Di chi è quello spazio, di chi sono quelle terre? È la domanda che condensa i dilemmi dell’appropriazione del territorio. La proprietà è il modo più ovvio per rispondere a tali dilemmi. Tuttavia, si è sviluppata una storia ricca e complicata riguardo alle condizioni e allo status della proprietà nelle diverse società. Nel capitalismo, la proprietà incarna la confluenza delle regole di sovranità con i diritti di appropriazione delle risorse. Altri e diversi tipi di società, per esempio quelli di molte comunità indigene in América Latina, preferiscono la proprietà collettiva di una famiglia, di una comunità o di un insieme di comunità. Stavros Stavrides, architetto greco che studia da sempre con attenzione e passione i temi dei commons, ragiona su un’ipotesi che va al di là dell’appartenenza, dell’appropriazione e della governance: considerare il territorio come la condizione della vita collettiva, la sua fonte e il suo significativo sostegno. Cosa accadrebbe se, al di là dell’estrattivismo e dell’appropriazione violenta e discriminatoria, guardassimo al territorio come a una spazialità della collaborazione con una etica da reinventare, al modo più inclusivo di intendere la società: la società, dunque, come un insieme complesso di relazioni che si dispiega in continua interazione con lo spazio che occupa?
Siamo abituati a considerare il territorio come lo spazio connesso con un atto di sovranità. Il potere sovrano definisce lo spazio da governare e le leggi che descrivono i limiti e le condizioni della sua giurisdizione. Questo, ovviamente, si verifica nel caso di accordi di potere che si basano su processi di legalità e relative sanzioni. Il potere, tuttavia, può anche fondare il proprio dominio su un territorio e sui suoi abitanti (umani e non umani) sulla pura violenza: l’espressione di una volontà di dominio e un insieme di pratiche che tentano di garantire l’obbedienza.
Il territorio può essere concepito anche in un altro modo: i popoli indigeni dell’America, ad esempio, equiparano il territorio alla produzione della vita in tutte le sue forme. La terra per loro è la Madre Terra e si sentono obbligati a proteggerla piuttosto che a controllarla, considerandola come un insieme di relazioni da governare. Governare la terra in un contesto del genere sembrerebbe totalmente contrario alle pratiche di cura della terra. Le persone che rivendicano il ruolo di custodi del territorio trascendono il problema della giurisdizione e, quindi, degli obblighi derivanti da uno specifico insieme di leggi o di direttive di potere.
Da questo insieme di pratiche e visioni del mondo emerge un diverso tipo di rapporto con il territorio: invece di essere definito come risorsa ed entità concreta che appartiene a chi lo utilizza come risorsa, il territorio diventa una condizione di dipendenza reciproca: le comunità hanno bisogno del territorio tanto quanto il territorio ha bisogno delle loro cure. La cura è, quindi, il contrario dell’estrazione, se con quest’ultima parola si può indicare una riduzione del territorio ad area di saccheggio: saccheggio del lavoro umano e della creatività che crescono in un certo territorio, così come dell’abitare e inorganici che costituiscono il territorio stesso.
Naturalmente, alla base stessa dell’approccio estrattivista, così come a quella della definizione sovrana di territorio, ci sono quelle istituzioni sociali che sanciscono le regole dell’appropriazione. Chi e a quali condizioni può appropriarsi di un determinato territorio per il proprio interesse? “Di chi è questo territorio?” sembra essere una domanda che condensa i dilemmi dell’appropriazione. La proprietà è forse il modo più ovvio per rispondere a tali dilemmi. Tuttavia, si è sviluppata una storia ricca e complicata riguardo alle condizioni e allo status della proprietà nelle diverse società. Nel capitalismo, la proprietà incarna la confluenza delle regole di sovranità con i diritti di appropriazione delle risorse. Il proprietario è il “governatore” sovrano e legittimo utilizzatore della sua proprietà. E leggi, i documenti e le decisioni politiche (come nel caso dell’esproprio forzato delle terre a causa delle condizioni coloniali) assicurano che questa sovranità sia protetta.
Il territorio è stato però considerato in diverse società come proprietà collettiva di una famiglia, di una comunità o di un insieme di comunità. È il caso, per esempio, degli aborigeni australiani che definiscono il loro territorio attraverso canti che attraversano un continente e assicurano gli scambi e la comunicazione tra persone diverse.
E se invece il territorio potesse essere nuovamente considerato come la condizione della vita collettiva, la sua fonte e il suo significativo sostegno? Cosa accadrebbe se, al di là dell’estrattivismo e dell’appropriazione violenta e discriminatoria, potessimo vedere ancora una volta il territorio come il modo più inclusivo di intendere la società: la società, dunque, come un insieme complesso di relazioni che si dispiega in continua interazione con lo spazio che occupa?
Questo significherebbe semplicemente cercare una sorta di armonia con la natura? Oppure implicherebbe un nuovo insieme di istituzioni sociali destinate a riformulare il problema della governance così come quello dell’appropriazione? La caratteristica più importante delle istituzioni cercate sarebbe sicuramente una etica rinnovata della collaborazione. La collaborazione può offrire un percorso al di là dell’appropriazione selettiva, così come al di là di un ethos estrattivista che tratta gli altri (compresi i non umani) come mezzi piuttosto che come partner. La collaborazione può diventare la via per stabilire rapporti di reciprocità, uguaglianza, cura e sostegno reciproco.
Il territorio, così, può trasformarsi nella spazialità della collaborazione. Sarà sia ciò che modella come anche il risultato della collaborazione. Inoltre, sviluppando forme di collaborazione per trattare i territori come partner, le società umane potranno sviluppare modi per prevenire l’accumulo di potere sia all’interno dei limiti di ciascuna società sia, in alcune di esse, in relazione alle altre. Né soggetti privilegiati che si appropriano né governatori autoproclamati, dunque. Territorio come comune: questo significa aprire la vita sociale a pratiche di condivisione e sviluppare regole del mettere in comune basate sull’uguaglianza e sul sostegno reciproco. Una società emancipata, pertanto, è una società che non lotta per garantire che il proprio territorio sia un’area di emancipazione, ma piuttosto una società che cerca con tutte le sue forze di garantire che i territori siano aree di scambi comuni.
Fonte: Desinformemonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Stavros Stavrides è un architetto e attivista nato in Grecia, docente alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, dedito al lavoro sulle reti urbane di solidarietà e sostegno reciproco e alla comprensione degli atti e dei gesti sparsi di tacita disobbedienza nelle metropoli.
Giovanni Tomei dice
Progettare la nascita della polticità sociale è un sistema complesso che divide in due la società nel suo insieme. Due campi che risuonano in modo diverso e difforme. Da un lato, il campo della polticità sociale, tra membri consapevoli della società civile, e dall’altro, il campo della politicità istituzionale. Quest’ultimo è preda della partitocrazia dinastica che tende alla distruzione dello Stato di diritto. Una plutocrazia che tende alla Oligarchia. L’informazione giornalistica non può che trattare pezzi della verità che tendono agli equilibri sociali possibili. Solo che cè un problema iniziale da risolvere che viene prima e che non tratta di soluzioni specifiche, nel senso che non programma soluzioni di equlibrio che non possono inverarsi per mancanza assoluta di ruolo e di potere, ma che per risonanza di campo può dedicarsi a: come approcciare con organizzazione e metodo gli squilibri nelle relazioni tra i due campi, per determinare un cammino comune alla politicità sociale per tendere a risolverli, a a partire dai territori in cui insiste un confine comunale.