In Francia ci sono insegnanti che ogni giorno imbustano fotocopie per gli allievi privi di tecnologia e poi, rientrando a casa, lasciano le lettere nei negozi dove le famiglie dei ragazzi fanno la spesa. «Il nostro lavoro è “essenziale” oppure no? L’essenzialità – si chiede Daniele, insegnante di sostegno – si esaurisce nella didattica a distanza? Perché, ad esempio, i corrieri possono recapitare pacchi contenenti inutilità, e noi, a quanto pare, se volessimo lasciare materiale cartaceo davanti alla porta dei nostri alunni più bisognosi, non lo possiamo fare?»
Scrive ancora Daniele Ferro: “Se sei un insegnante che sta cercando di accorciare fisicamente le distanze con i propri alunni, in maniera simile ai professori francesi, ti invitiamo a darci la tua testimonianza scrivendo alcune righe a ”.

Nell’ufficio di una scuola media francese, i due insegnanti dirigenti fanno i postini: imbustano gli esercizi fotocopiati per gli allievi privi di tecnologia e poi, rientrando a casa, lasciano i pacchi nei negozi dove le famiglie dei ragazzi fanno la spesa.
Raccolta da Cesare Martinetti con l’articolo A Saint-Nazaire il professore fa il postino, per il sito di Mario Calabresi Altre Storie, l’iniziativa del preside Marc Jalinier e del suo vice Yann Duval testimonia in concreto le parole con le quali molti insegnanti, in questo periodo di forzato isolamento, cercano di sottolineare ancor di più la base primaria dell’apprendimento: la relazione tra l’adulto e l’educando.

Vergata sui manuali di pedagogia – «Il buon maestro pensa anche ai vincoli di affetto», scriveva Quintiliano già duemila anni fa nella sua Institutio Oratoria – questa nozione è tra le vittime delle settimane che stiamo vivendo. Lo suggerisce anche la nota ministeriale n.388 del 17 marzo, «Emergenza sanitaria da nuovo Coronavirus. Prime indicazioni operative per le attività didattiche a distanza», nella quale si sottolinea sin dall’inizio che compito dei docenti è «mantenere viva la comunità di classe, di scuola e il senso di appartenenza» per combattere «il rischio di isolamento e di demotivazione».
Oggi una delle domande alle quali ogni insegnante deve trovare risposta è quanto, e come, la relazione mediata dagli schermi possa sostituire la relazione di corpi ed emozioni vissuta in classe. E quanto, tale relazione, è ancora più importante per i bambini e ragazzi con svantaggio sociale, fisico o cognitivo. La stessa nota ministeriale – precisando che «nulla può sostituire appieno ciò che avviene, in presenza, in una classe» – invita alla cura delle «specifiche esigenze degli studenti con disabilità».
Un altro dato pedagogico che emerge dal lavoro e dalle righe degli insegnanti è che nell’attuale situazione si aggravano le condizioni di svantaggio degli alunni, le diseguaglianze di partenza già insufficientemente affrontate nella generalità del sistema scolastico “in presenza”.
Chi lavora a scuola sa bene quanto conti, soprattutto per i ragazzi in difficoltà, la relazione con l’insegnante, il quale nel migliore dei casi – come suggerito dalla pedagogia fenomenologica di Piero Bertolini – dovrebbe mostrare all’educando la visione di un mondo alternativo a quello del proprio vissuto: un mondo diverso possibile e raggiungibile, un panorama che si apre su orizzonti prima nascosti e che dona al ragazzo l’entusiasmo, la fiducia e il conseguente impegno per lanciarsi nel volo della vita. I docenti Jalinier e Duval, nella scuola di Saint-Nazaire, dimostrano semplicemente questo ai propri alunni: noi ci siamo, nessuno vi abbandona nelle difficoltà. Un gesto che potrà sostenere a lungo le vite dei loro ragazzi.
Quando ho letto la storia dei colleghi francesi, ho preso uno schiaffo di allegria e smarrimento. I due professori testimoniano l’amore che molti, molti insegnanti provano per il proprio mestiere, per i bambini e i ragazzi, per l’educazione e le sue potenzialità: come non rallegrarsi di una bella storia?
D’altra parte – tralasciando l’eventuale diversità tra le disposizioni francesi e italiane – la vicenda della scuola di Saint-Nazaire mi ha gettato nel vortice di domande che già da giorni mi fluttuavano per la testa: ma il nostro lavoro è “essenziale” oppure no? L’essenzialità si esaurisce nella didattica a distanza? Perché – ad esempio – i corrieri possono recapitare pacchi contenenti inutilità, e noi, a quanto pare, se volessimo lasciare materiale cartaceo davanti alla porta dei nostri alunni più bisognosi, non lo possiamo fare? Qual è la priorità delle essenzialità, nella nostra società?
È questo che più mi smarrisce: il sentore – il dubbio – che nella generalità del sistema scolastico, causa mancanza di mezzi, di organizzazione, ma soprattutto di impegno e creatività, si alzino le spalle nei confronti delle famiglie più in difficoltà. Mi inquieta pensare che in tante scuole non se ne discuta affatto, perché tanto non possiamo farci niente.
Mi chiedo se le organizzazioni sindacali si stiano ponendo il problema, al di là della distanza della didattica. Una lettera di Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda a dirigenti e docenti della Lombardia mi fa dubitare. «Vogliamo subito dichiarare – si legge – che la scuola non può e non deve abbandonare in questo tragico momento i propri studenti […] È un dovere professionale, etico e di buon senso», considerato inoltre che «è dato certo, confermato dalla stessa ministra, che uno studente su quattro non dispone di strumentazione informatica e di connessione Internet».
Dopodiché, il comunicato entra nel merito della lettera, denunciando comportamenti di dirigenti che «sono di ostacolo alla dimensione di scuola come comunità»: vi sono presidi che esigono la firma sul registro elettronico da parte dei docenti. «È una forzatura rispetto a quella responsabilità professionale più volte richiamata nelle note ministeriali», sostengono i sindacati. Non c’è dubbio. Mi chiedo, tuttavia: è tutto qui ciò che abbiamo da denunciare? Firmare o no il registro? C’è qualcuno che si interroga sulla possibilità di andare oltre alla didattica a distanza, nei singoli casi di necessità? Qualcuno, tra quelli che contano, ha qualcos’altro da proporre per i nostri ragazzi? Può la sola didattica a distanza essere davvero inclusiva?
Sarebbe da pazzi infilarsi i guanti e usare tutte le precauzioni, come fanno i due professori francesi, e organizzare con le segreterie e le fotocopiatrici – oltre a penne, matite e pastelli personali – consegne “ad alunnum” per le reali situazioni di bisogno, come possono essere quelle dei bambini con difficoltà di apprendimento (non di rado causato dalla condizione sociale oltreché cognitiva)?
Noi insegnanti di sostegno sappiamo bene che nelle mattine “no” dei nostri alunni, non importa l’apprendimento scolastico, ma il solo fatto di essere lì, insieme, a scuola: ciò vale per tutti i ragazzi in difficoltà, con o senza sostegno. E allora quanto, nel cuore dei nostri alunni – e quindi nel loro processo di apprendimento – potrebbero testimoniare alcuni esercizi, righe e colori personalizzati, in un pacchetto realizzato apposta tutto per loro e lasciato nella cassetta della posta, magari con un saluto da lontano, dalla finestra o dalla porta sul giardino: un sorriso, un cenno, un ciao. Noi ci siamo, c’è la tua famiglia e ci siamo anche noi, i tuoi insegnanti: nessuno ti abbandona nelle difficoltà.
Forse ci sono scuole in Italia che stanno agendo in modo simile a quella francese?
Va detto che vi sono altre pratiche per stabilire un vincolo affettivo e di apprendimento con gli alunni, come dimostrano diversi interventi di insegnanti su Comune. Questo isolamento da virus allunga così anche il divario tra le scuole, tra le comunità di docenti che da sempre intessono l’apprendimento intorno al nucleo della relazione, e le altre che invece esauriscono la nozione di apprendimento nell’istruzione e nell’adattamento normativo.
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Il divario, però, è sempre lo stesso: nelle opportunità di crescita offerte ai bambini e ai ragazzi.
Se – come afferma la nota ministeriale del 17 marzo – «la Scuola ha il compito di rispondere in maniera solida, solidale e coesa, dimostrando senso di responsabilità, di appartenenza e di disponibilità, ma soprattutto la capacità di riorganizzarsi di fronte a una situazione imprevista», dobbiamo dunque esaurire il nostro compito nella didattica a distanza? Oppure potremmo chiedere deroghe per l’essenzialità educativa edorganizzarci, come hanno fatto gli insegnanti francesi, per esprimere vicinanza fisica, per quanto più possibile, agli alunni che ne avrebbero bisogno?
*Educatore e giornalista, ha scoperto la bellezza dell’educazione da adolescente, nel gruppo scout Voghera 1. Ha studiato e lavorato in diversi paesi europei. Maestro elementare di sostegno, con l’associazione Insieme si occupa di un servizio volontario di “aiuto-compiti” per bambini e adolescenti. Ha un blog: danieleferro.it.
Io lo faccio, visto che fortunatamente abito in una piccola città e insegno in una scuola vicino a casa… Non vado io, ma preparo i materiali e poi li calo dalla finestra per chi vuole.
In questo periodo i docenti di sostegno potrebbero fare da collante umano con tutta la classe. Per gli esercizi, in riferimento alle disabilità, si sarebbero potuti usare logopedisti, psicomotricisti, psicologi, terapisti, ecc. (quelli delle Asl e delle strutture ospedaliere che sono già pagati e al momento non sono impegnati) per realizzare piccoli esercizi o tutotorial utili per affrontare questo periodo e far sentire meno soli e in difficoltà i genitori.
Se l’Italia avesse adottato soluzioni più flessibili si poteva e si può fare (un esempio di proposta organizzativa https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=868709170257554&id=100013554372163).
Anche in Italia! Anche i miei colleghi e io lo abbiamo fatto.
Quando sono andata a fare la spesa l’ho fatto. Volere è potere.
Io ho lasciato alla mia collega di sostegno che abita nello stesso paese della scuola dove lavoriamo (io no) una pila di miei libri di lettura per ragazzi. I genitori passano da lei a ritirarli quando escono per la spesa.