Alla vigilia delle elezioni amministrative, Francesco Erbani con «Il tramonto della città pubblica» (Laterza) raccoglie storie che, con lo stile dell’inchiesta giornalistica, raccontano una città che resta avvinghiata a un sistema di potere retto dal mattone, cui la politica subordina gran parte delle scelte. Una Roma che perde residenti ma accumula nuovi quartieri dormitorio, senza alleviare l’emergenza abitativa, senza trasporti efficienti, senza cura per lo spazio pubblico, invadendo quel che resta dell’agro romano. Una città nella quale la rendita fondiaria prevale sul profitto d’impresa e manipola le regole del mercato.
Roma è il caso esemplare di una condizione urbana le cui patologie affliggono la qualità del vivere e l’esistenza materiale delle persone. Le trasformazioni che ha vissuto e subìto negli ultimi decenni sono quasi tutte riconducibili ad un vorticoso aumento dell’abitato. E’ proprio dietro, accanto, sotto le trasformazioni fisiche che si è delineato il progressivo impoverimento della città pubblica, mentre è andata lievitando l’idea che soltanto l’estendersi del controllo privato su parti crescenti della città possa contribuire a diffondere quel generale benessere e a fronteggiare la crisi che si è abbattuta su Roma. Siamo sicuri che le trasformazioni che sono avvenute e stanno avvenendo a Roma vengono incontro ai bisogni collettivi?
Di questi e di altri temi si è discusso nella presentazione pubblica del libro di Francesco Erbani che si è svolta giovedì 2 maggio presso la Facoltà di Ingegneria a San Pietro in Vincoli.
Altri modelli di convivenza
Sullo sfondo è la discussione sul modello di sviluppo della città di Roma, su quel «modello Roma» di veltroniana memoria che ancora rimane il riferimento concreto anche se ampiamente superato a parole. I fatti, e l’esperienza dell’amministrazione Alemanno, confermano, anzi rafforzano e approfondiscono questo indirizzo e questo modo di guardare la città. In mancanza di fondi si vendono parti di città, metri cubi in abbondanza, senza cogliere che questo comparta bassa qualità della vita degli abitanti, bassa qualità della città nel suo complesso, ma anche costi che si riverberanno sull’amministrazione nel futuro.
I favori alla speculazione edilizia ricadono sugli stessi amministratori, ma soprattutto sulla città tutta. Siamo ben lontani dall’idea della città come «bene comune». E forse non ci si accorge o non ci si vuole accorgere di come la città vada – nella sua vita concreta e nell’azione dei movimenti – in ben altra direzione promuovendo ben altro modelli di convivenza. E forse bisognerebbe ragionare sulle economie alternative che devono sorreggere questa città che non siano banalmente quelle avventizie che ne sfruttano le risorse e la lasciano impoverita.
Così come bisogna riflettere sullo spazio che la politica deve recuperare nel governo della città, restituendo una visione e ridando vita a quella «città pubblica» che sembra veramente al tramonto. Un dibattito e una prospettiva ineludibili all’avvicinarsi delle prossime elezioni comunali, sebbene il dibattito appaia totalmente asfittico.
Carlo Cellamare è docente di urbanistica alla facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza. Svolge attività di ricerca sui processi di progettazione urbana e territoriale e sulla partecipazione (con particolare attenzioni alle trasformazioni dei quartieri e alle politiche urbane per le periferie). Tra le sue pubblicazioni: Culture e progetto del territorio (Franco Angeli, 1999), Labirinti della città contemporanea (a cura di, Meltemi, 2001), Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008). Ha aderito alla campagna Nome comune di persone; altri articoli scritti per Comune-info sono QUI.
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