intervista di Gianluca Carmosino a Serge Latouche
«La decrescita non è un’alternativa ma una matrice di alternative», per questo non ha dogmi «e spero non li abbia mai». Serge Latouche è piuttosto chiaro nel suo nuovo libro «Per un’abbondanza frugale» (Bollati Boringhieri): l’obiettivo dello slogan provocatorio della decrescita resta smantellare l’immaginario della crescita, soprattutto in tempi di crisi. E nel saggio da poco in libreria spiega come l’abbondanza frugale sia prima di tutto la rottura con la creazione illimitata di bisogni e di prodotti, ma anche con l’austerità imposta, che priva del necessario.
Il testo analizza malintesi e controversie che accompagnano i temi della decrescita. Latouche indica, ad esempio, quali tecnologie ha senso incentivare (in questo senso appaiono ridicole e banali le accuse alla decrescita di «ritorno al passato»), analizza i nessi tra ecologia e democrazia con il pensiero di Cornelius Castoriadis e André Gorz, mette in guardia dai rischi di ecofascismo, spiega perché la decrescita è «profondamente di sinistra» e perché la critica al capitalismo non è sufficiente. E ancora, richiama la shock economy di Naomi Klein per ragionare sulla crisi e prende le distanze da Maurizio Pallante (e dalla sua corrente della decrescita felice), secondo il quale la decrescita è compatibile con l’economia capitalistica di mercato. Uno dei temi soltanto sfiorati nel libro, la relazione tra decrescita e città, è al centro di questa conversazione tra Latouche e la redazione di Comune-info.
Quale relazione esiste tra architettura e i temi della decrescita?
L’architettura oggi è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o di palazzi prestigiosi, ma è deludente nell’insieme. Fallisce «nel fare città» e soprattutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio e la distruzione dell’ambiente, per non parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Architetti e urbanisti sono complici di questo, tuttavia alcuni cercano di porvi rimedio. Di certo, viviamo ancora nella città produttivista, pensata e strutturata in funzione dell’automobile, con le sue segregazioni, le sue zone industriali, i quartieri residenziali senza vita. Una città dove la speculazione immobiliare sfrenata ha cacciato i ceti inferiori e medi verso le periferie, dove si sono moltiplicati i centri commerciali e altri non-luoghi, penso alle stazioni agli aeroporti. Per poter abbozzare ciò che potrebbe essere l’architettura in una società della decrescita, bisogna prima capire cos’è la società della decrescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da un’economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della crescita non distrugge soltanto la città, ma aggredisce anche il senso dei luoghi lacerando il territorio e i legami sociali. Il fine della società della decrescita non è un capovolgimento caricaturale consistente nel predicare la decrescita per la decrescita. Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita fa cadere le nostre società nello sconforto a causa della disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita.
Per questo a volte sostieni che in realtà dovremmo parlare di a-crescita…
Certo, come si parla di a-teismo, che di de-crescita, perché si tratta dell’abbandono di una religione: quella dell’economia. Il cambiamento di prospettiva necessario per costruire una società autonoma di decrescita può essere concepito attraverso il circolo virtuoso delle otto «R»: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Non si tratta di un programma, ma di un’utopia concreta. Siamo nel campo delle idee con conseguenze pratiche. Tre di quelle «R» hanno un ruolo più «strategico» delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti gli orientamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone comuni.
Qualcuno dice che l’alternativa sono i progetti di architettura sostenibile.
L’architettura eco-responsabile non è la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. Gli ecoquartieri come Vauban a Friburgo, Houten a Utrecht, Bedzed a Sutton sono delle isole di sostenibilità dentro un mare di inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Anche il fallimento clamoroso delle «ecocittà» cinesi è sintomatico. In questi progetti si tratta sempre di abitare meglio, ma non di cambiare il rapporto con la natura, con il paesaggio, con il consumismo. I tentativi degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi, quali regioni urbane, città-giardino, città-distesa, tentativi che cercano una nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati all’insuccesso quando manca un’analisi globale del fallimento della società della crescita. La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è secondo rispetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti né degli urbanisti, è il risultato di una crisi di civiltà.
A cosa somiglierà la città decrescente?
La città decrescente dovrebbe essere una città con un’impronta ecologica ridotta, in grado di stabilire un rapporto forte con l’ecosistema. Invece di sognare la costruzione di città nuove, bisognerà imparare ad abitare le città in modo diverso, al Nord come al Sud. Bisogna sicuramente reinventare una città più «compatta», perché ogni anno spariscono ettari di terre agricole sotto l’asfalto e il cemento. Al posto delle megalopoli attuali, bisogna immaginare città ecologiche, fatte di villaggi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano energie rinnovabili. Nella città decrescente, gli abitanti ritroveranno cosi il piacere di gironzolare, come sognavano Charles Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere di abitare il mondo è quindi un imperativo.
Da dove cominciare per ri-abitare le città?
Si può pensare a organizzare delle bioregioni urbane, costituite da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di autosostenibilità, che mirano a ridurre il consumo di energia e i danni provocati da alcune attività i cui costi sono pagati dalla collettività. Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi oppure forse una città di villaggi. In breve una rete policentrica o multipolare. Si potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto scelte simili e avranno abbandonato il produttivismo. Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia rinnovabile. In un primo tempo la città decrescente potrebbe essere la città attuale dalla quale, tra le altre cose, sarebbero ridotte o eliminate la pubblicità, le auto e la grande distribuzione e dove sarebbero introdotti i giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione pubblica dei beni comuni e anche la coabitazione e le botteghe di quartiere. Sarà necessaria una riconversione ma anche una certa deindustrializzazione: sarebbe la prova che si può produrre altrimenti. Anche se la parte autoprodotta non è totale, è comunque importante. Nel suo bel libro «Manifesto per la felicita. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere», Stefano Bartolini parla di città «relazionale» nella quale i bambini dispongono di spazi pedonali di qualità vicino a casa e hanno la possibilità di spostarsi in modo autonomo. Gli elementi chiave di una città relazionale sono la limitazione dell’uso dell’auto privata per fare in modo che i cittadini usino i trasporti pubblici, la moltiplicazione di piazze, parchi, isole pedonali, marciapiedi spaziosi, centri sportivi, la diffusione delle aree pedonali nei dintorni del mare, dei laghi, dei fiumi con relative reti pedonali e ciclabili, tra loro collegate. Insomma, la città relazionale è una buona traccia sulla quale ragionare.
Quali sono gli attori di questo cambiamento profondo?
Alla domanda quali forze sociali sono attualmente portatrici di un’alternativa, Cornelius Castoriadis risponde che la trasformazione della società richiede la partecipazione di tutta la popolazione, e tutta la popolazione può essere resa sensibile a questa necessità «a parte forse un 3-5 per cento, di individui inconvertibili». La risposta degli obiettori di crescita è la stessa. Quando diciamo che la decrescita non è un’alternativa ma una matrice di alternative, esprimiamo un’idea simile a quella degli zapatisti, che indica la volontà di coniugare la diversità in un insieme coordinato. Del resto, nelle nostre postdemocrazie la politica elettorale ha ormai scarsa presa sulla realtà che è necessario cambiare, e bisogna essere prudenti nel farne uso. Nel migliore dei casi, i governi, se vogliono andare controcorrente, possono soltanto frenare, rallentare o alleggerire processi sui quali non hanno più controllo. Esiste una «cosmocrazia» mondiale che riunisce le oligarchie economiche e finanziarie e che, al di fuori di ogni decisione formale, svuota la politica della sua sostanza e impone la propria volontà. Tutti i governi, che lo vogliano o no, sono «funzionari» del capitale e strumenti della politica internazionale dei nuovi padroni del mondo. Il lavoro di autotrasformazione in profondità della società e dei cittadini ci sembra più importante e promettente delle scadenze elettorali. Il cambiamento a livello locale, nel Nord del mondo, attraverso banche del tempo, Gruppi di acquisto solidale, monete alternative, comuni virtuosi, città in transizione, può costituire una tappa nella lunga marcia per proporre soluzioni di decrescita. Si possono menzionare anche la rete delle città lente, Slow cities, le città in transizione, cioè le cosiddette Transition towns, le Città post carbone, le numerose esperienze di città virtuose spesso collegate con iniziative sociali come i Gruppi di acquisto solidale e la loro versione francese, le Amap. Il movimento delle Transition towns è forse la forma di costruzione dal basso che si avvicina di più a una società della decrescita. Queste città secondo la carta della rete ricercano l’autosufficienza energetica nella prospettiva della fine delle energie fossili; più in generale ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in prestito dalla fisica, passando attraverso l’ecologia scientifica, può essere definito come la capacità di un ecosistema di resistere ai cambiamenti del suo ambiente. Ad esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno affrontare la fine del petrolio, l’aumento della temperatura e alcune delle catastrofi prevedibili? La risposta dell’esperienza ecologica è che se la specializzazione consente di migliorare i risultati in un campo, rende più fragile la resilienza dell’insieme. La diversità, al contrario, rinforza la resistenza e le capacità di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la policoltura, l’agricoltura di prossimità, piccole unità artigianali, moltiplicare le sorgenti di energia rinnovabile, tutto questo rinforza di conseguenza la resilienza.
E nel Sud del mondo?
In alcuni paesi del Sud le cose si presentano sotto una luce migliore. Una voce diversa da quella della crescita e del consumismo comincia a farsi sentire. La versione latinoamericana della decrescita, dice Raúl Zibechi, può essere assimilata a quello che alcuni movimenti indigeni, in quechua, chiamano sumak kawsay, cioè il buen vivir. In Ecuador e Bolivia, grazie ai movimenti indigeni e sociali, la natura è stata riconosciuta come soggetto di diritto, con grande scorno delle compagnie minerarie straniere che hanno nel mirino lo sfruttamento delle ricchezze dei due paesi. E l’acqua è stata dichiarata bene comune, elemento vitale per la natura e per gli umani, dunque patrimonio inalienabile, accessibile a tutti e non privatizzabile. Non si tratta certo di convertirsi in adoratori della dea Natura, che si chiami anche Pachamama, e trasformarci in sacerdoti dell’abbondanza frugale: la poesia, l’estetica e l’utopia concreta sono sufficienti per la costruzione di un futuro ideale ma comunque possibile. Secondo il filosofo Daniel Payot, il pensiero, per il suo desiderio di utopia, è in grado di rapportarsi al mondo in modo tale che sotto il reale può scoprire nuovi contenuti concreti: la realtà insomma può essere percepita sotto luci diverse e comunicare un senso inedito, che dà luogo a nuove aperture.
GIORGIO dice
Trovo le idee di Serge Latouche stimolanti, ed affascinanti, come sempre le teorie vanno poi tradotte nel pratico, penso che il lavoro più grande da fare sia nella ricerca e nello sviluppo di nuove relazioni fra le persone, che nelle nostre società e nelle nostre città sono state svuotate ed asservite al lavoro, al consumo, ecc. Questo, mi sembra altrettanto fondamentale, quale direzione, possiamo seguire in questa ricerca?
gianluca dice
È la domanda che ci poniamo in tanti, Giorgio. Di certo non esiste una sola risposta e quelle che ci sono hanno limiti e contraddizioni, ciò non impedisce a movimenti, gruppi e singoli di cercare e sperimentare. Ed è altrettanto certo che non dobbiamo accettare il ricatto di molti «non avete alternative immediate dunque non hanno senso le vostre analisi e proposte…».
Alcuni percorsi proposti dallo stesso Latouche sono interessanti. Scrive in «Roma acqua e sapone» (Intra moenia, a cura di Annarita Sacco): «L’utopia della decrescita è un progetto articolabile sul circolo virtuoso delle cosiddette otto «R», otto parole d’ordine: rivalutare (prima di tutto la sobrietà), ridefinire (la scarsità e l’abbondanza, il pubblico e il privato, le idee e le pratiche educative), ristrutturare (il sistema produttivo, costruendo cose più utili e non nocive), ridistribuire (l’Occidente rappresenta il 20 per cento della popolazione mondiale ma consuma l’86 per cento delle risorse naturali, occorre dunque ridistribuire la terra, il lavoro, il reddito di cittadinanza…), rilocalizzare (la produzione e quindi i trasporti, ma per farlo occorre prima di tutto pensare globalmente e agire localmente), ridurre (la nostra «impronta ecologica», gli orari di lavoro, gli sprechi, i consumi di energia), riutilizzare (per risparmiare risorse naturali e creare posti di lavoro), riciclare (ciò che non è possibile riutilizzare). Se condividiamo l’intuizione di Cornelius Castoriadis, secondo il quale la «rivoluzione è volontà deliberata di trasformazione della società, è partecipazione», allora, il progetto di società della decrescita e delle otto «R» è realmente rivoluzionario».
Come suggeriscono gli zapatisti camminiamo domandando.