Se è vero, come dicono certe persone sagge, che la parte più vera di una città sono le storie di sofferenza e dolore che riesce a raccontare, gli androni e le sale d’attesa illuminati dalla luce fredda degli ospedali vanno certo sistemati sul podio della narrazione di eccellenza del nostro tempo. Anche in questo caso, come in molti altri, la pandemia non ha inventato ma portato all’estremo quel che era già. Quella miriade di storie, però, può acquisire una valenza e uno spessore culturale ben diversi se va a comporre un racconto sociale capace di pensare la salute non come condizione individuale ma come bene comune. È soprattutto lì, in quell’impervio salto in lungo, che si può incontrare un lavoro originale, colto e assai documentato come quello che propongono le “passeggiate nei luoghi della sanità a Roma” raccolte da Irene Ranaldi in “Memoria e futuro della salute in città”. Un libro piacevole e prezioso perché appassionante come la ricerca storica che lo segna e perché utile in quanto rivela una chiave di lettura della città sorprendente quanto efficace. Dal racconto delle scelte urbanistiche per la collocazione dei grandi ospedali alle disuguaglianze che inchiodano le responsabilità politiche di molti decenni, come sottolinea Marta Bonafoni nella brillante prefazione che potete leggere qui grazie alla cortesia dell’editore. È forse proprio l’invito di Marta: decostruire un’idea di società dove la fragilità è vissuta come colpa e vergogna, anziché come leva di solidarietà e cooperazione, che può aiutarci più d’ogni altra cosa a spalancare le finestre a un futuro possibile in cui le sale d’attesa e gli androni di ogni luogo della cura e della salute possano finalmente godere dell’aria e della luce di una città molto diversa
La scrittrice indiana Arundhaty Roy riflettendo intorno alla pandemia che ha investito pesantemente anche il suo Paese ha scritto: “Il virus è un gateway, una porta, tra un mondo e il prossimo. Possiamo oltrepassarla portandoci addosso le carcasse di prima, oppure possiamo camminare con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo”.
Tra le carcasse da non trasportare dall’altra parte della pandemia Roy cita anche “i cieli affumicati”, le metropoli inquinate che hanno permesso al virus prima di attecchire, quindi di propagarsi col suo carico di morte.
Non c’è dubbio che fra Covid19 e le città – anzi “la città” – vi sia un legame strettissimo, visibile sin dai primi giorni del lockdown.
Anche a Roma.
Ha ragione Irene Ranaldi quando in questo prezioso libro ci riporta con le lancette della memoria all’appuntamento delle 18.00 con la sala stampa della Protezione Civile: un luogo altrimenti anonimo diventato la piazza, impaurita e globale, dove ascoltare il bollettino dei malati, dei ricoverati, delle vittime. Il segno tangibile di un dramma collettivo, con intorno la città spettrale: il silenzio del giorno spezzato solo dal suono delle ambulanze, la notte – silenziosa quanto il giorno – animata solo dalle luci blu dei mezzi che venivano a prendere il nostro vicino, la signora del pianerottolo accanto, il nonno del migliore amico di nostro figlio. I suoni e i colori dell’emergenza diventati tutto d’un tratto la cornice della nostra quotidianità.
In quei giorni abbiamo imparato a conoscere da vicino e per immagini i nostri ospedali: gli hub Covid, gli spoke, le tute protettive, i respiratori. Le mascherine da accessorio utile a una manciata di professionisti sono diventate l’oggetto necessario per ciascuna e ciascuno di noi.
Covid19 è stato come un pettine a cui improvvisamente sono arrivati tutti i nodi: abbiamo scoperto uno straordinario “bisogno di cura” presente nella nostra società; improvvisamente sono saltate tutte le nostre certezze, come quelle dell’eccellente sanità lombarda rivelatasi poi la più fragile di tutte. Sotto la pandemia abbiamo guardato ad occhio nudo l’enorme mole di disuguaglianze che abita anche la nostra città.
Ce lo racconta bene il lavoro di MappaRoma, che fra i tanti indicatori che ha analizzato per raccontare la Capitale d’Italia con numeri e grafici ha giustamente inserito anche l’indice di sviluppo umano e quello di salute. È un viaggio che inchioda la politica a responsabilità enormi, quello che intraprende chi approccia quelle mappe: a Roma ci si ammala di più e si muore prima in VI municipio, quello delle Torri, piuttosto che in II, i Parioli. In città l’indice di benessere è più alto in centro per ridursi ai minimi termini nelle zone fuori dal GRA. Esistono in pratica due città, distinte e distanti tra loro anche per quanto riguarda la presenza in quei quartieri delle strutture sanitarie e sociosanitarie: ospedali, consultori, case della salute, ambulatori.
Se è vero come dice Renzo Piano che è “nei deserti che nascono i mostri”, a Roma questo possiamo dirlo riferendoci al deserto di servizi – e quindi anche di opportunità di salute – che contribuisce ad alimentare le disuguaglianze e a formare quel sentimento di rancore e di paura che sembra diventato ormai una delle cifre del nostro tempo.
Covid19 ci ha però raccontato un altro pezzo della storia, ci ha insegnato cosa sia l’interdipendenza tra esseri umani, e tra questi e i luoghi che abitano.
Esiste una relazione strettissima tra virus ed ambiente, ed esiste un diverso modo di “prendersi cura” – fatto di relazioni, welfare di comunità, mescolanza funzionale – che dovremo essere in grado di far impattare nel mondo nuovo.
Dice l’Agenzia Europea per l’Ambiente che “in un ambiente insalubre il virus ha maggiori possibilità di sviluppo”: la deforestazione, gli agenti inquinanti, gli allevamenti intensivi, sono stati tutti fattori moltiplicatori del contagio, che ha trovato nelle città il terreno più fertile dove propagarsi.
È necessario quindi immaginare spazi urbani rinnovati, dal punto di vista urbanistico e da quello funzionale, con un nuovo approccio anche ai servizi di prevenzione e cura. Approccio che si evince, in chiaro e in controluce, dalla lettura del libro di Irene, in questo senso non soltanto una guida per nuovi cammini tra i quartieri di Roma ma vero e proprio “libretto d’istruzioni” per una Roma migliore.
Innanzitutto dobbiamo immaginare una città in grado di promuovere una dimensione collettiva della salute, che sappia allo stesso tempo re-immaginare i luoghi della cura e uscir fuori da questi. Avvicinandosi così alla definizione che sin dal 1946 dà di “salute” l’Organizzazione Mondiale della sanità: non semplice assenza di malattia ma uno stato di benessere psicofisico che va dalla persona alla comunità. Esattamente quell’interdipendenza e quella responsabilità collettiva che ci lascia Covid19 come la più grande delle lezioni.
Serve insomma una città nuova, delle persone e per le persone.
Che sappia valorizzare i suoi vuoti oltrechè i suoi pieni, costruendo “spazi collettivi generatori di salute urbana” per dirla con Paolo Piacentini, in grado di rigenerare una città pubblica che sappia armonizzare i parchi, gli orti, le zone pedonali e le piste ciclabili con la promozione di servizi prossimi alle persone.
Lo racconta già in questo libro Irene, riandando indietro con le lancette della storia fino agli anni in cui nascono i primi grandi ospedali di Roma. Sorgevano lontano dai centri abitati, certo per evitare l’eventuale diffusione delle malattie, ma anche perché lì, nel cuore della campagna romana, vi erano due ingredienti necessari alla cura – la luce e l’aria – prime medicine per qualunque patologia.
“I can’t breath”, ha urlato George Floyd finché ha avuto voce prima di essere ucciso da un poliziotto americano in un sistema che ha sostituito al welfare la repressione. Anche i malati di Covid non riescono a respirare quando il virus attacca i loro polmoni. Anche le nostre città hanno sempre meno aria e una necessità sempre più forte di rigenerarsi.
Una soluzione a portata di mano è il rammendo possibile a Roma – Comune agricolo più grande d’Italia – tra città e campagna, la prima ricucitura necessaria, sempre secondo Piano, per riempire i vuoti urbani di bellezza, relazione, incontro.
Insisto su questo rapporto tra città, relazioni e comunità, perché mi sembra anche la traccia che accompagna il viaggio in cui ci porta il libro, nella storia e lungo le strade dove sorgono le strutture ospedaliere di Roma. Esiste un momento in cui la malattia da dannazione diventa evento sociale da affrontare collettivamente e la salute da bene individuale prende la forma di bene comune.
C’è mi sembra un possibile parallelismo tra le terre del Pio Istituto di Santo Spirito che fornivano il cibo per le mense degli ospedali di Roma e i prodotti della campagna romana da inserire nelle mense delle scuole e degli uffici della Capitale come azione-chiave nella promozione di un nuovo modello di sviluppo. C’è più di un suggerimento in quegli hospitali costruiti per accogliere gli stranieri, pellegrini in viaggio in cerca di ricovero, per far ri-sorgere finalmente una città all’altezza della sua tradizione millenaria. Ospitale, appunto.
Non più edifici relegati nella città nascosta e destinati a veder cancellata la loro antica vocazione, ma pezzi di città pubblica in grado di reinventarne centralità e funzioni.
Cos’è se non una straordinaria pagina di nuovo welfare l’occupazione abitativa all’interno dell’Ipab San Michele a Tor Marancia? Di cosa parlano le battaglie dei comitati in difesa del Forlanini e del Santa Maria della Pietà, se non di una tenace volontà di ridare memoria e senso a luoghi che hanno fatto la storia e il sentimento di interi quadranti di Roma? Da luoghi di malattia e morte a crocevia di vita e opportunità.
Per fare questo occorre uno sguardo nuovo sulla città, capace di riconoscere i nuovi bisogni di cura e contemporaneamente di immaginare un nuovo modello di welfare, distribuito fra centro e periferia, capace di far cooperare pubblico e privato sociale, di dare protagonismo attraverso la partecipazione a quelle reti di mutualismo sociale che hanno fatto la differenza sotto lockdown.
Non spazi di cura concentrati in grandi strutture ospedaliere, ma una sanità territoriale capace di integrare bisogni sociali e bisogni sanitari, dentro le Case della Salute, o dentro Centri Polifunzionali da inventare da capo, ispirandoci magari a esperienze vincenti come quelle delle Microaree di Trieste, veri e propri poli della salute e del benessere che sorgono all’interno dei locali dei condomini dell’edilizia residenziale pubblica.
Si tratta ad un tempo di costruire un nuovo welfare urbano e di decostruire un’idea di società dove la fragilità è vissuta come colpa e vergogna, anziché come leva di solidarietà e cooperazione. Per farlo servono città costruite con affetto (Renzo Piano), serve una metropoli che si doti di un piano regolatore dei tempi di lavoro e di vita ispirato a quello della grande Mariella Gramaglia. Non a caso una donna, capace di guardare Roma con gli occhi dei bisogni e dei desideri, non più soltanto con lo sguardo pre-concetto, narcisista e in odore di onnipotenza che un’urbanistica funzionale e maschile le ha imposto per secoli.
Dice Giorgia Serughetti nel suo “Democratizzare la cura, curare la democrazia” che le democrazie post-Covid devono essere in grado di rispondere al bisogno delle persone di respirare, di vivere, di condurre una vita buona. La cura restituita a una dimensione collettiva, in questo senso pienamente della polis, in fondo l’approccio suggerito ormai sempre più spesso da scienziati e urbanisti nel descrivere le città “One Health”. Lo stesso che riportava Girolamo Mercuriale nel 1569 nel suo “De Arte Gymnastica” sottolineando l’importanza del passeggio per la salute (e quindi dei luoghi dove camminare in città).
Di fatto un effetto neppure troppo collaterale della lettura del libro di Irene, che ci porta e ci porterà a camminare attraverso i luoghi della sanità di Roma raccontandoci di storia e di urbanistica, ma contemporaneamente dicendoci moltissimo anche di noi. Di quello che siamo.
Del nostro rapporto con la malattia e con la morte, del nostro stare al mondo e quindi anche del nostro vivere in città. Attraverso una delle lenti più diffuse che ci sono: quella del nostro rapporto con la salute, tema che tutti ci riguarda prima o poi nella vita. E – in quanto tema così popolare – una eccezionale leva di cambiamento.
Scriveva Aristotele che una città ben amministrata avvicina i suoi cittadini alla felicità. Chi conosce le passeggiate di Irene Ranaldi sa che qualcosa di molto simile, una sorta di ricongiungimento sentimentale con i luoghi, è ciò che si prova al termine dei suoi cammini. Questo libro ne è un assaggio necessario e prezioso.
Vi servirà da guida, non solo in città. Come una bussola per orientarci in un nuovo sistema di valori che il virus ha reso urgente realizzare, il mondo nuovo di cui parla Arundhaty Roy: fatto di ben-essere.
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La presentazione di Memoria e futuro della salute in città al Mercato Centrale di Roma 21 settembre 2021 con, tra gli altri, Irene Ranaldi e Marta Bonafoni (video)
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