di Maria G. Di Rienzo*
Premesso che Elisabetta Sterni ha fatto benissimo a denunciare chi ha probabilmente diffuso il video – tramite Whatsapp – che la riprende durante un rapporto intimo con costui (lui nega) ed è stato caricato anche su un sito pornografico; premesso che ha perfettamente ragione quando sostiene che “Gli uomini criticano e offendono ma sono i primi che vanno alla ricerca di determinate cose. E, se non le trovano dalle loro fidanzate, arrivano anche a tradirle.” (potrebbe in effetti essere il caso del 29enne del video, che di fidanzata ne aveva una da due anni); premesso che credo al suo diritto di vivere come le pare e piace e sono d’accordo con lei quando dice “Nel video non faccio del male a nessuno e non sto facendo qualcosa di fuorilegge.”…
… possiamo parlare un momento della sua professione attuale (“ragazza immagine in discoteca”) e di quella che vorrebbe avere in un prossimo futuro (“sto per aprire un’agenzia di hostess con una mia amica”) in rapporto a quanto lei stessa afferma, e cioè che la vicenda le sta “rovinando la reputazione” e “danneggiando l’immagine”?
Qual è l’immagine che Elisabetta deve incarnare mentre lavora in discoteca a Padova e qual è l’immagine che richiederà alle aspiranti hostess della sua agenzia? Ho visto le ragazze-immagini in svariate occasioni dal vivo (fiere, festival, persino enti pubblici) e in film e sceneggiati televisivi; inoltre, per assicurarmi che il trend sia sempre quello – lo è – ho dato stamattina un’occhiata ai “book” di tre o quattro agenzie.
Il massimo dell’abbigliamento concesso ai loro corpi nelle suddette presentazioni è uno straccio scollato sino all’ombelico con spacchi abissali, altrimenti le hostess sono in bikini o in mutande con i seni semicoperti da sciarpine di velo, frangette, lustrini e mani guantate di nero (omaggio alle cinquanta sfumature di sadismo). Le loro pose sono per la maggior parte inequivocabilmente quelle contorte – e per me ridicole – della pornografia; le loro bocche, sempre per la maggior parte, semiaperte o con le labbra spinte all’infuori e atteggiate “a bacio” e le espressioni del viso che rivolgono all’obiettivo della macchina fotografica si sforzano di suggerire “sono prossima all’orgasmo”, anche qui con la stessa identica modalità delle immagini pornografiche. (Sono sicura di non aver mai fatto quella faccia durante la mia soddisfacente pratica di quarant’anni di sesso e sono persino sicura di non essere un’eccezione).
Sono anche del tutto consapevole che nessuno ha puntato una pistola alla testa a queste giovani donne e che fare le ragazze-immagini è una loro scelta: a scegliere cosa devono rappresentare, quale messaggio devono veicolare e qual è il loro ruolo è però invece uno sguardo maschile eterosessuale, sessista e patriarcale. Uno dei quotidiani che riporta la notizia sulla denuncia di Elisabetta descrive quest’ultima così: “Fisico da Jessica Rabbit”.
Jessica Rabbit è un cartone animato. Un disegno. Una figurina bidimensionale che dovrebbe rappresentare il massimo del godimento per l’occhio di un uomo. La mia solidarietà femminile e femminista non sente il bisogno di spingersi verso Jessica Rabbit, che non esiste in realtà e che incarna il modello prescrittivo a cui una donna deve conformarsi per non essere umiliata, insultata, abusata, per avere visibilità e spazio ma solo nella vetrina in cui è esposta affinché qualcuno la scelga – e che scelta è quella di dipendere dalla scelta di un altro?, perché le sia confermato che ha diritto ad esistere in quanto svolge l’unica funzione ascritta a detta esistenza, e cioè il servire gli uomini, il compiacere gli uomini, l’essere il trastullo degli uomini.
Quando menziona la vicenda della giovane donna di Napoli che, nella sua stessa situazione a causa di un video, si è tolta la vita, Elisabetta dice: “Mi ha colpito molto la triste storia di Tiziana. (…) (in particolare) I giudizi della gente che ti possono mettere il cappio al collo. L’hanno giudicata tutti, senza porsi domande, senza chiedersi come si poteva sentire. Io fortunatamente sono una persona forte e questa cosa non mi ha toccato. Se fossi stata debole, come quella ragazza ecc.”
Il verbo “giudicare” torna continuamente nelle risposte di Elisabetta alle domande degli intervistatori. Non vuole essere “giudicata”. Ma i suoi estimatori quale ragazza-immagine, chi l’ha assunta come tale e chi la dipinge come “Jessica Rabbit” questo devono fare: giudicarla, di continuo, perché sono i creatori del modello a cui deve rispondere, che è fatto per essere giudicato dagli uomini, i soli affidabili giudici in materia.
Non l’hanno creato perché amano le donne, non l’hanno creato perché le rispettano, non l’hanno creato perché le donne ne traessero guadagno e soddisfazione ma per proprio profitto: l’ideale della “bellezza” femminile (in realtà il grado di desiderabilità sessuale per i maschi) è allo stesso tempo sistema di controllo sulle donne e sistema per trarre da loro subordinazione e disponibilità acritica nonché una valanga di SOLDI – le industrie cosmetiche e dietetiche, quelle dell’intrattenimento, la moda. Sopravvivere come donne in questo scenario, che lo si accetti o meno, non è sicuramente facile: ma Tiziana non era una “debole” perché non ci è riuscita – tra l’altro anche questo è un giudizio, gentile Elisabetta, un giudizio che io considero insultante e approssimativo. Tuttavia, l’immagine della gnocca – fighissima – yum yum – piombabile la superficialità e l’offesa le ha incorporate: non si misurano i centimetri di questo e quello a un essere umano, una donna, di cui si rispettano la dignità e la volontà e l’unicità, non le si rimprovera di fare ciò che è esattamente richiesto dall’immagine stessa, un’immagine ossessivamente imposta da ogni media fruibile in ogni contesto, questo lo si fa appunto al cartone animato Jessica Rabbit, una cosa che gli uomini ritengono di aver comprato e di poter quindi utilizzare come preferiscono. La lodano e la lordano in sincronia, e ritengono questo loro privilegio e diritto acquisito. Non è viva, vegeta, pensante, dotata di arbitrio e preferenze e sogni e limiti: è immagine – illusione, apparenza, rappresentazione, concetto…
Il fatto che questo scenario sia pervasivo e dominante non lo rende né normale, né naturale, né inevitabile. Elisabetta pensa ad esempio che “tutte” mandino foto e video dal contenuto sessuale all’amato, vorrebbe “vedere chi non l’ha mai fatto” (possiamo vederci quando vuole e posso presentarle dozzine di altre donne)… ma, come scrisse Michel Foucault,
“Ci sono momenti nella vita nei quali diventa assolutamente necessario sapere se è possibile pensare in modo diverso da come si pensa, percepire in modo diverso da come si vede, (…) perché senza questa distanza non sarebbe più possibile vedere e riflettere oltre. Senza questa curiosità, la ricerca non è altro che una legittimazione di ciò che già si sa. (…) Soltanto così si può osare scoprire fino a che punto sarebbe stato possibile pensare e percepire in modo diverso”.
Potremmo essere un po’ più curiose sul nostro essere donne e sui ruoli che ci sbattono addosso? Ottenere la validazione maschile è davvero così importante? Ci rende “potenti” e “liberate” tramite l’oggettivazione sessuale?
La battuta più famosa di Jessica nel vecchio film (1988) “Chi ha incastrato Roger Rabbit” è: “Non sono cattiva, è che mi disegnano così.” Come cartone animato lei non può cambiare se stessa o il mondo intorno a lei, sono altri che disegnano. Io voglio tutte le mie matite.
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Gaia Calligaris dice
L’autrice premette che Elisabetta ha fatto bene a denunciare. Premette che crede al suo diritto di vivere come le pare. È d’accordo con lei quando dice che nel video non fa del male a nessuno né qualcosa di fuorilegge. Fin qua tutto bene, il problema, dal mio punto di vista, viene quando passa da queste premesse alla professione di Elisabetta. Cioè, qual è la relazione? Se fosse stata una sarta, una professoressa o un’astronauta questo passaggio avrebbe avuto senso, sarebbe stato fatto?
Non è importante che l’autrice stia o meno giustificando la violenza subita sulla base della professione di Elisabetta, ma questo tipo di discorso, questa più o meno velata, più o meno esplicita associazione tra il mestiere di una donna vittima di violenza e la violenza subita rischia di colpevolizzare la vittima invece dell’aggressore.
Questo avviene sempre più spesso, ma non è certo una novità. Quanto volte abbiamo sentito dire “se l’è cercata”, “si, l’hanno stuprata, ma con quella gonna cosi corta, una se lo deve aspettare”, ecc. ecc.?!
Al contrario bisogna essere solidali con le vittime e combattere la cultura dello stupro.
Aggiungo un secondo punto, entrando nel merito dell’articolo. Mi chiedo chi sia l’autrice (o chiunque altro) per giudicare Elisabetta quando lamenta un danno di immagine o quando sceglie che lavoro fare. Da una persona che si definisce femminista mi aspetto che difenda il diritto delle donne a scegliere chi vogliono essere, cosa vogliono fare e quale immagine di sé vogliono trasmettere. Elisabetta lavora in discoteca? Vuole aprire un’agenzia di hostess? E quindi, secondo l’autrice, veder violata la sua privacy su internet dovrebbe farle piacere? Francamente non vedo il legame. Al contrario, vedo da una parte una mancanza di rispetto verso una donna che ha subito una violenza e ha avuto la forza di denunciare e, dall’altra, uno svilimento del torto (reato!) subito e quindi della responsabilità di chi l’ha commesso.