Non possono esserci dubbi sul fatto che mai negli ultimi decenni l’estrattivismo, come progetto politico e attività economica, si sia manifestato in Amazzonia in forma tanto esplicita e violenta come negli anni della presidenza Bolsonaro. Va da sè che una sua eventuale conferma nel secondo turno elettorale, il 30 ottobre, sarebbe un disastro davvero epocale per la foresta pluviale più importante del pianeta, per i popoli indigeni che la abitano ma anche per il mondo intero. Difficile tacere, tuttavia, sul fatto che, al di là delle affermazioni di principio, anche negli anni della presidenza Lula e del Pt, le politiche predatorie – a una scala certo non comparabile – nei confronti dell’Amazzonia l’hanno fatta da padrone. In questa nuova campagna elettorale, Lula ha abbondato con le promesse di difesa del territorio. Non è facile concedergli altro credito, visto anche che la sua eventuale vittoria non sembra poter avere grandi margini di distanza dall’avversario, cosa che lo costringerebbe a cercare alleanze ben più che discutibili. Quel che in ogni caso sembra particolarmente preoccupante, per chi ha davvero a cuore la salvezza essenziale della selva e dei suoi popoli, è il vertiginoso aumento dei prezzi delle materie prime, un dato di fatto che certo spingerà le imprese estrattive per eccellenza – in questo articolo Laura Burocco cita i soliti colossi tecnologici ma anche la toscana Chimet – a spingere al massimo le loro attività con conseguenze facilmente immaginabili
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Secondo l’antropologo indigenista e documentarista franco-brasileiro Vincent Carelli, realizzatore della Trilogia do Martírio presentata in questi giorni al Doclisboa, “nella sua campagna Lula non può esporsi troppo sulla questione Amazzonia, ma la questione Amazzonia potrebbe divenire, se eletto, l’elemento che gli permetterà di tornare ad essere o cara – la personalità, come era stato definito da Obama al G20 del 2009 – a livello internazionale” facendo leva sul fatto che l’Amazzonia è quello che si potrebbe dire un ‘bene comune’ globale.
Se ci fosse il ritorno di questa centralità, la situazione disperata in cui si trova da quattro anni questo territorio, con tutte le forme di vita in esso incluse, potrebbe invertirsi con la possibilità di ricevere ingenti investimenti internazionali. Da una parte è quello che ci si augura, dall’altra è una prospettiva spaventosa. I grandi investimenti internazionali raramente sono mossi da uno spirito benefattore. In ogni caso è necessario che questo massacro venga fermato.
Da quattro anni in Brasile il presidente e il suo entourage di fedeli portano avanti un discorso pro-garimpo attraverso il rinforzo delle attività estrattive illegali, fuori controllo, contro ogni diritto umano e internazionale, favorito dalla legalizzazione della attività estrattiva e dai tagli sistematici dei fondi destinati alla ispezione ambientale.
Il tutto accompagnato da un violento smantellamento degli organi predisposti alla tutela delle regioni e popolazioni indigene. Secondo Luísa Molina, antropologa e consulente presso l’ISA (Instituto Socioambiental) “Dal 1988 non c’era più stato in Amazzonia un momento in cui l’estrazione mineraria, come progetto politico e attività economica, si sia manifestata in forma tanto violenta e esplicita come ora, dal 2019″.
Come dimostrato dai risultati del voto del 2 di Ottobre le elezioni di quest’anno mostrano un’alta presenza di candidati legati alle attività estrattive e che, in alcuni casi, difendono la legalizzazione dell’attività estrattiva come bandiera elettorale. Dei dieci municipi che hanno registrato il maggiore disboscamento tra il 2019 e il 2021, nove hanno aumentato il numero di voti per Bolsonaro, rispetto al 2018.
Al Nord, i voti per Bolsonaro sono aumentati di 3,7 milioni, nel primo turno del 2018, a 4,3 milioni al primo turno del 2022, in Roraima Bolsonaro ha avuto il 69,57% dei voti. Un altro dato rilevante è che dei 28.000 candidati a queste elezioni, 3.482 hanno dichiarato beni milionari. Secondo Arthur Fisch, ricercatore presso il Centro de Política e Economia do Setor Público della FGV-SP, “Anche in tempi di campagne sui social network, il denaro è un fattore importante. Ne è prova il fatto che il fondo elettorale è più che raddoppiato dal 2018”. I candidati che dispongono di un proprio patrimonio partono avvantaggiati perché non dipendono dal partito, o da entrate provenienti da altre fonti, si autofinanziano e, una volta eletti, presentano i propri disegni di legge.
Ne sono un esempio quelli presentati dal deputato Joaquim Passarinho (PL-PA) – eletto con 122.553 votos – autorizza le aziende ad acquistare oro direttamente dal settore minerario (PL6432/2019); o quello del deputato José Medeiros (PL-MT) – il 3° più votato nel Mato Grosso- che trasferisce al Presidente della Repubblica il potere di autorizzare l’attività estrattiva nelle terre indigene e nelle altre aree protette (PL571/2022). Non mancano candidati che si presentano come difensori degli interessi indigeni. È il caso di Rodrigo Mello (PL-RR) che ha dichiarato di agire in difesa della liberazione dell’attività mineraria: “La stragrande maggioranza degli indigeni vuole sviluppo, agricoltura, allevamento, vuole estrarre, vogliono attività minerarie nelle loro terre. Cercheremo questa regolarizzazione affinché gli indigeni possano svolgere la loro attività economica nelle loro terre”.
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Mello è il perfetto esempio del populismo sostenitore dell’attuale governo brasiliano.
Mentre impegnato ad inneggiare al patriottismo, presentandosi sempre vestito in verde e giallo, i colori del Brasile, è stato incriminato dalla Polizia Federale per aver usurpato beni dell’Unione: oro e cassiterite della terra indigena yanomami. E’ infatti ora il momento della cassiterite, la cui domanda cresce sempre più.
Il metallo è ovunque: nelle lattine per alimenti, nelle finiture delle automobili, nella fabbricazione del vetro, sugli schermi dei cellulari. Per questo il suo valore ha subito un forte innalzamento nel mercato internazionale contribuendo all’aggravarsi dell’invasione illegale nelle terre indigene yanomami. Certamente la questione amazzonica riguarda tutti. Non sono solo Apple e Microsoft, o i superserver Google e Amazon, che usano materie prime illegalmente estratte dalle terre indigene brasiliane, ci sono anche la HStern, o l’Italiana Chimet che però in homepage apre con una grande scritta: “Economia Circolare”. Solo per nominarne alcune.
Dopo il primo turno del 2 Ottobre in Brasile, è evidente che questo ecocidio trova ampio consenso tra gli elettori brasiliani. Molti dei governatori e membri del Congresso che hanno ricevuto il maggior numero di voti difende l’espansione agricola e la creazione di milizie armate nelle campagne. “Tutto in nome di Dio, ovviamente”.
E’ per questo l’elezione di Lula diviene vitale. Al di là delle promesse del candidato che ad Aprile ha dichiarato che – se eletto – avrebbe creato il Ministero dei Popoli Indigeni guidato da un indigeno e l’avvio del “Giorno della Revocazione” per abrogare le decisioni prese durante l’amministrazione del presidente Jair Bolsonaro, Lula insiste nel dichiarare la sua opposizione alle attività estrattive in terre indigene, al disboscamento in Amazzonia, alla produzione estensiva di soia, così come canna da zucchero o mais nel bioma del territorio nazionale della Amazzonia, Pantanal e Cerrado.
Arriva addirittura ad affermare che ‘mantenere in piedi un albero è in Brasile ora tanto, se non più, importante che allevare una vacca’. Alle orecchie dei fazenderos brasiliani, per cui la vacca è sacra quanto, se non più, che in India, non sono parole accettabili. E’ per questo che l’imponente presenza indigena tra i candidati è altrettanto vitale nel possibile futuro governo.
Ma, prima ancora del risultato finale del 30.10 è importante sottolineare l’importanza di alcuni attuali traguardi. 81 parlamentari “verdi”, che rappresentano poco più del 15% del totale dei seggi alla Camera dei Deputati sono stati eletti nella prima tornata. Degli 81 candidati del 2018, 65 sono stati riconfermati.
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Oltre al numero record di candidati indigeni, 182 di diversi partiti e correnti ideologiche, in particolare donne, Il prossimo anno inizieranno ad attuare nomi molto importanti per la storia di lotte e resistenze, come l’ex ministra dell’Ambiente Marina Silva (Rede). Inoltre nove candidati indigeni sono riusciti a farsi eleggere in diverse posizioni a Brasilia e quattro parteciperanno al nuovo schieramento verde della Camera federale. Márcio Santilli, uno dei fondatori dell’Instituto Socioambiental (ISA), ha fatto notare come il congresso sarà polarizzato – da una parte Marina Silva, responsabile della più grande riduzione della deforestazione nella storia dell’Amazzonia, durante il governo di Lula e dall’altra Ricardo Salles, responsabile dello smantellamento delle politiche ambientali fino ad allora esistite, durante il governo Bolsonaro. Questo sicuramente scalderà il dibattito interno su questa agenda.
In scala internazionale, se si arriverà ad un punto in cui la foresta, così degradata, perderà la sua capacità di rigenerarsi le opzioni globali per combattere il cambiamento climatico diventeranno ancora più inconsistenti.
Solo l’elezione di Lula farà si che l’Amazzonia diventi il tema principale in ambito internazionale per il Brasile, occupando ampio spazio nei dibattiti al Congresso e, quindi, nel dibattito pubblico locale, ma anche internazionale.
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