forza. Sono loro cui spetta il lavoro “dentro”. E noi possiamo solo contribuire a creare le condizioni perché questo avvenga. Ossia, la politica invece di dichiarare guerra dovrebbe mettere in campo iniziative, progetti, risorse per dare capacità empowerment per quelle persone, assicurare la circolazione di idee, agevolare lo scambio, sostenere iniziative culturali e di dialogo all’interno di quella o quelle comunità.
Eppoi far si che ogni possibile rigurgito razzista, islamofobico, xenofobo sia messo al bando, perseguito che alla fine l’agenda politica di chi uccide in nome di Allah è identica a quella di chi vuole sbarrare le frontiere, perseguire chi si percepisce come diverso. Aprire spazi di dialogo ed interlocuzione all’interno, e costruire barriere di protezione dei diritti civili ed umani, di rispetto della dignità della persona all’esterno e dall’esterno. Per far sì che anche la necessaria opera di tutela della “sicurezza”, significhi protezione e tutela della dignità e dei diritti delle persone, non deriva securitaria.
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