La rappresentanza politica e il solo “estremismo” che non ha vinto. Il treno che abbiamo perso dopo Genova. Il demos nazionale, l’Europa del filo spinato e il Trump che abbiamo in casa. La Le Pen non è il male minore. Gli altri non esistono solo in base ai tuoi errori. Con il retake gestisci un ospedale, non governi una città. I Cinque Stelle, l’ossessione della legalità senza l’ambizione della giustizia sociale. La sinistra riprenda ago e filo. Dobbiamo avere un orizzonte largo. Il salto di qualità nella rivolta della Magliana. I mostri che rinascono tra noi. Il tempo lungo del terremoto e il nuovo bar di Amatrice. Una conversazione a ruota molto libera con Massimiliano Smeriglio
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di Comune
Magari le risposte, o almeno parte di esse, stanno davvero nel vento, come ha suggerito a molte generazioni quel vecchio impertinente che il tempo per andare a Stoccolma, a ritirare il più accademico dei premi dalle mani del re di Svezia, non lo troverà. Che il vento dei grandi equilibri del pianeta si sia fatto tormenta non lo dicono solo i cambiamenti del clima. Nella primavera scorsa, tra gli altri, l’avevano segnalato, piuttosto inascoltate, delle vecchie conoscenze comuni a molti di noi, le sentinelle zapatiste. La spettacolare vittoria di Donald Trump l’ha imposto, ora, all’attenzione dei più distratti, quelli che l’abitudine al dominio, il cimitero azzurro dei migranti e la guerra mondiale contro i poveri le considerano più o meno naturali e non un portato della storia.
Eppure, è proprio il vento l’elemento atmosferico che cambia direzione nel modo più inaspettato e repentino alimentando la speranza, quella che fa vivere le resistenze e spinge a riprendere il cammino. “Cerchiamo ancora vento e strade da ricominciare. Perché c’è sempre un’alternativa a cui dare fiducia”, hanno scritto qualche settimana fa, nel convocare una Tre giorni romana per ricostruire a sinistra, quelli dell’associazione Alternative. Massimiliano Smeriglio, vice presidente della Regione Lazio, ne è uno dei primi animatori. L’occasione di fare ogni tanto con lui un’ampia e libera chiacchierata sull’intensità e la direzione dei venti che soffiano su Roma e sul mondo è una consuetudine amichevole che aiuta a tenere memoria di quel potrà servire e ad aprire lo sguardo sull’orizzonte dei giorni che viviamo e facciamo fatica a capire.
Vorremmo cominciare da una considerazione un po’ provocatoria sugli estremismi e il voto. Negli Usa vince Trump, la Francia potrebbe eleggere la Le Pen, Grillo ha vinto, seppur in modo relativo, in Italia, dove anche la Lega prevale sulle destre meno oltranziste. Sembrerebbe che il solo “estremismo” che non ha vinto sia il nostro. Un po’ di anni fa la sinistra “estrema” erano, secondo i grandi media e gran parte dell’opinione pubblica italiana, Bertinotti e Vendola, persone che pure a noi parevano molto ragionevoli, perfino moderate, nel senso che non chiedevano certo la luna. Perché è andata così?
Così come per quello che oggi si chiama populismo, anche il cosiddetto estremismo contiene molte cose diverse e perfino contraddittorie tra loro. Penso che nei primi anni del Duemila ci sia stata una proposta politica lungimirante, con una grande capacità di previsione, che peraltro non definirei estremista. Portiamo tutti grande responsabilità per non essere riusciti a darle uno sbocco. La partita in Italia noi l’abbiamo persa lì. Dopo Genova, poteva nascere una soggettività politica nuova, che rompeva con la tradizione novecentesca e coglieva i nodi essenziali nella fase ascendente della globalizzazione, mentre oggi dobbiamo gestire la crisi di quel modello. In quel momento, in Italia, insieme alle esperienze sudamericane, eravamo molto avanti rispetto a tutto il mondo. Lì si è perso un treno. Certo per incapacità della forza politica maggiore, Rifondazione Comunista, ma anche per la scarsa lucidità e la mancanza di assunzione di responsabilità delle forme politiche del movimento. Questo è un tema molto delicato. I nostri amici di Podemos l’hanno risolto andando avanti come treni. E se guardiamo più lontano, a Rosario, in Argentina, oggi c’è la straordinaria esperienza di Ciudad Futura che consiglio vivamente di seguire. Il leader si chiama Juan Monteverde e ha solo 31 anni. Là movimento sociale, auto-organizzazione e rappresentanza, stanno insieme. Raccolgono anche l’esperienza delle imprese recuperate di José Abelli e a maggio vinceranno le elezioni in una città con un milione di abitanti, ma sono fortemente de-ideologizzati, lo si vede con chiarezza nelle vertenze che fanno. Il tema della rappresentanza, peraltro con una legge elettorale ultramaggioritaria, peggio delle nostre, lo vivono con maggior libertà. A mio avviso, invece, noi è lì che ci siamo incagliati.
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Ma si può dire o no che la sinistra, almeno sul terreno del consenso, ha perso l’occasione di cui parlavi anche perché ha peccato di moderatismo?
A volte ha peccato di moderatismo. Era preoccupata di tenere il quadro delle compatibilità nel campo del centrosinistra, ma ha peccato anche di estremismo facendo finta di non vedere che il terreno della rappresentanza – seppur in caduta libera e nella necessaria re-distribuzione dei poteri e dei pesi – continuava a contare. Conta ancora nella capacità di raccontare un progetto complessivo alla tua comunità, cosa che, forse con meno schemi e dietrologie di noi, il Sudamerica vive molto più tranquillamente. Penso anche a quello che ci ha raccontato Pepe Mujica nello straordinario incontro che abbiamo fatto al Palladium. Certe cose stanno insieme, e diventano essenziali quando la politica o la rappresentanza contano meno. Tornando alla domanda, da un lato una parte di noi, e io tra quelli, ha tenuto troppo alle compatibilità politiche in senso stretto. Dall’altro, c’era un’assoluta tentazione di onnipotenza delle forme di movimento che hanno pensato di poter trasformare la società facendo finta che il tema della rappresentanza non esistesse. Invece esiste, possono farne a meno solo i potenti veri. Molti di noi non lo hanno capito e, in quei sei-sette anni dopo il Duemila, abbiamo perso davvero una grande occasione. C’erano esperienze e buone possibilità sulla municipalità, la cultura politica e la democrazia partecipata.
C’era anche uno sguardo lungo molto raro in altri movimenti…
Però ci siamo fatti bastare le cose di cui disponevamo. Nessuno di noi ha avuto una visione che servisse davvero per il futuro. Avrebbe potuto nascere, per esempio, una proposta di carattere continentale. Sono passati 15 anni, in Italia ora ti ritrovi ultimo e al tuo interno nascono, o rinascono, i mostri. Parlo dei mostri del nazionalismo, dello stalinismo, che torna come categoria politica. Non lo chiamano così, ma io lo sento, lo vivo. Torna la distinzione tra diritti sociali e diritti civili, torna l’industrialismo…A me sembra un incubo ma, dopo che siamo stati travolti, il dibattito a sinistra è come se tornasse indietro di cinquant’anni. Questa roba del demos nazionale, con cui anche tanti dei compagni di Costituente a Sinistra che frequento agiscono in maniera così disinvolta, a me fa impressione. Perché per me l’Europa, senza una dimensione di democratizzazione, senza un investimento di carattere continentale in termini politici, significa solo duemila anni di guerre. Se uno non parte da qui e pensa di risolvere il problema solo in termini di sovranità nazionale, vuol dire che noi Trump ce l’abbiamo in casa. Non c’è solo il Trump altrui. In tanti anni non avevo capito come fosse stato possibile che personaggi importanti del Biennio rosso italiano, Bombacci e altri, avessero potuto saltare il fosso e diventare fascisti. Ecco, forse il meccanismo che li muoveva comincio a comprenderlo adesso: tra la modernizzazione statuale nazionale fascista e il fastidio per il liberalismo in crisi loro hanno scelto quella strada lì. Oggi vedo un sacco di gente che dice: ma sì, forse, in fondo la Le Pen non è poi il male peggiore. Questa cosa mi sconvolge, perché non coglie un tratto storico decisivo come quello che stiamo attraversando. Tutti abbiamo guardato con grande attenzione, naturalmente, alla vicenda di Sanders, al suo crescere e al suo esito, ma non capire che negli Usa ci sono processi degenerativi di portata enorme mi sembra grave. Magari sul piano della politica estera, per assurdo, con Trump potrebbe perfino esserci un rallentamento di alcuni processi neocoloniali, ma dentro gli Stati Uniti ci sarà una guerra civile. Per capirlo, non c’è bisogno di ascoltare i Weather Underground, che abbiamo sentito di recente alla biblioteca Moby Dick.
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Tornando all’Europa, l’Unione continua a guardare solo al proprio interno, a pensarsi nel mondo solo in relazione a se stessa…
Beh, intanto io temo molto anche il voto in Austria. Poi, credo che la situazione sia determinata da errori drammatici dell’establishment e di quello che resta della socialdemocrazia a livello mondiale, soprattutto europeo e nordamericano. Però anche questa idea ultra-soggettivista che gli altri esistano solo in base ai tuoi errori è sbagliata. Gli altri esistono perché fanno una proposta forte di fronte alla crisi del liberismo globalizzato e finanziarizzato. Quando Trump dice di voler chiudere la dimensione nazionale, difendere gli operai maschi e bianchi e di buttare fuori tre milioni di ispanici ha una forza in sè. Il suo successo non dipende solo dagli errori degli altri, né dalla sola impresentabilità della Clinton. Quella proposta forte te la ritrovi tale e quale in Europa. Anche qui si avalla l’idea che dobbiamo chiudere i confini, moltiplicare il filo spinato, uscire dall’euro, riarmarci e alimentare una dimensione oggettivamente xenofoba. C’è molto spazio per una realtà tremenda, che peraltro è già presente in tutto l’est europeo, in Polonia come in Ungheria.
C’è chi cerca di fermare l’avanzata della Le Pen proponendo un lepenismo meno aggressivo, la vecchia pratica di inseguire l’avversario sul suo terreno ha sempre molti sostenitori.
Sì, basta pensare ai socialisti sloveni che dicono: noi facciamo la parte dei razzisti, così i voti li prendiamo noi e siamo noi a gestire la situazione. E’ fantastico, no? Il nostro compito è difficilissimo proprio perché ci attraversa un mostro reale, che si è alimentato con l’impoverimento e le altre cose che conosciamo bene. La cosa importante, però, è capire che il mostro è presente anche in casa nostra. In Italia, la crescita più repentina è stata per fortuna quella di un movimento che non è caratterizzato esplicitamente dal nazionalismo o dai venti più reazionari che soffiano in questo periodo. Il Movimento Cinque Stelle è ambiguo ma non ha nulla a che fare col Fronte Nazionale. Però non è affatto detto che quei venti non arrivino con violenza anche qui. Non dobbiamo sottovalutare, ad esempio, segnali pericolosi come il fatto che un’amministrazione come quella romana non decida di prendersi cura di cose banali come gestire le cento persone che transitano al Baobab. All’amministrazione comunale, cui compete quel problema, non costerebbe moltissimo risolvere la situazione con l’articolazione dei servizi che già esistono. Sono portato a credere che non lo faccia perché quello è un tema estremamente delicato per i Cinque Stelle, che sembrano voler tenere dentro anche una dimensione xenofoba ma senza dichiararlo.
Come vedi i primi mesi dei Cinque Stelle a Roma? Ereditano una situazione quasi impossibile da governare, che però sembrano voler continuare ad affrontare solo brandendo le parole chiave della campagna elettorale: legalità e trasparenza…
Sono molto preoccupato per questa comunità, per la città di Roma. C’è una parte del nostro mondo che può certamente essere contenta per il No alle Olimpiadi ma poi c’è la proposta della formula E, il gran premio delle auto elettriche più potenti del mondo. Non viene fuori un’idea di città ma un assemblaggio di cose mescolate un po’ così. Poi c’è questa ossessione della legalità ma io penso che la politica dovrebbe provare a spostare il baricentro della legalità, se no la legalità è la fotografia dell’esistente. In certi casi si arriva all’estremo, uno degli esempi più eclatanti è quello dei parchi pubblici di prossimità. Siccome uno non si sente in grado di garantire la manutenzione dei parchi, sostanzialmente li chiude. Tu vai al parco e ci trovi un bel foglietto dei vigili urbani che dice: questo parco è illegale. Fine della storia. E’ una metafora inquietante del modello che ispira chi ci sta amministrando. C’è un’idea della pulizia, del retake, dell’ordine che sembra del tutto asettica, così non governi una città ma un ospedale. Parlo anche dell’approccio culturale, quando l’assessore al turismo racconta di ambulanti poveri-cristi-neri che scappano come gazzelle, ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito, anche perché quell’assessore non è un nazista, è come se mostrasse una specie di candore che deve far riflettere molto. E’ una cosa che non avevamo mai visto prima. Poi c’è un problema che al momento sembra irrisolvibile: se tu misuri il consenso non con i cittadini di Roma ma solo dal forum interno, con un meccanismo che tecnicamente non può che essere settario, arriverai a un punto in cui l’esito delle consultazioni diventa sempre scontato. Comunque, Roma, per certi versi, sembra una città un po’ sfortunata forse anche rispetto ad altre in cui governano i Cinque Stelle. Io però vorrei valutare solo i cinque-sei mesi di governo, mi piacerebbe un confronto educato e sulle cose concrete. A Roma, uno snodo decisivo del rapporto tra nord e sud del Mediterraneo, non puoi affrontare l’immigrazione come fossi un centro studi, devi affondare le mani nella realtà drammatica dei problemi, non puoi limitarti a studiare i flussi. Nonostante la presenza di alcune persone stimabili nella giunta, la situazione rischia di essere devastante.
D’altra parte, lo è anche quella della sinistra politica romana, o vedi segnali importanti di inversione di tendenza?
Noi, la sinistra, siamo stati travolti. Qualcuno ha scambiato i Cinque Stelle per l’Armata Rossa, qualcuno fa il furbo, qualcuno fa generosamente testimonianza, qualcuno s’è infilato nel Pd. Però vieni da una sconfitta storica, ci vuole tempo per ripartire, qualcosa forse comincia a muoversi appena adesso. Anche perché poteva accadere che l’avvio dell’esperienza di monocolore dei Cinque Stelle, il primo dalla metà del secolo scorso, ci fulminasse sulla via di Damasco. Avrebbero potuto stupirci con proposte straordinarie e convincenti. Poi bisogna tenere un principio di realtà, le modalità con cui governeranno determineranno la crescita di fenomeni di opposizione intelligente e articolata o meno. Dobbiamo dirci con franchezza, però, che la nostra sconfitta non c’entra molto con i Cinque Stelle, c’entra con noi. Bisogna riprendere l’ago, il filo e cominciare a rimettere al centro delle esperienze. Non avrei molta ansia, perché non credo si apra una partita di breve periodo. I Cinque Stelle hanno vinto e giustamente devono governare, difficilmente salteranno per aria, salvo colpi di scena un po’ fantascientifici legati allo scenario nazionale.
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A proposito di voti e xenofobia, bisogna tener presente che una rappresentazione europea così cupa emerge dal profilo che tracciano le elezioni e oggi in Europa non vota molto più della metà dei cittadini…
Qui mi dispiace deludervi ma temo che se quel 50 per cento diventasse il 60, potremmo avere un quadro ancora peggiore. Tra chi non vota c’è di tutto, certo. Non sto dicendo che mi fa piacere che tanta gente non vada alle urne ma temo che, almeno per quel che riguarda i grandi numeri, parliamo di un blocco sociale ancora più regressivo. Non mi pare proprio che nella società viva oggi una proposta forte che potrebbe influenzare nella direzione che auspichiamo la dimensione politica.
Però sappiamo pure che spesso accade che uno sia razzista perché ha paura di quello che non conosce. Quando un migrante viene ad abitare al palazzo di fronte, e si comincia a vedere che non è come lo si dipingeva, magari le cose cambiano. E una parte di queste persone certamente non vota…
Beh, magari quello continua a essere razzista ma dice che il migrante che ha conosciuto lui è una brava persona, l’eccezione che conferma la regola. Nel discorso pubblico generale, le cose restano gravi. Il caso accaduto qualche settimana fa alla Magliana, per esempio, è gravissimo. Quell’episodio disegna un salto di qualità nelle nostre periferie con il quale bisogna fare i conti. C’erano 70 persone di Forza Nuova che intonavano la canzone dei Ragazzi di Buda, una rappresentazione esterna al quartiere più forte di ieri ma ancora nel filone delle cose conosciute. Poi c’era il solito presidio antifascista, che presume di essere interno a un quartiere popolare perché apre la sede due ore a settimana, nel pomeriggio, ma resta fuori dalle dinamiche vere, dalla sofferenza della gente, dagli sfratti ecc. E poi questa volta c’era un terzo incomodo, il sottoproletariato della Magliana. I fascisti hanno fatto le loro cose e se ne sono andati. Gli antifascisti hanno fatto un casino distruggendo le macchine, beni di consumo indispensabili per quella gente, e c’è stata la rivolta. L’ha raccontata bene un servizio di “Nemo” su Rai due. Hanno tentato il linciaggio dei giovani compagni arrestati e poi sono entrati nel centro sociale e lo hanno devastato, sotto gli occhi divertiti dei tutori dell’ordine. Quella era la sede del Comitato proletario di Magliana, la prima in cui tanti anni fa avevo cominciato a fare politica. Era stata aperta nel 1974-75, se non ricordo male. Lì è finita. Non ci puoi più metter piede, perché c’è stata una rivolta che ha detto che non ti sopporta. Non sopporta che tu faccia i manifesti come si facevano negli anni Settanta, quelli “fuori i fascisti dai nostri quartieri”. L’autorappresentazione non serve a nulla o forse serve solo ad alimentare l’immaginario del microcosmo antagonista. Quella gente ti dice che quello non è più il quartiere tuo. Il fatto che sia accaduto lì è per me un campanello d’allarme fortissimo. Poi, è chiaro, ci sono ancora dei quartieri dove puoi lavorare, ma devi lavorare davvero, stare dentro le contraddizioni, non puoi limitarti a star lì a testimoniare una presenza. Quando quella che capeggia la rivolta contro il centro sociale – una sottoproletaria che si alza alle quattro del mattino, prende tre autobus e va a fare le pulizie per 12 ore e mettere insieme 5-600 euro al mese – ti parla di “patria”, una parola che non sta nel lessico comune di tante persone, vuol dire che è scattato qualcosa di diverso, di molto più grave. Si tratta di qualcosa che potrebbe crescere ancora con la vittoria della Le Pen in Francia. Le sinistre, nelle loro varie articolazioni, sono del tutto fuori gioco. Due anni fa in Francia ci sono state le elezioni regionali e hanno fatto quello che da noi teorizza Franceschini: i sistemici contro gli antisistema. Si sono messi insieme socialisti e destra repubblicana e sono riusciti effettivamente a fermare la vittoria del Fronte Nazionale. Poi però il problema te lo ritrovi pari pari poco più tardi. Quelli che stanno fuori dal sistema sono incazzati neri, hanno tanto rancore e nulla da perdere, travolgeranno chi cerca di fermarli. Dovremo affrontare una fase in cui si verificano fenomeni di questo tipo. Certo non è tutto così, ci sono sacche di resistenza, tanti progetti interessanti e ancora molte cose belle ma i grandi fenomeni del quadro politico prevalente portano questo segno. Non ci sfidano tanto sul terreno riformista ma sui grandi valori, sulle grandi questioni della convivenza umana, sul pensiero, sul linguaggio.
Nel gruppo di lavoro che si è occupato dei migranti, alla Tre giorni promossa a Roma da Alternative, c’era la gente che ha dato vita a uno dei possibili antivirus, intorno a una esperienza come il Baobab.
Quella serie di incontri è andata molto bene. Serviva, proprio perché mancano luoghi non ingessati e non pre-definiti di discussione. Il programma, forse, era anche un po’ contraddittorio ma siamo in una fase di assoluta ricerca. E’ andato benissimo anche l’incontro con gli amministratori “anomali” del Lazio. Ce ne sono tanti, talvolta perfino a noi sconosciuti. Abbiamo visto persone interessanti e promettenti, dal sindaco giovanissimo di Colleferro all’esperienza di Latina, che è molto importante. Lì hanno arrestato tutti, dal primo cittadino all’ultimo dirigente. Si tratta di un sistema che andava avanti da decenni, pare coinvolto anche il tesoriere del partito della Meloni. Noi però dobbiamo avere un orizzonte largo. Sono critico e faccio molta fatica a seguire il dibattito della nascente forza politica che si è chiamata Sinistra italiana proprio perché mi pare stretto, strettissimo. Noi usciamo da Sel, un’esperienza che ha provato a mettere insieme non dico il meglio ma un pezzo della cultura politica più innovativa della sinistra italiana, un tentativo difficilissimo ma ambizioso. Non possiamo tornare indietro. Il mondo dell’auto-organizzazione sociale è imploso, altri fino a ieri hanno pensato di aver vinto le elezioni. Molte situazioni soffrono della mancanza di un ricambio generazionale. Quando arriva uno sgombero in un centro sociale e ti ritrovi che a difenderlo sono prevalentemente sessantenni, è un problema o no? Io penso di sì. E non è un problema del singolo centro sociale, è un problema di tutti. Ecco, la Tre giorni di Alternative provava a cogliere un punto che non mi pare molti vogliono cogliere: serve una ricostruzione vera, penso e spero che ne seguano molti altri e che esprimano una pluralità di posizioni. Non sento l’ansia di fare in fretta, perché temo che non sarà né semplice né veloce ricostruire. Dovremo combattere le mostruosità che stanno crescendo anche dentro di noi. Come l’apertura di credito a Trump sulla difesa della classe operaia bianca, che mi terrorizza e di cui vedo tracce anche in molte persone che abbiamo incontrato nei percorsi di movimento degli anni scorsi. Poi ci sono quelli che comprendono le ragioni dei bombardamenti di Putin, quelli che dicono in fondo Assad è il male minore. Ecco, a me piacerebbe fare una battaglia, quella sì radicale, sulla cultura politica e sulle pratiche. Se la lotta dei minatori bianchi che difende Trump è solo corporativa, i minatori sono uguali a qualsiasi altro blocco sociale reazionario. Questa è una cosa che davamo per acquisita vent’anni fa e che oggi scopriamo non esserlo proprio per niente.
Molte grandi questioni andrebbero guardate sempre nei tempi lunghi. A questo proposito, a settembre abbiamo messo su Comune un articolo che ha aperto una discussione che ci pare importante. Ricordava che il terremoto ha un tempo circolare: non arriva ma ritorna, anche se ne abbiamo perso la memoria, e invitava a evitare il rischio di pensare troppo alle risposte immediate, spesso ispirate da pressioni mediatiche o dalle pur legittime richieste di persone che hanno perso tutto. Così facendo, si cede spesso a illusioni – alimentate dal governo – di poter ricostruire tutto com’era e dov’era, o di poter ridurre davvero a zero il rischio ma, soprattutto, si finisce per affidarsi solo a esperti esterni oppure più alle tecnologie che non alle persone, alle comunità. Ci si chiude nel ruolo di vittime, insomma, invece che riconoscersi come soggetti capaci di decidere e di agire. Tu segui da vicino le zone colpite del Lazio, ti pare un ragionamento utile?
Quando si va a intervenire in una situazione colpita tanto duramente, devi tener presente anche lo stato d’animo che si crea. E’ evidente che ci siano anche delle illusioni ma a volte le illusioni servono a una popolazione anche per poter sopravvivere. Nel nostro caso, il terremoto del 24 ottobre, più forte di quello che lo aveva preceduto, ha cambiato tutto. L’idea della fretta della ricostruzione era forte dopo il 24 agosto, quando si diceva: facciamo presto, bisogna correre e tutto si giocava un po’ sull’adrenalina. Poi è venuta la seconda botta, devastante, che ha cambiato gli scenari. Le cose che dite sono tutte vere ma vanno fatte vivere collocandole anche in relazione allo stato d’animo di centinaia di migliaia di persone. Non possono essere parte di una realtà che si costruisce a tavolino, vanno calate nelle situazioni rispettando le scelte delle comunità locali. Che talvolta sono anche radicalmente diverse tra loro. Ad Accumoli hanno deciso legittimamente di andare a San Benedetto, negli alberghi, e hanno riprodotto il loro vivere insieme in un’altra situazione. Ad Amatrice hanno manifestato invece una dimensione forse un po’ più coriacea, combattiva. C’è stata una strategia sulle seconde case, che per certi versi esprimeva forse anche un’illusione ma un’illusione “buona”, volta a partecipare, ad essere protagonisti della ricostruzione. Una scelta del genere si reggeva su un meccanismo solidale forte, il fatto che fossero messe a disposizione le seconde case rimaste in piedi. Poi è arrivata la scossa del 24 ottobre che ha fatto crollare proprio tutto e il discorso è cambiato completamente.
Cosa state facendo e cosa pensate di fare come Regione?
Nel quadro complesso in cui agiscono quattro Regioni, un commissario straordinario tecnicamente molto bravo ma che deve rispondere a input di natura sovraterritoriale, noi come interlocutori scegliamo i sindaci. Anche qui potrebbe esserci una mezza illusione, perché è evidente che il sindaco non può risolvere di per sè il rapporto con una comunità. Quello di Amatrice sta resistendo, ci mette l’anima, utilizza una radio per comunicare come può, però c’è bisogno anche di altro sul terreno della partecipazione in un quadro così scomposto, dove però finora, per quanto riusciamo a capire, grossi errori non sono stati fatti. Non è un risultato da poco, bisogna avere un controllo rigoroso e quotidiano perché non trovino spazio le speculazioni dei soliti noti. E’ delicatissimo. Abbiamo fatto alcuni incontri, insieme con Aldo Bonomi, che ha proposto un tavolo di interventi anche ad Errani. Noi però intanto abbiamo deciso che partiremo con l’intervento di una serie di animatori territoriali che hanno l’ambizione di tenere insieme i legami sociali, il modello di sviluppo, la ricostruzione. E’ un progetto che realizzeremo con Aaster e individua la piattaforma dei problemi che vengono avanti giorno per giorno. Avremo una squadra di formatori che fa un lavoro quotidiano di raccordo con gli allevatori, i pastori, i piccoli commercianti. Sarà questo il nostro approccio, dovrà convivere e armonizzarsi con altri, con una realtà di straordinaria complessità. Siamo però contenti di aver trovato una modalità e un processo amministrativo per metterla in campo. Va monitorata con grande attenzione perché è un terreno di interessi e di approcci diversi che dovrà inevitabilmente gestire anche conflitti oltre ai confronti. Pensate, per esempio, che se oggi andate ad Amatrice, trovate un unico bar aperto. Quel bar, però, non c’era prima del terremoto, lo hanno aperto due ragazzi molto giovani romani che lì avevano una seconda casa. I bar che c’erano prima per ora restano chiusi e le chiacchiere e le malelingue riferiscono che magari preferiscono prendere l’indennizzo. Non c’è quasi nulla di semplice nel misurarsi con i diversi tempi e le conseguenze di un terremoto.
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