Man mano che i rapporti scientifici ci aggiornano sull’andamento della deforestazione, della perdita di biodiversità e del riscaldamento globale emerge sempre più evidente l’inadeguatezza delle risposte politiche e istituzionali. La gravità delle sfide ambientali sono destinate a sottoporre quel che resta dei sistemi democratici a un radicale aut aut: rinnovarsi in profondità o estinguersi insieme alle altre specie nei più ampi rivolgimenti socio-ecologici che il riscaldamento globale e il degrado dell’ambiente portano con sé. Il libro di Marco Deriu Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro (edito da Castelvecchi e di cui pubblichiamo stralci di un capitolo), prova a interrogarsi sulla possibile rigenerazione ecologica della democrazia. “Quello che ci è richiesto oggi è la capacità di affrontare una radicale discontinuità, che richiede non solamente un’estensione della partecipazione e un maggior decentramento del potere, ma anche una capacità di apprendimento dei sistemi democratici e della cultura pubblica, in funzione di un salto di complessità e riflessività…”
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La crisi ecologica e il cambiamento climatico non sono problemi che stanno dinnanzi alle istituzioni democratiche ma qualcosa che le attraversa e le scompagina; come se il turbine del clima sollevasse il tetto delle nostre architetture politiche e ne svelasse tutta la fragilità e la necessità di fare i conti più a fondo sulle proprie fondamenta nell’ambiente attorno a sé. [p. 34]
Le istituzioni democratiche ci aiuteranno ad affrontare la grande crisi ecologica e climatica che stiamo attraversando e saranno in grado di guidarci attraverso le grandi trasformazioni sociali, economiche e valoriali che si vanno profilando? Oppure per costringerci ad affrontare i difficili cambiamenti richiesti, dovremo infine rinunciare non solo alle nostre abitudini e ai nostri consumi ma un poco anche alle nostre libertà? E in questo caso l’ideale di governo democratico sarà capace di rinnovarsi o è destinato a estinguersi insieme ad altre specie nei rivolgimenti socio-ecologici che il riscaldamento globale e il degrado dell’ambiente porteranno con sé?
Credo che per provare a cercare delle risposte non banali o semplificatrici dovremmo essere in grado di considerare che la portata della crisi ecologica che stiamo affrontando e la miseria della risposta politica a cui stiamo assistendo non richiede solamente di aggiustare i contenuti o le preferenze dei singoli attori politici, ma di rimettere in discussione e di ridefinire il senso e le regole della democrazia.
In questa prospettiva dobbiamo provare a interrogare assieme strutture, forme, valori, relazioni e contenuti della prassi democratica. Con questo voglio dire che non è sufficiente protestare contro l’elitismo e la delega implicita nelle tradizionali democrazie liberali o di mercato riproponendosi di allargare le possibilità di partecipazione, di ridare il potere ai cittadini o portare all’estremo le concezioni e le prassi già note e sperimentate di democrazia, come se stessimo affrontando solamente lo sforzo di un’estensione quantitativa e una rivitalizzazione volontaristica di forme e concezioni già date.
Occorre in verità qualcosa di ben più difficile e perturbante, ovvero interrogare fin nelle fondamenta l’idea stessa di democrazia, così come si è sviluppata nelle moderne democrazie liberali e rappresentative, illuminandone i suoi limiti, le sue omissioni, i suoi lati oscuri, portando alla luce quel rimosso che fa conto sull’esclusione di volta in volta delle diverse alterità, che si tratti delle donne, dei giovani o delle generazioni future, di popoli lontani, o delle altre specie viventi. [pp. 35-36]
Il punto di vista da cui muove la mia ricerca è dunque che se si vuole evitare di buttare la democrazia alle ortiche con la scusa che è troppo difficile e complicato mettere d’accordo tutti, se si vuole evitare di precipitare in uno “stato d’eccezione ecologico” col rischio di trovarci a consegnare il futuro in mano a presunti salvatori dell’umanità o del pianeta occorre avere il coraggio di indagare fino in fondo i limiti della democrazia così come l’abbiamo concepita fino ad ora, riconoscendo che quelle concezioni, quei modi di pensare tradizionali ci hanno consegnato a un vicolo cieco. Da questo punto di vista ha ragione Jedediah Purdy quando sottolinea che: «L’ambientalismo, preso nella sua luce migliore, ci ricorda che le nostre versioni dominanti di democrazia, ragione e progresso sono ancora superficiali, soprattutto perché si basano sull’ignorare o sullo sfruttare sconsideratamente la natura e che, affinché questi valori siano sostenibili, dobbiamo dare loro una relazione sostenibile con il più ampio mondo vivente»i. [p. 48]
Ora, se ci sono molti buoni argomenti per sostenere che in termini generali i regimi democratici possano essere più equipaggiati dei regimi autoritari nel riconoscere e affrontare questo tipo di sfide, occorre d’altra parte riconoscere in tutta onestà che i regimi e le democrazie contemporanee si sono finora dimostrati non all’altezza dei problemi concreti, si pensi alla riduzione delle emissioni climalteranti, per non parlare di cambiamenti più incisivi e questo per ragioni strutturali e tutt’altro che superficiali. La maggiore incapacità dei regimi autoritari non dovrebbe essere di per sé sufficiente a rassicurarci. Ci sono senz’altro degli elementi della crisi ecologica che dovrebbero preoccuparci e farci riflettere anche sul piano politico e democratico.
Un generico appello verso la democrazia – tanto più in un momento in cui i sistemi democratici sembrano sempre più sclerotizzati e platealmente vulnerabili alle forme peggiori di populismo e di sovranismo egoistico – non ha senso, se non come scommessa di rigenerazione e rinnovamento.
La questione, dunque non è se la democrazia realmente esistente sia meglio di un regime autoritario o di un fantomatico “governo dei custodi”, ma se possiamo pensare a un sistema democratico che funzioni e risponda in maniera diversa alle nuove sfide che stiamo attraversando.
In questo senso è fondamentale contrastare i solleciti e zelanti adepti dell’ecoautoritarismo ma al tempo stesso prendere coscienza e cercare di affrontare le problematiche che premono sui sistemi politici e che indeboliscono la democrazia a favore di approcci più centralistici e autoritariii. Il fascino verso l’elitismo o l’autoritarismo non si nutre tanto di argomenti razionali quanto del desiderio inconscio che qualcuno ci costringa a prendere le decisioni che sappiamo di dover prendere ma che non abbiamo la forza o la capacità di prendere da soli. In termini psicologici si tratta di un tentativo di proiettare all’esterno la propria dipendenza tossica da un sistema energivoro e consumistico e con essa il fastidioso senso di onnipotenza e di fragilità. Ciò non toglie che se ora le fascinazioni autoritarie sono ancora minoritarie, non è detto che tali rimangano se e quando ci troveremo ad affrontare gli sconvolgimenti più gravi della crisi ecologica, dagli eventi climatici estremi – come uragani, inondazioni, ondate di caldo – alla carenza di cibo o di acqua, dall’arretramento del livello costiero al diffondersi delle migrazioni forzate, con le inevitabili conseguenze anche in termini di proteste, tumulti, conflitti. In quelle condizioni la paura, il senso di insicurezza, l’incertezza o l’angoscia verso il futuro renderebbero più facile l’emergere di un nuovo tipo di populismo demagogico e autoritario. È chiaro, dunque, che la soluzione non può venire dal negare le fragilità, le minacce e i problemi ma al contrario dal riconoscerle e dal provare a immaginare preventivamente degli sviluppi differenti. [pp. 50-52]
Le stesse discipline politiche e sociologiche si sono preoccupate prevalentemente di quello che garantisce consenso e stabilità nei sistemi democratici, e le istituzioni e le prassi si sono registrate rispetto al funzionamento in condizioni relativamente stabili: stabili rispetto all’ambiente, stabili rispetto alle risorse fondamentali, stabili rispetto ai territori e ai confini, stabili rispetto alla popolazione. Per questo oggi non solo i politici ma molti scienziati sociali e politici faticano a prendere persino in considerazione l’idea che il tenore, lo stile di vita e le prerogative non possano essere più difesi e garantiti ai cittadini delle opulenti democrazie occidentali.
Quello che ci è richiesto oggi invece è la capacità di affrontare una radicale discontinuità, che richiede non solamente un’estensione della partecipazione e un maggior decentramento del potere, ma anche una capacità di apprendimento dei sistemi democratici e della cultura pubblica, in funzione di un salto di complessità e riflessività. Il cambiamento che abbiamo di fronte non avverrà tutto in un momento ma passerà attraverso diverse fasi e diversi cambiamenti.
È chiaro, dunque che le sfide di fronte alla crisi ecologica, all’Antropocene, al cambiamento climatico richiedono una democrazia flessibile e capace di apprendere e di rinnovarsi, anche velocemente. In questo senso il dibattito tra pessimisti e ottimisti rispetto alle possibili performance democratiche lascia un po’ il tempo che trova. Le forme e gli strumenti della democrazia non vanno pensati come realtà astoriche che possono solamente rafforzarsi o indebolirsi. La sfida riguarda la capacità dell’idea e della mentalità democratica di trasformarsi, evolvere, apprendere, apprendere ad apprendere. Secondo quest’ultimo punto di vista, il cambiamento richiesto ai regimi politici non potrà essere semplicemente di tipo quantitativo – “più democrazia” piuttosto che “meno democrazia”, “più partecipazione” piuttosto che “più delega” –, ma dovrà essere di tipo qualitativo o strutturale, ovvero come un regime democratico può recepire e “incorporare” nelle proprie dimensioni istituenti e nel proprio funzionamento un senso più acuto delle interdipendenze ecologiche inerenti alla sopravvivenza e alla rigenerazione di qualsiasi comunità politica. In altre parole, ritengo che la democrazia vada pensata non come un ostacolo, ma come un’opportunità, a patto di essere disposti a ridiscutere le nostre abituali concezioni sulla democrazia e di provare a illuminare gli angoli bui dell’attuale discussione sul cambiamento climatico e sulla sostenibilità.
Dunque, riformulando l’interrogativo iniziale, la domanda corretta non è se la democrazia sarà in grado oppure no di affrontare il cambiamento climatico e la più ampia crisi ecologica, ma piuttosto con quale idea e forma di democrazia ci prepariamo a raccogliere queste sfide. Affinché l’ideale e l’esperimento democratico possano ancora infondere speranza, è necessario affrontare e non negare la complessità della crisi ecologica ed evolvere insieme alla realtà che cambia. Sia sul piano delle idee, sia sul piano delle istituzioni e delle prassi sociali e politiche. Se, come ha scritto Pierre Rosanvallon, «la democrazia è una storia»iii, allora occorre riconoscere che la fedeltà alla democrazia non deriva dall’adorazione di una configurazione precisa, o di un regime dato, ma al contrario dalla sua capacità di trasformazione critica in ragione dei problemi e delle domande con cui si misura. In questo senso dovremmo pensare che l’unica possibilità per affrontare i cambiamenti radicali necessari per fronteggiare la crisi ecologica e il riscaldamento globale è legata in fondo alla nostra capacità di ripensare e rifondare l’idea e la prassi della democrazia.
L’invito, quindi è a non dare per scontato che ciò che conosciamo o che crediamo essere “democrazia” sia effettivamente l’unico modo di pensare la democrazia. È questa interrogazione di che cosa significa democrazia che deve farsi più radicale, nel momento in cui contempliamo onestamente quell’immagine deforme di noi stessi che lo specchio della crisi ecologica ci sta restituendo. In altre parole, non si tratta solamente di «democratizzare radicalmente la democrazia»iv, come si è detto negli ultimi decenni sulla scorta delle esperienze partecipative latinoamericane, ma si tratta soprattutto di interrogare più a fondo il senso della democrazia, ovvero di radicalizzare ecologicamente la democrazia. Da questo punto di vista occorre strappare la gente e le istituzioni alle proprie sicurezze e indagare le possibilità di rigenerare nelle sue stesse fondamenta la politica democratica così come abbiamo imparato a conoscerla e a pensarla dal Novecento a oggi. [pp. 54-56]
Note
i Jedediah Purdy, After Nature. A Politics for the Anthropocene, Harvard University Press, 2018, p. 288.
ii Cfr. James Radcliffe, Green Politics. Dictatorship or Democracy?, Palgrave, 2002.
iii Pierre Rosanvallon, Il Politico. Storia di un concetto, Rubbettino, 2005, p. 13.
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iv Tarso Genro, Ubiratan De Souza, Il Bilancio Partecipativo. L’esperienza di Porto Alegre, Rete Democratizzare Radicalmente la Democrazia & Edizioni La Ginestra, 2002, p. 27.
Estratto da Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro di Marco Deriu, Castelvecchi editore. © 2022 Lit Edizioni s.a.s. per gentile concessione.
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