Sono stati istituiti nel 1998 da un governo di centro-sinistra con il nome di CPT, poi denominati CIE e infine rinominati CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri) e hanno molto in comune con i cosiddetti hotspot per migranti sui quali oggi si costruiscono le campagne elettorali. Restano prigioni nelle quale vengono recluse persone che non hanno commesso alcun reato ma non hanno i documenti in regola. Quattro nuclei familiari sospesi in un limbo che attendono di sapere se i loro cari torneranno a casa o saranno allontanati per sempre dall’Italia sono i protagonisti di uno dei migliori documentari sui CPR, Limbo, prodotto da Zalab in collaborazione con Rai3 qualche anno fa, e realizzato da Matteo Calore e Gustav Hofer. Il limbo dell’inferno non è lontano, abita nelle nostre città, solo che abbiamo imparato ad abituarci alla sua presenza
Il limbo è uno spazio non definito, sospeso; è il primo cerchio dell’Inferno di Dante, dove restano le anime dei morti non battezzati, che non possono gioire di Dio perché non hanno fede, condannati in eterno a sostare tra il bene ed il male, non definiti e senza peccati, anime non possono aspirare al paradiso.
Limbo è il titolo del documentario prodotto da Zalab qualche anno fa, realizzato da Matteo Calore e Gustav Hofer e nato da un’idea di Andrea Segre: Segre stesso, anni prima, aveva iniziato un’ampia produzione filmica sulle migrazioni, a partire dalla minoranza espressa dalle comunità rom, che proponeva un ragionamento diverso rispetto all’odio che le persone migranti sembrano creare in noi stanziali. In realtà non sono le migrazioni a creare odio, ma l’uso politico fatto da persone che vogliono approfittare della poca memoria dei popoli europei (migrati in tutto il pianeta nel corso di secoli e secoli), nascondendo problemi più gravi come l’uso dei fondi pubblici, il taglio dei servizi alla popolazione, la diminuzione dei finanziamenti a cultura, sanità, servizi sociali, fatto più o meno in tutta l’Unione Europea. Attualmente, l’uso dei corpi migranti nasconde anche l’impegno della classe dirigente europea nel fare una guerra da tutti dichiarata mondiale e superdistruttiva, che solo loro vogliono.
Calore e Hofer propongono questo lavoro, fatto in collaborazione con Rai3, mostrando la faccia più truce dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), oggi rinominati CPR, Centri di Permanenza per il Rimpatrio, richiesti fin dal famigerato Accordo di Schengen del 1995, istituzionalizzati poi dalla Legge sull’Immigrazione nostrana Turco-Napolitano nel 1998, con le modifiche volute da ogni maggioranza parlamentare successiva.
Ma le leggi esprimono, in modo asettico, i destini che uomini e donne provenienti da luoghi lontani alla ricerca di un futuro migliore che il ricco Nord, la Fortezza Europa, trasforma in una prigione senza colpa. Limbo ci restituisce queste storie, attraverso il racconto di Alejandro (El Salvador), Peter (Nigeria), Karim (Egitto) e Bouchaib (Marocco), delle loro compagne e dei loro familiari. Basta un controllo dei documenti, anche casuale, per finire al CPR, dato che c’è il reato della clandestinità e potrebbe essere non tollerato. Il limbo spalanca le sue porte, nasconde tutti dietro le sue sbarre alte fino ad otto metri, fitte fitte per non lasciar vedere da fuori cosa c’è dentro il Centro, e da dentro chi c’è fuori la prigione.
La moglie di Peter, Cinthya, anche lei nigeriana, definisce i CPR Campo di deportazione, mentre lui chiama il posto in cui è costretto a stare ghetto. E il limbo dantesco si realizza esattamente come inferno: può capitare di dormire su brandine di metallo, senza il materasso di gommapiuma che poi forse arriva, insieme alle lenzuola di plastica e poche altre suppellettili; non ci sono specchi perché gli atti di autolesionismo ed i suicidi sono molto alti, e neanche coltelli, forbici, qualsiasi strumento atto ad offendersi. Il cibo è cattivo, sempre in contenitori di plastica, ma è l’unica cosa che scandisce il tempo infinito di questa permanenza forzata. Chi è trattenuto nel CPR può esservi costretto fino a diciotto mesi, come recita la legge europea, ed è un anno, un anno e mezzo della vita di una persona passata senza fare nulla, perché lì non è prevista nessuna attività, al massimo un pallone da tirare con gli altri per far passare il tempo.
Il racconto spiega bene che puoi stare tutta la vita in Italia e rischiare il rimpatrio ugualmente: Karim non conosce l’Egitto, vive da più di dieci anni vicino Milano, ha pure passato anni in una comunità per minori perché qualche reato l’ha commesso; giustamente pone la domanda rispetto alle scelte di un paese, l’Italia, che investe sulla sua vita non regolare e poi lo vuole rispedire in un posto dove non ha nessuno. Il giovane parla con l’accento lombardo, mentre Bouchaib ha la calata toscana: la sua compagna Susanna è incinta, vivono con la mamma di lei che ha imparato a volere bene anche a lui, quando l’uomo è stato fermato stava aiutando la coppia, perché vivevano ai limiti della sopravvivenza ed è contenta che sua figlia si sia sistemata con Bouchaib. C’è Federica e la sua bambina, che Karim ha cresciuto benché sia nata da un altro uomo. C’è la signora Romero, preoccupata per suo figlio, come tutta la loro famiglia presente in Italia. Storie normali, che un provvedimento amministrativo trasforma in incubi lunghi mesi: la famiglia più debole è quella di Peter, sua moglie non sa come fare per il bambino, dovrebbe rinunciare a lavorare per sostituire il marito nelle incombenze quotidiane come andare a prendere il figlio a scuola, e naturalmente non può fare questa scelta.
Agli errori di giustizia si somma la lentezza burocratica, per cui aspetti non per scelta di fare la richiesta di asilo politico, ma se ti ferma la polizia finisci nel ghetto. Poi ci sono le pressioni psicologiche, le minacce continue di un rimpatrio violento che quasi sempre non si realizza, per cui nei CPR spesso è rivolta, altrimenti sono psicofarmaci messi nei pasti, così sei più tranquillo se ti devono caricare su un aereo a forza. Emerge che gli aerei di Poste Italiane trasportano la posta e anche queste persone, come se fossero anche loro dei pacchi: i CPR sono pochi sul territorio nazionale, per cui capita che ti fermano in Toscana e ti ritrovi a Trapani, se la tua famiglia vuole incontrarti deve fare viaggi improponibili, ai confini della civiltà, su strade deserte dove corrono le macchine oltre il nulla della prigione. I CPR sono prigioni, ma chi ci sta dentro non è condannato per un reato, subisce la pena perché esiste, cerca qualcosa che si infrange in un posto di blocco, in un momento sbagliato, un attimo dopo saresti passato indenne e la tua vita avrebbe continuato normalmente, sempre in un cono d’ombra ma libero. In questi centri ci sono anche donne, come i quattro uomini sono provenienti da ogni lato del mondo, anche loro senza peccato ma anche senza documenti.
I dati ufficiali dicono che i rimpatri sono la favola non vera che questa nostra Europa vuole sentirsi contare, in realtà il fenomeno in Italia è scarsamente applicato: ma al CPR la minaccia è sempre valida, e le persone si ammalano, impazziscono, soffrono, qualcuno si uccide, altri si uniscono e bruciano i materassi di gommapiuma per attirare l’attenzione pubblica sulla loro non condizione di vita.
Alla fine del racconto, Peter, Karim, Bouchaib e Alejandro sono scarcerati, tornano alle loro vite normali dopo aver atteso treni che li portano indietro, attraversano l’Italia per ricongiungersi nuovamente con i figli, le mogli, le madri e i padri. Hanno un bagaglio con poche cose, sperano ancora in un mondo migliore che non li respinga ogni volta che escono dall’ombra in cui vivono. Non hanno altre vite al di fuori dell’Europa: devono rimanere attaccati a questa ed è difficile, con documenti che non arrivano mai, con speranze che non si spengono ma che sono complesse da praticare.
I Centri pure rimangono: diventano più brutti, sono più crudeli, trattengono nuove persone. Il nemico pubblico sono loro, così ci dicono, ma le loro storie non fanno paura, solo pena e tenerezza; dopo aver visto questo film sappiamo che il Limbo dell’inferno non è lontano, abita nelle nostre città, solo che non vogliamo vedere, non vogliamo sapere.
Grazie a Matteo Calore e Gustav Hofer non possiamo più non conoscere ciò che avviene: quello che ci hanno raccontato continua ad esistere, continua a far soffrire, senza una ragione logica se non la nostra paura.
Limbo è disponibile gratuitamente su ZaLab View ed è uno dei film – tra quelli dedicati ai temi delle migrazioni e dell’educazione – selezionati da Comune in collaborazione con ZaLab, perché raccontare è un’azione in grado di creare speranza e nuovi mondi.
Angela Bergonzi dice
“Limbo” dovrebbe essere proiettato nelle scuole primarie e secondarie.Organizzare incontri nelle varie associazioni ad.
esempio, la casa della pace. o la casa delle donne nelle varie città