Come un pugno nello stomaco, di quelli che ti tolgono il respiro. Il racconto e le foto che trovate qui di seguito sono un brusco risveglio dall’orgia dei mondiali di calcio e dall’interessante dibattito sull’immunità per sindaci e consiglieri regionali. “Le SS si fecero costruire una piscina. Ad Auschwitz. La motivazione ufficiale: un serbatoio d’acqua per eventuali incendi. C’era anche la struttura per il trampolino… Non ho fotografato i circa 12 metri per 1,5 in altezza della matassa di capelli femminili trovati dagli scopritori del campo, se ne facevano reti da pesca e un tessuto simile al lino …”. Chi scrive è Paolo Bellino, noto come Rotafixa. Giornalista, Paolo costruisce bici oppure insieme a molti altri promuove campagne come #salvaiciclisti, per far capire una cosa semplice: l’automobile in città non serve, basta la bicicletta e le città sarebbero molto più serene e vivibili. Da alcune settimane ha deciso di festeggiare i suoi primi cinquant’anni con un giro del mondo (e questa è la tappa in Polonia), naturalmente in sella a una bici autocostruita. Una bici per rifiutare il dominio dell’auto, costruire nuove relazioni e gridare contro l’orrore dei campi di concentramento
di Rotafixa*
Le SS si fecero costruire una piscina. Ad Auschwitz. La motivazione ufficiale: un serbatoio d’acqua per eventuali incendi. C’è anche la struttura per il trampolino:
Con tutta probabilità usarono i prigionieri per la costruzione. I cui corpi morti poi finivano a circa 400 metri dalla piscina, qui:
Crematorio e camera a gas sono stati ricostruiti, canna fumaria compresa, perché i nazisti in fuga hanno distrutto le prove del più grande crimine della storia umana. Non ho fotografato i circa 12 metri per 1,5 in altezza della matassa di capelli femminili, originariamente stipati in sacchi pronti per la spedizione e così trovati dagli scopritori del campo (se ne facevano reti da pesca e un tessuto simile al lino grosso), per un totale di 1.950 kg.
Nel crematorio di quello che ora viene chiamato museo c’è il divieto di accendere candele o lumini:
non so se per motivi legati all’ambiente chiuso e poco areato o se (o anche) per pudore di portare una fiamma qualsiasi lì dentro.
Ho invece fotografato il sentiero che milioni di piedi hanno calpestato prima che i corpi che reggevano venissero uccisi con metodo industriale:
E altre foto che avremo tutti visto milioni di volte ma che nessuno snobismo antituristico, del tutto assente in questo luogo, mi ha impedito di fissare:
Sappiamo bene che in molti cercarono di evadere. Durante i lavori per la preparazione del cosiddetto museo, nel ’60, gli operai trovarono nel muro questo:
Oggetti nascosti da qualcuno che preparava una fuga che evidentemente non ebbe luogo. Malgrado la foto potrete vedere due paia di scarpe: da adulto e da bambino. Quando ho notato il rasoio ho pensato “ma che se ne fa, sta scappando” e immediatamente dopo ho capito che sarebbe servito a non farsi riconoscere come uno degli internati.
Non ho fografato le facce in lacrime dei visitatori, di ogni etnia, paese ed età. Non ho fotografato seguendone il verso di lettura l’oscena frase sul cancello, provando a fotografarla nell’unico verso digeribile, ovvero dall’interno verso l’esterno: ma è risultata illegibile per la presenza di un grande eucalipto che impedisce uno sfondo chiaro. La propongo comunque.
Ho fotografato invece la forca che usava la Gestapo per regolare i suoi luridi conti, e dove l’ultima esecuzione fu quella, nel dopoguerra, del primo comandante del campo di Auschwitz, Rudolf Hoss, ideatore -sotto pressione del suo capo, Himmel, infuriato per la lentezza dello sterminio e delle perdite sia di piombo sia di soldati utili, impazziti per il troppo scannare- della gasatura di massa tramite Zyklon B, un pesticida economico:
A proposito di Hoss, consiglio a tutti la lettura del suo memoriale, edito in Italia da Einaudi col titolo “Comandante ad Auschwitz”, terrificante nel mostrare la solerzia burocratica di quel regime. Hoss, fino all’ultimo, era scodinzolante per aver trovato una soluzione semplice a un problema complesso che angustiava i superiori. La mia copia è sottolineata più di quanto fossero i miei testi universitari.
Nota personale a margine: entrando a Oswiecim dopo un strada del tutto normale (a tratti bella, a tratti brutta) l’ingresso in paese ha cominciato a farmi venire i brividi, soprattutto per il passaggio lento e cigolante di diversi treni merci.
Sono ancora presenti i binari che portavano i carri al campo. A tratti brevi coperti per consentire il passaggio delle auto di chi ha casa o attività lì. Li ho attraversati con le ruote della mia bici diverse volte per andare all’albergo, l’unico aperto, ogni volta con un senso di sacrilegio che ancora mi resta. Eppure accanto c’è il traffico normale dei giorni nostri.
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* Altri racconti dal viaggio sono su escoafareungiro.com (titolo originale Là dove i demoni danzavano, felici).
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