Quasi quindici anni sono passati da quando Gaza è stata isolata dal resto del mondo. I ragazzi e le ragazze che oggi la attraversano non hanno mai conosciuto realtà diversa: sono i figli delle bombe e delle recinzioni. L’esperienza di Gaza Freestyle mette in relazione centinaia di giovani attraverso le discipline della strada (lo skateboard, il circo e il calcio) per far emergere la forza e la voce di una generazione nata sotto le bombe e dentro una gabbia
Facciamo parte di un mondo anziano e i giovani sono una delle tante minoranze che compongono la società italiana. Non è lo stesso dall’altra parte del mare. Sulle coste del Mediterraneo, dal Nord Africa al Medioriente, ci sono luoghi in cui il tempo della vita è battuto dalle nuove generazioni. Gaza è uno di quelli.
L’età media della popolazione si attesta intorno ai diciotto anni. Questo vuol dire che gran parte delle persone non ne ha più di trentacinque e che quando parliamo dei gazawi parliamo di giovani palestinesi. Quasi quindici anni sono passati da quando Gaza è stata isolata dal resto del mondo. I ragazzi che oggi la attraversano da parte a parte, non hanno mai conosciuto realtà diversa: sono i figli delle bombe e delle recinzioni.
L’esperienza del Gaza Freestyle ci ha permesso di entrare in contatto con centinaia di giovani attraverso le discipline della strada: lo skateboard, cultura capace di unire e spingere i ragazzi e le ragazze – cosa per nulla scontata – oltre i propri limiti; il circo e le scuole di circo e acrobazie, in cui i gazawi non hanno rivali e che nel tempo hanno sedimentato esperienza e professionalità; il calcio, che è un linguaggio universale, una scuola di rispetto e fratellanza, e una porta per conoscere il mondo esterno con il pallone tra i piedi. Dalle partite contro le squadre dei quartieri, nei campi attrezzati, alle partite sulla sabbia nei campi profughi, abbiamo conosciuto ragazzi e bambini che nel calcio e nello sport trovano sfogo e realizzazione alla rabbia e ai sogni. Un impegno particolare lo abbiamo dedicato, poi, alle donne e alle ragazze, alla loro condizione di oppressione in una società regolata dalla Shari’a.
Ci si rende conto della forza, d’animo e fisica, e della determinazione che caratterizza questi e queste giovani. E da chi gioca a pallone a chi studia all’università, tutti hanno ben chiara una cosa: se hanno una possibilità di vita e di futuro è fuori dalle recinzioni di Gaza. Per avere anche solo la speranza di uscire c’è bisogno di essere i migliori in ciò che si fa. Non vogliono andarsene per abbandonare ciò che hanno, ma per tornare e migliorare le condizioni della propria famiglia, della propria terra, con cui il legame è viscerale. Vogliono fare esperienza, conoscere il mondo e far conoscere Gaza al mondo. È curiosità di sapere, naturale motore delle giovani generazioni, quello che ad ogni latitudine porta energie e cambiamento nel mondo. È curiosità di vedere oltre le recinzioni. Molti giovani conservano questo sogno, anche se a Gaza è impossibile pianificare. È difficile pensare al futuro quando non sai se la tua casa sarà ancora in piedi il giorno successivo, in un luogo in cui la disoccupazione e la povertà impediscono anche ai ragazzi più preparati di trovare un lavoro degno.
Una condizione di difficoltà in cui tanti riescono a sviluppare interessi e capacità uniche, partendo veramente dai pochissimi mezzi che hanno a disposizione. Una condizione che è al tempo stesso una pentola a pressione per chi, invece, non ce la fa: molti non reggono e la depressione, insieme all’uso di psicofarmaci – come in ogni carcere -, sono sempre più frequenti; molti altri, con la disperata determinazione di chi non ha niente da perdere, danno vita a grandi manifestazioni come la Marcia del Ritorno. Migliaia di giovani che insieme raggiungono il confine e, dando fuoco ai copertoni provano a raggiungere le recinzioni, nascosti dalla coltre del fumo, mentre i militari dell’esercito israeliano sparano. A Gaza ci sono così tanti ragazzi che hanno perso mani, gambe, braccia, che c’è un intero campionato di calcio dedicato alle squadre di giocatori amputati. Con il Gruppo Calcio della carovana del Gaza Freestyle abbiamo avuto l’onore di poter giocare con loro.
La forza e la determinazione di questi giovani è un grido di rabbia e resilienza, è la voce di una generazione nata sotto le bombe e dentro una gabbia e per cui la propria stessa esistenza, giorno dopo giorno, vuol dire resistenza. Non c’è scelta, ma consapevolezza, nella loro condizione.
Ad oggi un grande progetto è in cantiere per i giovani di Gaza: il Green Hopes Gaza. Promosso dalla cooperazione italiana e progettato dall’Associazione per la Cooperazione e la Solidarietà (Acs) con il sostegno di Gaza Freestyle, il progetto prevede la riqualificazione di una grande area di terra al confine Nord della Striscia di Gaza, nei quartieri popolari di Al Awda, Al Nada, Al Isba ricostruiti dal governo italiano dopo la distruzione causata dall’operazione israeliana “Margine protettivo” del 2014. Un’area multifunzionale che vedrà la realizzazione di uno dei più grandi skatepark del Medioriente, di un tendone da circo, di serre per la coltivazione e spazi per aggregazione e sostegno psicologico per donne e uomini. L’area, con la partecipazione della Municipalità di Beit Lahya, sarà autogestita dalla comunità locale. La situazione legata al Covid sta rallentando i lavori. Un importante sostegno è ora necessario per ultimare l’area dei campi sportivi: c’è bisogno, infatti, di una nuova pavimentazione in resina che renda il campo utilizzabile per lo sport.
Al Porto di Gaza City, invece, giovani skaters italiani e palestinesi hanno costruito uno skatepark che cresce anno dopo anno. Lasciare un segno tangibile del lavoro di scambio culturale anche quando non si è dentro la Striscia è una prerogativa che le carovane del Gaza Freestyle hanno perseguito fin dall’inizio. Uno spirito di azione che trova fondamento nelle idee e nell’immagine di Vittorio Arrigoni, il cui volto campeggia sul muro della rampa.
È passato quasi un anno da quando l’ultimo gruppo è uscito dalla Striscia di Gaza. I progetti continuano e la speranza è quella di poter rientrare il prima possibile. La pandemia sta colpendo duramente e ha aggravato la chiusura delle frontiere e l’isolamento della popolazione. Il Covid 19 ha tenuto lontani gli attivisti internazionali, eppure il lavoro di scambio e di solidarietà non si è fermato.
Iacopo Smeriglio, studente universitario e attivista
Sonia dice
Per iscrizione alla news lettera.grazie
Giusy Alì dice
Sono interessata ai vostri articoli e chiedo cortesemente l’iscrizione alla newsletter.
Grazie