Vorrà pur dire qualcosa il fatto che mentre tutti sono costretti a chiudersi in casa, gli unici a dover uscire siano i lavoratori manuali. Vorrà pur dire qualcosa se bergamasco e bresciano sono l’epicentro dell’epicentro lombardo, luoghi d’elezione del total business, di un attivismo frenetico in cui ognuno si fa imprenditore di se stesso e veicolo del contagio. Scrive Marco Revelli: “Da questo inferno, come dall’inferno della pandemia, bisognerà ben uscire. Con i buoni gesti di solidarietà e di rispetto delle regole, certo. Ma anche, come segno di rinascita, con la lotta, se è ancora lecito usare questa parola“
Vorrà pur dire qualcosa il fatto che mentre tutti sono costretti a “restare a casa” – anzi, a “chiudersi in casa” -, gli unici a dover “uscire” siano loro, i lavoratori. O meglio, i “lavoratori manuali”. Anzi, diciamola pure la parola obsoleta: gli Operai. E quelli che come loro lavorano con le mani.
“Quando la peste batte alle porte della città – ha scritto un opinionista francese chiedendosi Perché oggi rileggiamo La Peste di Camus? – il n’y a plus de place pour l’accessoire”. Non c’è più posto per l’”accessorio”, per quanto è futile e superficiale, nella vita quotidiana, ma anche nel pensiero. E nella coscienza collettiva. Ora, nella gran massa di cose che il coronavirus ha spazzato via in pochi giorni c’è anche quella falsa credenza, vero e proprio luogo comune delle retoriche neoliberiste, secondo cui il lavoro manuale sarebbe un residuo solido del passato. Marginale e poco rilevante. E che le nostre società “avanzate” vanno avanti nella marcia veloce in ben altri luoghi, su ben altri circuiti, dai reparti, dalle officine e dalle strade: nelle towers della banca e dell’alta finanza, nelle ZTL della comunicazione e della creatività, dell’intrattenimento e della produzione di denaro per mezzo di denaro.
LEGGI ANCHE L’uso politico dei parassiti (Massimo De Angelis), L’epidemia del neoliberismo (Raul Zibechi), L’antivirus è partire da sé (Lea Melandri), Perché proprio Bergamo? (Marco Noris)
Ora, con la brutalità di una natura feroce, il virus ci dice che non è così. Che tutto quello che avevamo posto al vertice della piramide sociale è in realtà “accessorio”. E che il “bene del paese” è affidato a quell’esercito di paria, che tutti i giorni sono costretti a esporre il proprio corpo – nei vagoni stipati della metropolitana, su bus contingentati ma pieni nelle ore di ingresso e uscita dalle fabbriche, sui furgoni della rete logistica che credevamo consistesse in un algoritmo ma che in realtà funziona a sudore, nei reparti delle fabbriche ad avvitare bulloni o produrre mascherine o anche solo a mantenere in vita le filiere della committenza internazionale -: costretti a esporre il proprio corpo perché, appunto, lavorano col corpo. Lo mostrano i lividi sulla faccia delle infermiere della rianimazione costrette a vegliare 18 ore al giorno, le mani escoriate dai guanti dei rianimatori h24, gli sguardi spenti degli autisti delle ambulanze che fanno la spola senza requie. Donne e uomini in carne e ossa che nella generale immobilizzazione della popolazione, vengono chiamati invece a una “mobilitazione totale” perché altrimenti “saremmo perduti”.
È tutta una gerarchia sociale che si rovescia, se volessimo ascoltare la parola del virus, nel momento in cui coloro che avevamo messo sulla cuspide, i divi del calcio, i campioni del gol e dell’intrattenimento, cui eravamo disposti a riconoscere paghe milionarie, fuggono come topi dalla nave su aerei privati, e loro, cui erano state riservate le briciole, posti precari e salari da fame, stanno invece lì, al centro del campo, inchiodati come servi della gleba ai loro “mezzi di produzione”.
Ma è anche la gerarchia spaziale – la misura del benessere e del “valore” dei territori – a saltare, nel momento in cui il contagio sembra colpire massicciamente di più le aree produttive, ad alta concentrazione di “attività” (quelle che appunto consideravamo modelli “d’eccellenza”) rispetto alle altre. Anche qui, vorrà pur dire qualcosa se bergamasco e soprattutto bresciano sono l’epicentro dell’epicentro lombardo, luoghi d’elezione del total business, di un attivismo frenetico in cui ognuno si fa imprenditore di se stesso (e inconsapevole veicolo del contagio). In qualche modo si potrebbe dire che, tragicamente, là dove ferve la “febbre del fare” si alza e dilaga anche la “febbre del virus” quasi che il morbo seguisse una scala di valori sadicamente connessa – una sorta di nemesi – con quella prevalente nel mondo umano.
D’altra parte, se vogliamo stilare una graduatoria dei diversi gruppi sociali valutati per il modo con cui hanno risposto all’emergenza sanitaria, dovremmo mettere in cima alla lista dei “peggiori” quelli che fino a ieri erano stati considerati “i migliori”: imprenditori e uomini d’industria, eletti come i veri “eroi moderni”, custodi del nostro benessere e del nostro posto nel mondo, e rivelatisi invece, di fronte all’”emergenza” ammalati di una cinica miopia. Fin da quando i primi casi dell’epidemia sono comparsi hanno chiesto, come un sol uomo, di non fermare il loro business. Di tenere “aperto tutto”, soprattutto le loro imprese. Hanno minimizzato, minacciato, ordinato. E anche quando il contagio si è esteso, mostrando tutta la propria pericolosità e letalità, hanno costruito la propria muraglia cinese intorno alle loro attività. Come se una linea invalicabile di confine fosse stata tracciata e si potesse fermare tutto – scuole, teatri, bar e ristoranti, stadi, chiese, parchi, uffici pubblici, tutto! – tranne le loro fabbriche (e le reti infrastrutturali necessarie a servirle). Al contrario di Yahveh che nel Libro di Giobbe dice al satana che lo tenta alla scommessa, di “toccare” quell’uomo pio in tutti i suoi possessi ma non nella vita, i confindustriali italiani invocano che si tocchi pure tutti nella vita, ma non nei possessi propri.
Esemplare in questo il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, bresciano (!), che ancora l’11 marzo – quando pressoché tutto il Paese diventava “zona rossa” – rendeva pubblico un comunicato in cui dichiarava “indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende, dando continuità a tutte le attività produttive e alla libera circolazione delle merci” (si deve a impuntature come questa se il decreto del Governo “Chiudi tutto” ha operato una chiusura solo parziale e probabilmente per questo solo parzialmente efficace). Due settimane prima, il 27 febbraio, dopo il primo allarme, le “parti sociali” avevano emesso una sciagurata dichiarazione congiunta in cui si affermava, testualmente: “Dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate”. L’avevano sottoscritto Abi (l’associazione bancaria), Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Alleanza delle cooperative, Rete Imprese Italia (CNA, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti) – e la cosa non stupisce. Ma anche Cgil, Cisl, Uil con una frettolosa superficialità che grida vendetta.
Per fortuna – oltre al sindacalismo di base, attivo soprattutto nella logistica – ci ha pensato la segretaria della Fiom Francesca Re David a difendere l’onore del sindacato italiano e a sostenere gli scioperi dilagati nella scorsa settimana “perché gli operai si sentono figli di un dio minore”, dichiarando che “non è tollerabile che vedano la loro vita di tutti i giorni protetta e garantita da tante norme, ma una volta superati i cancelli della fabbrica si trovino in una terra di nessuno”. E invitando Bonometti “e chi ragiona come lui a farsi un giro in autobus per andare in fabbrica e a lavorare nelle linee produttive dove la distanza tra le persone è di pochi centimetri”. Dove le mascherine scarseggiano o non si vedono neppure. Dove i controlli sanitari all’ingresso sono inesistenti. Dove le mense sono poco o nulla sanificate. E dove in caso di chiusura dei reparti non indispensabili alla produzione si chiede ai dipendenti di usare le ferie maturate, cioè di pagare di tasca propria l’emergenza. Condizioni ottocentesche, che portano alla superficie, con la drammaticità del momento, una condizione operaia precipitata, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, al livello più basso delle garanzie, dei diritti, del reddito e della considerazione sociale.
Da questo inferno – come dall’inferno della pandemia – bisognerà ben uscire. Con i buoni gesti di solidarietà e di rispetto delle regole, certo. Ma anche – come segno di rinascita – con la lotta, se è ancora lecito usare questa parola.
L’ultimo libro di Marco Revelli è Turbopopulismo. La rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche, (Solferino)
L’articolo è stato pubblicato su un prezioso compagno web di Comune, volerelaluna.it, spazio di comunicazione indipendente
Giovanni Papa dice
Grazie Marco. Mi stai permettendo con queste tue riflessioni di ripensare e ripesare le alleanze con vecchi e nuovi amici interni all’attuale cultura scientifica e tecnologica per sostenere una neonata cooperativa che immagina possibile autocostruire quanto utile alla sopravvivenza dei propri soci lavoratori, impegnati a scambiare le loro buone pratiche con altre analoghe realtà, interessate ad imitare i processi simbiotici tra virus, microrganismi e cellule. Giovanni Papa