Un’indagine della Coldiretti spiega che 6 italiani su 10 ne avrebbero una reale paura e quasi la metà non prenderebbe casa in una zona infestata dai cinghiali. I branchi – sottolinea la prima delle organizzazioni agricole nazionali – si spingono sempre più vicini ad abitazioni e scuole, fino ai parchi, distruggono i raccolti, aggrediscono gli animali, assediano stalle, causano incidenti stradali con morti e feriti e razzolano tra i rifiuti con evidenti rischi per la salute. Zone infestate, invasione, assedio… il panico, alimentato in modo ossessivo dai media, si diffonde e, in quanto al vocabolario, in guerra non si bada a certi dettagli… Quella contro il “nemico selvatico” non è certo una guerra recente, ma in questi ultimi mesi in Italia, spiega Marco Reggio, la logica dell’eliminazione fisica degli “invasori”, con certi rimandi all’immaginario machista e militarista che caratterizza le retoriche di molte componenti del governo, potrebbe trovare un consenso ancor più disinibito. E poi, in fondo, diciamola tutta, c’è davvero qualcosa di male nel sostenere che gli umani hanno conquistato il diritto assoluto di gestione dello spazio e possono decidere quale sia il numero accettabile di esemplari di una data specie sul territorio? Fossero in grado di farlo gli ungulati, oppure le mucche, i cavalli o altri animali “da reddito”, pensate che esiterebbero? Probabilmente, ha ragione l’appello antispecista che convoca la manifestazione del 12 febbraio a Firenze (vedi immagine in fondo all’articolo): in fin dei conti si tratta di decidere da che parte stare. Da quella del coabitare un pianeta e della tenace resistenza animale oppure da quella del suprematismo, della proprietà sugli spazi del mondo, dei confini e del mattatoio
Quella agli animali selvatici è una guerra che va avanti da molto tempo, forse da secoli, ma che da alcuni anni nel nostro paese si mostra in tutta la sua violenza. Ne è una manifestazione eclatante l’emendamento recentemente inserito nella legge di bilancio, una norma che permette di abbattere (uccidere) la fauna selvatica anche nelle aree urbane e nelle aree protette, in qualsiasi momento, ossia anche fuori dalla stagione di caccia.
Si tratta dell’ultimo atto (per ora) di un percorso che non ha colore politico, e che ha subito diverse accelerazioni negli ultimi anni. Si configura certamente come un salto di qualità: da oggi la vita sarà ancora più difficile, in particolare, per i cinghiali che si avvicinano agli spazi considerati appannaggio della nostra specie.
Questo ennesimo balzo in avanti nella guerra all’alterità animale esprime una continuità evidente con le politiche di tutto l’arco parlamentare degli ultimi anni (non solo nei confronti dei non umani, come vedremo). Ne dà testimonianza, forse involontaria, il deputato Stefano Vaccari, capogruppo Pd in commissione Agricoltura, nella sua “protesta” contro la norma: “un’imboscata arrogante fatta alle 6 del mattino al termine della commissione Bilancio, quando avete forzato la mano per approvare un emendamento su un tema che noi per primi avevamo posto al ministro: la presenza abnorme dei cinghiali ungulati in gran parte d’Italia” (il corsivo è mio). Insomma, il frame di riferimento dell’opposizione non sembra essere poi così diverso da quello della maggioranza: noi umani abbiamo diritto assoluto di gestione dello spazio, e decidiamo quale sia il numero accettabile di esemplari di una data specie sul territorio, senza chiederci se la “presenza abnorme”, forse, non sia innanzitutto la nostra.
Tuttavia, non è per caso che l’emendamento sia stato approvato proprio sotto il governo Meloni. La logica dell’eliminazione fisica dei selvatici – gli “invasori” – rimanda a un immaginario machista e militarista che caratterizza le retoriche di molte componenti del governo in carica, soprattutto quando trova una sua espressione esplicita. Al tempo stesso, questa postura rientra nella logica antropocentrica che, nel contesto neoliberista, si incrocia, potenziandosi, con una serie di altre tendenze come la gentrificazione, la repressione del dissenso, l’affermazione dei modelli intensivi di allevamento/agricoltura. Anche per questo, emerge incessantemente nei discorsi e, soprattutto, nelle politiche, dello schieramento “opposto”, benché in modo meno esplicito, come testimoniato dalle parole del capogruppo Pd, e come avviene ormai da tempo su altri temi centrali nel dibattito pubblico, a partire dal “problema” dei migranti (che è, infatti, un problema tanto per il centrodestra quanto per il centrosinistra: un problema condiviso le cui soluzioni differiscono, e spesso neppure di molto).
Per certi versi, non si tratta di nulla di nuovo, se pensiamo che questo approccio al selvatico è stato denunciato, in tempi recenti, dalla campagna StopCasteller in riferimento alla gestione degli orsi trentini. Introdotti sul territorio più di vent’anni fa per attingere ai fondi europei e promuovere il turismo regionale, non appena aumentano di numero e si imbattono in qualche umano non preparato all’incontro, diventano un nemico, prima da tenere sotto controllo, poi da eliminare o imprigionare in un’apposita struttura. Anche qui, l’atteggiamento più esplicitamente xenofobo è quello della giunta leghista, ma le politiche di intolleranza nei confronti della libera circolazione di corpi non “autorizzati” hanno una storia più lunga e decisamente bipartisan.
Ma in che cosa consiste, effettivamente, questa “invasione”? Consiste essenzialmente nella propensione a riprendersi degli spazi e delle risorse. Spesso sono proprio le attività umane, a partire dalla caccia, a spingere alcune specie verso le aree urbane; in altri casi, è un trattamento poco oculato dei rifiuti, gli scarti sempre più ingestibili di una società iperconsumistica. Si tratta, in fondo, di una forma di resistenza da parte degli animali selvatici e sinantropici, che si riprendono uno spazio che l’umanità – e, in particolare, la porzione di umanità più privilegiata – ha loro sottratto. Territori erosi dalla cementificazione, dall’agricoltura industriale, dal trasporto delle merci e delle persone, o impoveriti dalle nostre attività, o anche semplicemente in affanno sotto la pressione della sovrappopolazione umana. Si tratta di una resistenza inconsapevole ma non per questo meno tenace: non è facile, ed è forse impossibile, eliminarla, a dispetto delle promesse di eradicazione degli amministratori locali e nazionali. Così come non è possibile sterilizzare completamente i luoghi turistici, eliminando l’imprevisto, l’incontro con l’alterità – con la sua bellezza, ma anche i suoi rischi -, non è pensabile una città senza altre specie. Eppure le fantasie del “rischio zero”, dell’eradicazione totale e definitiva, come ha mostrato il periodo pandemico, sono un ingrediente essenziale della governamentalità odierna.
Una città a misura d’uomo, invece, quella sì è possibile. Ed è precisamente questo che le città sono oggi: luoghi a misura di una sola specie. O, a ben vedere, a misura di sottoinsiemi di umani che si riconfigurano periodicamente lungo assi di oppressione e privilegio come il genere, l’etnia, l’abilità, il reddito, l’età. Riconoscere la resistenza caparbia degli animali significa decidere da che parte stare, e questo è, in fondo, l’appello della manifestazione indetta per il 12 febbraio a Firenze da alcune realtà antispeciste. Non è un caso che fra queste ci siano soprattutto rifugi per animali cosiddetti “da reddito”, luoghi che, come Ippoasi, dedicano il proprio tempo alla cura di non umani sottratti(si) al circuito dello sfruttamento: galline, mucche, maiali, cavalli, ma anche cinghiali, appunto, che hanno trovato in questi luoghi una nuova vita. Coloro che li gestiscono sanno bene quanto sia difficile la convivenza fra specie diverse, quanto sia condizionata dalle regole di un mondo esterno che non è possibile ignorare, e al tempo stesso quanto sia necessario elaborare delle pratiche per rendere questa coabitazione più pacifica possibile.
Ma i rifugi sanno altrettanto bene quale sia la visione egemonica nel discorso pubblico, una visione che hanno conosciuto da vicino, per esempio, con l’emergenza della peste suina. Le misure di contrasto a tale fenomeno, infatti, hanno da subito colpito proprio le realtà che degli animali si prendono cura senza fini di lucro, e le hanno colpite al fine di tutelare il settore zootecnico, il vero responsabile della diffusione di questo tipo di patologie, incubatore ben più temibile delle piccole realtà in cui gli animali non vengono ammassati in spazi esigui, non vengono disabilizzati per meglio gestirli, e soprattutto non vengono smembrati e utilizzati come cibo. In altri casi, tali regolamentazioni hanno costituito il pretesto per campagne di odio nei confronti di singoli soggetti, come i cinghiali di La Spezia, a rischio abbattimento per parecchi giorni, o il cinghiale recentemente assassinato dalle istituzioni a Massarosa (Lucca).
Accanto a quello del settore zootecnico, è ancor più chiaro il ruolo delle lobby venatorie, da sempre caratterizzate da un’ambivalenza fondamentale. Causa e soluzione del problema al tempo stesso, infatti, i cacciatori sono coloro che in molti casi hanno fatto riprodurre in cattività e poi reintrodotto sul territorio numerosi esemplari di specie selvatiche concepiti fin dalla nascita come prede del loro amato passatempo. Quando la specie diventa “invasiva”, distrugge le colture o minaccia i centri abitati, sappiamo bene che una delle prime misure intraprese dalle amministrazioni è quella di avvalersi delle capacità dei cacciatori stessi, con il via libera alle doppiette e tutto il conseguente dispiego di retoriche sulla caccia come opera di ripristino dell’equilibrio “naturale”. Anche in questo caso, queste logiche riguardano lo spazio: chi ha diritto ad attraversarlo? Chi può abitarlo? Chi deve essere controllato e chi può controllare? In quanto umani, ci facciamo spazio: per esempio, attribuendo un valore assoluto al nostro diritto a riprodurci senza la minima considerazione per gli effetti sugli ecosistemi, cui fa da contraltare il diritto che ci arroghiamo di controllare non consensualmente le nascite degli animali selvatici o di decretarne la morte.
Credo dunque che la questione vada oltre le lobby che la situazione immediatamente richiama alla mente, quella zootecnica e quella venatoria. Il sistema di produzione agricolo nella sua complessità – un sistema che non a caso sembra costituire una delle basi dell’attuale gruppo di potere – è un sistema rapace ed estrattivista, di cui l’industria dello sfruttamento animale costituisce la parte più evidentemente specista. Ma ancora più in generale, la presenza della nostra sul pianeta si dispiega nei campi, nelle montagne, nelle città, all’insegna del suprematismo umano: massimizzare i vantaggi per noi minimazzando i vantaggi per loro. Mi ha colpito che un articolo che intendeva dare spazio ad alcune voci contrarie all’emendamento “sparacinghiali” inquadrasse la questione nei seguenti termini: “In Italia si conta un esemplare ogni ventisei abitanti, per un totale di 2,3 milioni di esemplari che mettono a rischio la salute e la sicurezza degli italiani con un incidente ogni 41 ore causato dalla fauna selvatica” (corsivo mio). Non potrebbe essere più evidente il bias di specie, che lascia intendere che la costruzione di immense arterie stradali che tagliano i boschi sia un diritto sacrosanto della civiltà umana, mentre un cervo che quella strada la attraversa sarebbe nientemeno che un attentatore alla pubblica sicurezza. O che chi “mette a rischio la salute” è il maiale contaminato e non chi lo ha fatto nascere e rinchiuso in mezzo a migliaia di suoi simili in condizioni malsane.
Questa forma di violenza sistemica si articola quindi molto efficacemente, a livello pratico e discorsivo, con tutta una recente storia di lotta al degrado. Facendo leva sulla coppia oppositiva degrado / decoro, governi e sindaci hanno dichiarato guerra agli spazi di convivialità pubblica, recintandoli e iperregolamentandoli, e alle soggettività non conformi, respingendole ai margini dei quartieri rispettabili a suon di fogli di via, daspo e contravvenzioni varie. Quello che sta emergendo, dunque, è un ulteriore soggetto indecoroso, che afferma la propria presenza sul territorio e il proprio diritto ad esistere. Un soggetto che, pur senza usare il nostro linguaggio, ci chiede da che parte stare.
GIANFRANCO LACCONE dice
Ben detto! Staremo dalla parte dei viventi ed impareremo il linguaggio anche del cinghiale. L’ideologia reazionaria oggi si esprime apertamente. La caccia che è vista dalla quasi totalità degli abitanti italiani come un fatto pericoloso e negativo, viene portata a modello di salvezza della specie. Sarà il suo affossamento, poiché la guerra contro chiunque, animale o pianta, insetto o virus, è un fattore destabilizzante che conduce alla inevitabile sconfitta di chi la conduce, talvolta senza bisogno che sia materialmente evidente, semplicemente generando problemi più importanti.