
L’individuo isolato all’interno di questa società ipercompetitiva ed irreale attraversa una crisi di riconoscimento. Dopo l’esperienza traumatica del covid è emersa forte la voglia di uscire e stare insieme. Quanto questa esigenza corrisponda a una presa di coscienza della necessità di un cambiamento, e quanto invece è il sintomo dell’egoismo è possibile verificarlo. A volte si ha l’impressione che la presenza dell’altro serva solo a placare la solitudine. L’insoddisfazione di chi si annoia e ha bisogno di persone fungibili. In diversi casi c’è invece il desiderio di riscoprire i rapporti sani con l’esistente. E attraverso il confronto mettere in discussione l’attuale assetto, provando a incidervi o a praticare scelte alternative. Quelle che vedono nella partecipazione collettiva e nella condivisione delle facoltà umane la via di uscita dalla barbarie del capitalismo. Pur rispettando le scelte calate dall’alto, il ruolo delle istituzioni, in tanti soffrono l’assenza di un sentire comune. L’uomo è un animale sociale e politico e pertanto ha bisogno degli altri. La distanza tra di essi viene in evidenza ogni qualvolta c’è qualcuno che sta sopra, che decide, e il resto che subisce.
Il rapporto tra rappresentanza e partecipazione è qualcosa che dovrebbe andare oltre i soggetti tradizionali della (inter)mediazione (partiti, associazioni classiche ecc.) .
Volgendo lo sguardo indietro, possiamo vedere come negli anni Sessanta del secolo scorso, dopo il boom economico, nonostante un Paese in pieno sviluppo, già fosse esploso il malcontento, soprattutto da parte del mondo giovanile, che rinnegava l’autorità dei padri e voleva emanciparsi al di là del lavoro (che all’epoca era perlomeno stabile e garantito). Una voce inascoltata che tendeva a far emergere tutte le contraddizioni di un modello di progresso fondato sulla crescita, ma che determinava alienazione, sfruttamento e danni ambientali. E poi vi erano le questioni personali, intime (“il personale è politico”) volenti richiamare l’attenzione verso l’autodeterminazione e la gestione dei corpi, cercando di fuoriuscire dalla visione familistica e da una subcultura intrisa di patriarcato (il divorzio, l’aborto).
Una serie di fattori – l’eversione e la repressione, il filoatlantismo, il pericolo di colpi di Stato – condussero le generazioni seguenti sulla via della spoliticizzazione di massa. Si diffonde quella società consumistica, unidimensionale, imperniata sul modello statunitense la cui espressione più evidente fu l’edonismo che caratterizzò gli anni Ottanta.
Decenni che tuttavia furono caratterizzati da un certo interessamento statale, che mettendo mano alla spesa pubblica tentò più che la via perequativa fra aree economicamente distanti (il Nord ed il Sud), quella compensativa per mezzo dell’affiliazione ai partiti di governo. Un coinvolgimento per pochi eletti, incapace di affrontare il gap infrastrutturale che al Meridione è figlio dell’unità d’Italia ma anche di una classe dirigente a cui sta a cuore solo avere “le mani sulla città”. Il finto protagonismo dei territori, soprattutto le aree interne abituate alle migrazioni, in cerca di riscatto, ma che anche per l’invasività delle tv commerciali vedeva ne “la Milano da bere” la via di fuga individuale dalla mancanza di possibilità.
La generazione degli anni Novanta riprese a reclamare spazio, illusa dalla caduta dei muri e dal fatto che una classe politico-imprenditoriale corrotta fosse stata spazzata via. Ed è proprio in questo decennio che si vanno diffondendo modi nuovi di partecipazione in tutto il mondo, dagli spazi occupati e riqualificati ai centri sociali, fino alle esperienze del bilancio partecipativo, che mettono al centro le esigenze delle comunità insediate sui territori, le loro istanze. Movimenti che sollecitano le istituzioni reclamando inclusività e un cambiamento. Il potere si sa è autoreferenziale, e dietro la retorica dei rappresentanti che si riempiono la bocca parlando di giovani o in senso astratto di Europa, non vi è nessuna voglia di farsi scalzare da quanti sono in cerca semplicemente di opportunità e non mirano al potere.
Così se guardiamo agli ultimi decenni possiamo notare come un peggioramento diffuso della qualità della vita abbia accentrato ancor di più quel potere. Le aree interne e i piccoli paesi risentono di una classe dirigente inadeguata. Quando qualcuno cerca di partecipare è perlopiù cooptato dall’alto. E poi c’è la questione classista, di appartenenza sociale, e per i redditi medio bassi diventa ancora più complicato. Così gli individui, anche in concomitanza di fattori esogeni – la virtualizzazione delle vite – resi passivi dalla mancanza di sbocchi si rifanno immedesimandosi negli stilemi altrui, quelli del mondo globalizzato dal consumo fine a se stesso, che nulla ha a che fare con la comunità territoriale, le cui tradizioni, culture, saperi, sono diventati brand. L’individuo appartiene alla comunità; le comunità con le loro peculiarità e differenze contribuiscono a saldare la società. Tuttavia, analizzando le statistiche degli ultimi decenni siamo a un punto di non ritorno. L’indice demografico italiano è in calo da oltre quindici anni: siamo scesi a 59 milioni; la popolazione invecchia; il tasso di natalità è basso (anche per la mancanza di sicurezza e servizi sociali). Il Sud ha perso oltre un milione di abitanti. Le proiezioni sono ancora più drammatiche. Chi si forma nella Bassa Italia poi va a lavorare al Nord, o meglio all’estero dove trova condizioni lavorative e salariali decisamente migliori. E a chi resta cosa rimane? Il lavoro? Quali garanzie è in grado di dare la classe che governa, che non siano le solite figlie della raccomandazione e del precariato? E di fronte a tutte le vertenze in atto, relative alle chiusure di stabilimenti e aziende, la politica nazionale e quella locale, cosa sono capaci di fare? Un quadro desolante aggravato dal progetto di autonomia differenziata, che insieme all’ulteriore taglio del welfare (sanità, stipendi e pensioni, mancati rinnovi contrattuali), in perfetta continuità con le politiche austeritarie dei precedenti governi, mira ad aumentare ancor di più le differenze. Soprattutto la popolazione anziana va incontro alla mancanza di medici e servizi. Loro che ancora percepiscono una pensione decente, malgrado la perdita del potere d’acquisto, a differenza di quelli che oggi hanno sopra i quarant’anni e che, tranne poche eccezioni, potranno scordarsela.
Però, si dirà, la partecipazione implica anche altre azioni. Sicuro, ma quando una comunità consapevole si mobilita ad esempio per evitare il deposito di scorie, le trivellazioni, o l’installazione di una mega opera, come reagisce il potere? Ascolta oppure – magari avvalendosi anche dell’attuale Decreto Sicurezza, che mira a colpire proprio la partecipazione delle fasce giovanili, quelle sensibili ai cambiamenti climatici o alle guerre – reprime?
Quindi per incidere sullo stato attuale c’è bisogno dell’impegno di tutti. La politica ufficiale deve iniziare a regolare meglio la situazione, rinunciando ai privilegi e ai favoritismi, aprendosi alla società civile, e assicurando una speranza, innanzitutto avendo cura dei territori, il cui ipersfruttamento produce solo cementificazione e danni all’agricoltura, all’ambiente e alla qualità della vita. Le persone, a loro volta, accantonando gli egoismi e l’idea proprietaria, debbono informarsi di più sulle vicende locali e globali, riunirsi, discutere, farsi sentire. Fin quando rinunceranno a mobilitarsi, preferendo la delega in bianco, non faranno altro che confermare questo potere, e la mancanza della volontà per il miglioramento della vita associata. “La società non esiste” dicevano gli ultraliberisti, ma ad oggi nemmeno la comunità si percepisce.
Bellissimo articolo.
Proprio dettagliato