Se guardiamo il movimento Nuit Debout in un orizzonte ampio possiamo abbandonare la dimensione economica come unità di misura del vivere umano e cogliere i segnali di cambiamento rispetto a ciò che consideriamo reale e possibile. Nonostante l’insicurezza resti l’umore esistenziale diffuso nell’Occidente (e nonostante lunedì 11 aprile Place de la République sia stata evacuata, le assemblee del movimento decideranno le nuove forme di protesta e di incontro), Parigi dimostra che è possibile far saltare confini che sembrano tracciati una volta per sempre e far emergere sulla scena del mondo passioni e legami nuovi. «Nel momento in cui il tempo sembra fermarsi per la perdita del suo orizzonte futuro, si fa strada, paradossalmente, quella forza insopprimibile nell’esperienza umana che è l’utopia, sospensione di luoghi e tempi “dati”, che apre la strada a tutto ciò che è ancora “possibile” – scrive Lea Melandri – È come se aver intravisto la fine della propria storia e della propria cultura potesse essere la condizione per riconoscere che altre e molteplici sono le alternative concesse alla specie umana. Questo spiega perché la ”società del rischio” muova, al medesimo tempo, paure e speranze, impotenza e dinamismo, nostalgie comunitarie e potenziamento dell’autonomia del singolo… »
di Lea Melandri*
Se la “minaccia di disastro”, di cui parlano Miguel Benasayag e Gérard Schmit, gli autori del libro L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli) interessa tutto il pianeta, l’insicurezza come umore esistenziale diffuso parla soprattutto dell’Occidente: un benessere insidiato dalla povertà, “valori” universali accerchiati da culture “diverse”, individualismo crescente, tecnologie incapaci di far fronte agli imprevisti della natura, “mali” che affiorano dietro la maschera della perfetta salute. La “modernità liquida” di Zygmunt Bauman, l’“uomo flessibile” di Richard Sennett (ma anche il San Precario dei Disobbedienti, “apparso” per la prima volta nel 2004 a Milano), sono le icone di una civiltà che sente vacillare le sue fondamenta, e che ancora non sa se lasciarsi avvolgere dalla “notte apocalittica” o disporsi verso una trasformazione “epocale” del proprio modo di vivere.
Nel momento in cui il tempo sembra fermarsi per la perdita del suo orizzonte futuro, si fa strada, paradossalmente, quella forza insopprimibile nell’esperienza umana che è l’utopia, sospensione di luoghi e tempi “dati”, che apre la strada a tutto ciò che è ancora “possibile”. È come se aver intravisto la fine della propria storia e della propria cultura potesse essere la condizione per riconoscere che altre e molteplici sono le alternative concesse alla specie umana. Questo spiega perché la”società del rischio” muova, al medesimo tempo, paure e speranze, impotenza e dinamismo, nostalgie comunitarie e potenziamento dell’autonomia del singolo.
Nonostante la frequenza quasi quotidiana di sondaggi e statistiche che misurano la febbre del nostro tempo, allineando secondo un ordine di maggiore o minore grandezza le paure ricorrenti, resta il dubbio che l’imbarbarimento di una civiltà esaurita possa essere la premessa per un suo ulteriore sviluppo.
Le fonti “esterne” delle ansie diffuse oggi nel tessuto sociale non mancano di descrizioni dettagliate, dalla globalizzazione economica alla ripresa dei flussi migratori, dal deterioramento del clima e dell’ambiente alla crisi di legami sociali consolidati, dalla guerra e dal terrorismo alle morti silenziose per fame, depressione e malattia. Più difficile è fermare l’attenzione su un “nemico” che è, per altri versi, famigliare, “interno”, anche se finora ignorato, alle nostre vite e alle nostre società.
Con le categorie interpretative che vanno sotto i nomi di “precarietà”, “mobilità”, “rischio”, “crisi”, “insicurezza”, vengono elencate prioritariamente le conseguenze di un modello di sviluppo – produzione e consumo -, ormai fine a se stesso, con un corteo crescente di guerre, migrazioni, nuove schiavitù e disastri ecologici.
Ma se la dimensione economica non fosse diventata l’unità di misura del vivere umano, e la “flessibilità” del lavoro l’unico indicatore delle ansie sociali, non sarebbe difficile accorgersi che, a incrinare un terreno che sembrava compatto, è il sottosuolo che si è sempre portato dentro a sua insaputa, quel luogo altro, diverso, destinato a tacere per sempre, che oggi irrompe sulla scena del mondo, creando figure, passioni, legami nuovi e imprevisti tra culture differenti, ma anche tra uomo e donna, individuo e collettività, salute e malattia, libertà e dipendenza, giovinezza e vecchiaia, vita e morte.
Saltano confini che sembravano tracciati una volta per sempre – privato/pubblico, barbarie/civiltà, reale/artificiale, ecc.-, false “naturalità, come quella che ha diviso violentemente il destino dei sessi, lasciando la donna a garantire la continuità della specie e l’uomo a “progredire” da solo nel mondo. Irrompe, nel teatro che è sempre stato della razionalità vigilante – del potere, delle sue istituzioni e dei suoi linguaggi -, il corpo, con la sua memoria arcaica, le sue leggi, le sue ferite, la sua manipolabilità, ma anche la sua resistenza alle mire onnipotenti del pensiero.
Del corpo parla oggi la consapevolezza che l’individuo, maschio e femmina, ha di se stesso, quando tenta di piegarlo a martellanti pratiche salutistiche, quando ne riconosce la fragilità e il termine, quando interroga ansioso le promesse della scienza e quando, al contrario, si dispone ad assecondare ritmi più “naturali”, quando si aggrappa a un modello di eterna giovinezza e quando chiede che sia data cittadinanza a parenti indesiderati, come i malati, gli anziani, le persone con disabilità. Con la corporeità hanno a che fare anche le ansie che si associano a un colore diverso della pelle, a un taglio diverso degli occhi, a un abbigliamento che segnali povertà o appartenenza a culture diverse.
Sono queste “interferenze” che assediano il quotidiano, da uno schermo televisivo al percorso che si fa a piedi o in autobus, a rinfocolare “identità” che nessuno si era mai accorto di avere e che ora si è tentati di impugnare come un’arma di difesa. L’insorgere di nuove “preoccupazioni” non è necessariamente solo ansia, impotenza, fatalismo, arroccamento nel proprio utile. L’arretramento che sembra oggi invertire il cammino di un progresso assicurato, potrebbe essere visto, come già scriveva Elvio Fachinelli nel suo libro Il bambino dalle uova d’oro (Feltrinelli 1974) come “un’astuzia storica di Eros” che, “proprio per salvare la civiltà ricorre a una nuova barbarie, che è premessa per il suo ulteriore sviluppo”.
Nella situazione attuale, questa irruzione di alterità non viene soltanto dai mondi che l’Occidente ha colonizzato, asservito ai suoi modelli, e a cui oggi è costretto ad aprire le porte, ma da un “ordine” politico, economico, sessuale e morale, che si va sfaldando per lasciare posto a nuovi equilibri, nuove forme di convivenza, nuovi saperi e linguaggi. Ma per inserire l’esigenza del diverso, per cambiare l’idea di ciò che è “reale” e “possibile”, è necessario non aver paura di analizzare la “profondità del male” e cogliere nel medesimo tempo i segnali di un cambiamento rispetto a ciò che abbiamo considerato finora “reale” e “possibile”.
È sotto questo profilo che potremmo leggere le manifestazioni “Nuit Debout” (La notte. In piedi) – “senza leader” – che si stanno diffondendo in questi giorni in Francia.
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