La discussione accesa dalle femministe de-coloniali sullo sciopero internazionale delle donne dello scorso 8 marzo offre uno specchio utile per guardarsi dentro anche a chi si considera un maschio anti-patriarcale e, più in generale, ai movimenti anti-sistemici. Dalla riflessione critica e autocritica sulla radice eurocentrica all’approccio problematico delle strategie quando entrano in contatto con gli “altri” mondi, quelli neri, indios o meticci. Salta agli occhi il riferimento alle idee di Frantz Fanon sulla differenza tra il mondo dove si rispetta l’umanità delle persone e quello dove la vita umana non vale nulla e non è neanche possibile immaginarlo, uno sciopero. Dal Nessuna in meno al Nessuna che sia meno. Al centro la riflessione sulle forme di lotta, capaci di rivelare molto sulla natura delle basi sui cui poggia un movimento
di Raúl Zibechi
La vitalità di un movimento, come quella di qualsiasi essere vivo, si può toccare con mano nella sua capacità di cambiare, modificare la rotta, esercitare la critica e l’autocritica, una pratica così dimenticata dalle vecchie sinistre. Caratteristiche della senescenza sono la ripetizione, l’inerzia e l’incapacità di muoversi dal luogo scelto.
Questo 8 marzo ci ha mostrato enormi mobilitazioni, che sono la doppia conseguenza della violenza sistemica contro le donne e della persistenza dei movimenti femministi che non si restringono nel momento di andare contro corrente, pur essendo poche in ogni mobilitazione. Le più di 200 mila manifestanti a Montevideo, città che conta poco più di un milione di abitanti, parlano dell’estensione notevole del movimento che, per raggiungere questa cifra, negli ultimi anni ha realizzato decine di attività e piccole iniziative.
Uno dei fatti più rilevanti è stata la diffusione di un documento intitolato Alcune riflessioni sulle metodologie femministe, diffuso da un insieme di referenti e organizzazioni che rivendicano il “femminismo de-coloniale”. Non ho la minima intenzione di immischiarmi nei fatti interni al movimento, vorrei solo sottolineare ciò che noi maschi antipatriarcali e i movimenti antisistemici possiamo apprendere da un testo che, nel sottotitolo, annuncia: “a proposito dell’appello per uno sciopero internazionale di donne per l’8 marzo” (goo.gl/rpqvH8).
Il documento evidenzia che gli spazi delle donne stanno facendo un esercizio di autocritica nel riconoscere “la loro radice eurocentrica, i limiti delle loro agende e quanto c’è di problematico nelle loro strategie quando entrano in contatto con gli altri mondi che esistono nel nostro continente”. Insomma, i mondi neri, indios e meticci.
L’asse del testo gira intorno ai metodi di lotta, evidenziando che “essi dicono molto riguardo le basi sulle quali poggia un movimento sociale” e hanno la capacità di mettere in ordine i mondi. La critica/autocritica gira intorno all’appello a realizzare uno sciopero nel passato 8 marzo. Vale la pena citare per intero.
“Lo sciopero delle attività è stata una strategia che sorge dentro il contesto specifico della rivoluzione industriale e della lotta della classe operaia europea. Un metodo che ha ottenuto legittimità dentro il patto tra la classe operaia e la borghesia negli anni del welfare europeo. Lo “sciopero” come strategia fa parte di una genealogia di resistenza dentro il mondo dell’umano, quello costituito dal pieno sviluppo del sistema capitalista”.
Il testo ci rimanda a Frantz Fanon, nell’evidenziare la differenza tra il mondo dove si rispetta l’umanità delle persone e il mondo dei sottoscala, dove la vita umana non vale nulla. Allora, dice, il problema dello sciopero sorge quando si cerca di trasformarlo in un “metodo universale applicabile a qualsiasi esperienza storica”. È evidente che le donne (e gli uomini) di quel mondo non possono far sciopero, per questo bloccano le strade, occupano gli edifici e le terre.
Il documento chiama a “pensare alle compagne che non possono scioperare, a quelle che per necessità venderanno qualcosa nel corteo, a quelle che il giorno della convocazione dello sciopero staranno seminando, coltivando o cucinando il cibo che noi stesse mangeremo avendo scioperato”. L’elenco prosegue e include le forme di vita autogestite (il tianguis per esempio), le lavoratrici del sesso, “quelle che insieme ai propri compagni subalterni saranno responsabili del fatto che il mondo continui a girare e la vita continui a essere possibile mentre noi stesse scioperiamo”. Lo sciopero è una strategia utile, si domandano, per le “persone che subiscono discriminazioni razziali e subalterne”, per “le condannate del mondo”, per le lesbiche e le trans antirazziste?
Il testo è forte. Soprattutto quando mette il dito su temi delicati. “È interessante come determinati paesi dentro il sud globale, e dentro l’America Latina in particolare, si trasformino in referenti e avanguardie della lotta femminista”. “Che cosa significa il fatto che le nostre lotte politiche siano definite da un piccolo gruppo di femministe bianche e bianco-meticce privilegiate che vivono nelle capitali dei paesi egemonici della regione?”.
Senza dubbio, quel testo si riferisce ai “nostri” paesi, a Buenos Aires in primo luogo, dove è nato il Ni Una Menos, ma anche a Montevideo e ad altri paesi, dove predomina un femminismo radicale, ma bianco e composto di classi medie. È scomodo. Però è un disagio necessario, indispensabile per non trasformarci, un secolo dopo, in qualcosa di simile ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca che finì con il tradire il movimento operaio.
Devo confessare che il documento mi ha rimandato direttamente alla comunità che mi ha ricevuto nella scuoletta zapatista, agli spazi delle donne nere sfollate dalla guerra in Colombia, alle abitazioni dei Nasa e Misak del Cauca, alle comunità mapuche, alle favelas come la Maré, a Rio de Janeiro, e a tanti altri spazi-tempo dove non vige la logica con la quale sono stato educato e formato politicamente. È molto scomodo quando una donna nera di una favela o un’indigena ti riceve come fossi un conquistador, un oppressore bianco.
Credo, tuttavia, che questa esperienza vissuta sia parte della formazione antisistemica, e non per un qualche atteggiamento masochista, ma perché è necessario sentire “nel nostro corpo e nell’anima” (León Felipe), una pur minima parte dei dolori umani che si soffrono nel sottoscala. Qualcosa che non si può nemmeno sfiorare nelle comodità della “zona dell’umano”, per tornare a Fanon. È in questo punto, il documento delle femministe de-coloniali provoca quell’essenziale disagio.
Dalla parte dei movimenti e del pensiero critico possiamo fare uno sforzo per guardarci allo specchio che le femministe de-coloniali ci porgono, soprattutto in quello slogan finale “Che nessuna sia meno!”. Per il resto, confutare o meno il testo citato per quel che riguarda l’opportunità e, perfino, nel contenuto non spetta a noi. E’ parte del dibattito che le donne sviluppano nei loro collettivi, non tocca a noi maschi entrare in quella polemica.
Fonte: la Jornada
traduzione per Comune-info: marco calabria
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