L’inizio della raccolta delle firme per trasformare il disegno di legge sui beni comuni in una proposta di legge di iniziativa popolare ha già il merito di aver riacceso l’attenzione su un nodo teorico e pratico importante per difendersi dal dominio neoliberista. Il tema è arricchito anche dalla proposta elaborata da Paolo Maddalena e perfino da un documento dell’Anci. È in ogni caso una battaglia difficile, perché dall’alto faranno di tutto per ostacolare percorsi di questo tipo, e complessa, perché c’è bisogno di regole diversificate. “Se ogni cosa può diventare bene comune nell’azione concreta delle comunità allora il rischio di una catalogazione giuridica è quello di lasciare fuori qualche cosa – spiega Paolo Cacciari – Da qui i timori di una parte dei movimenti per i beni comuni di una loro istituzionalizzazione escludente…”. Di certo, qualunque sia la strada, introdurre nel diritto il concetto di beni comuni significa rafforzare “la strada alla sperimentazione di forme di autogestione e di autogoverno delle comunità afferenti a quei beni…”

di Paolo Cacciari
Bene, l’inizio della raccolta delle firme necessarie per trasformare il disegno di legge sui beni comuni (elaborato a suo tempo da una commissione ministeriale di esperti presieduta da Stefano Rodotà) in una proposta di legge di iniziativa popolare (vedi il sito del Comitato promotore: www.benicomunisovrani.it) ha riacceso l’attenzione su un nodo teorico e pratico decisivo per chiunque voglia uscire di paradigmi neoliberisti.
I gruppi di attivisti che si occupano del riuso con finalità civiche e sociali dei patrimoni urbani non utilizzati hanno annunciato per il 17 febbraio a Napoli un convegno nazionale per costituire una “rete dei beni comuni”. A sua volta l’onorevole Fassina ha annunciato che presenterà una proposta di legge elaborata dal giurista Paolo Maddalena per una interpretazione costituzionalmente orientata del diritto di proprietà formalizzato dal Codice civile che – lo ricordiamo – è del 1942. Anche l’Anci, l’associazione ufficiale dei comuni, ha approvato un interessante documento denominato Strategia di riuso del patrimonio culturale in abbandono o sottoutilizzato delle città con cui chiede al governo di uscire dall’obbligo della “massima redditività” (in pratica l’asta) per l’utilizzo degli immobili di proprietà comunale. Qualche cosa si muove anche dentro il palazzo. La Camera ha finalmente calendarizzato la discussione in aula della proposta di legge di iniziativa popolare sull’“acqua bene comune”, la madre di tutti i beni comuni, come fu acclarato da ventisei milioni di italiani nel referendum del giugno del 2011. Insomma, il sintagma “beni comuni” smette di essere solo uno slogan usato dai movimenti che si battono contro le privatizzazioni e la mercificazione dei beni e dei servizi d’uso collettivo ed entra nell’agenda politica.
https://comune-info.net/2017/12/larcipelago-dei-commons/
A dire il vero, il concetto di “beni comuni” si è già fatto giurisprudenza con varie sentenze (la più nota è quella della Cassazione sulle valli da pesca della Laguna veneziana, ottenuta a seguito di una lunga vertenza avviata dai gruppi ecologisti) e nelle delibere di molte amministrazioni comunali attraverso regolamenti, patti e convenzioni che assicurano una gestione diretta di gruppi di abitanti di complessi immobiliari pubblici (il modello più usato, in 184 comuni, è quello elaborato dal gruppo di ricercatori di LabSus) ed anche di proprietà privata attraverso comodati d’uso temporanei. Non dimentichiamo nemmeno i beni confiscati alle mafie che vengono destinati a “fini sociali” e gli ex usi civici e proprietà collettive agro-silvo-forestali finalmente riconosciuti e denominati “domini collettivi” dalla legge 168 del 2017.
Rimane ancora da recepire, invece, la Convenzione internazionale di Faro che prevede la costituzione di “comunità patrimoniali” di cittadini che si prendono in cura beni culturali, storici e artistici. L’esperienza più coraggiosa, mirata a creare una estesa rete di beni comuni urbani, è certamente quella in corso nel Comune di Napoli. Attualmente sono otto gli immobili, individuati attraverso le mobilitazioni degli abitanti e la progettazione partecipata dei piani di utilizzo, che vengono gestiti direttamente da assemblee autonormate.


Sarebbe, insomma, maturo il momento per un recepimento dei beni comuni (commons) nei codici del diritto. Ma trapiantare il concetto di beni comuni dal lessico comune delle scienze sociali a quello giuridico sarà un campo di battaglia. Non solo per le prevedibili resistenze di una politica ormai catturata in toto dal pensiero liberista, individualista, privatista ed economicista, ma anche per ragioni oggettive. Le difficoltà derivano dalla eterogeneità e varietà degli “oggetti” classificabili come beni comuni. Beni naturali essenziali e irriproducibili (come la fauna e la flora selvatica, l’atmosfera, l’acqua, le foreste, le sementi…), beni cognitivi immateriali (come i saperi, i linguaggi, il paesaggio, la bellezza…), beni sociali artificiali (come le infrastrutture, le scuole, gli ospedali, l’edilizia residenziale, il welfare, la web …) hanno caratteristiche intrinseche diverse e per renderle accessibili a tutti c’è bisogno di regole diversificate. Se ogni cosa può diventare bene comune nell’azione concreta delle comunità – quando riescono a farsi volere del popolo sovrano -, allora il rischio di una catalogazione giuridica è quello di lasciare fuori qualche cosa. Da qui i timori di una parte dei movimenti per i beni comuni di una loro istituzionalizzazione escludente.

La legge a suo tempo proposta da Rodotà ha il merito di porre una definizione di principio generale: sono beni comuni quei beni che costituiscono “utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona”. In pratica, i diritti costituzionali (belli, ma astratti e formali) troverebbero finalmente corpo nei beni necessari a materializzarli. Non solo i beni pubblici (demaniali e patrimoniali), ma anche quelli privati sarebbero finalmente chiamati a rispettare il dettato costituzionale (articoli 41, 42,43) sulla “utilità sociale” e sulla “funzione sociale” della proprietà – qualsiasi essa sia. Con l’introduzione della fattispecie dei beni comuni nel Codice civile, si rafforzerebbero i vincoli pubblici di interesse generale su tutti i beni definiti come comuni – anche in riferimento ai diritti delle generazioni future – attraverso la loro inalienabilità, integrità, destinazione d’uso, tutela amministrativa. Ai beni comuni viene riconosciuto un valore in sé e un diritto di esistere per sé. Non disponibili, non alienabili, non commercializzabili, non monetizzabili. Per intenderci: un fiume, un lago, una linea di costa… ma anche un borgo, un servizio o un complesso produttivo d’utilità generale… potrebbero essere sottratti dalle logiche del mercato e venire affidati alle responsabili cure delle comunità insediate di chi ci abita e ci lavora. È noto (vedi gli studi di Eliner Ostrom, e non solo) che i risultati in termini di preservazione del bene e di equa distribuzione dei benefici sarebbero migliori.
https://comune-info.net/2018/03/commons-non-beni/
I beni comuni – prima di essere delle cose – sono un principio fondativo di organizzazione generale della società secondo una logica non proprietaria, dove il rapporto tra soggetti, gruppi, comunità e risorse disponibili non avviene sulla base del possesso, ma dell’accesso, dell’appartenenza comune, della mutualità e della reciprocità: “dare senza prendere e prendere senza togliere”. Beni comuni (commons) e comunità (communitas) sono inseparabili.
Introdurre nel diritto (a partire da quello proprietario) il concetto di beni comuni significherebbe aprire la strada alla sperimentazione di forme di autogestione e di autogoverno delle comunità afferenti a quei beni. Oltre la delega agli enti pubblici, oltre l’affidamento agli apparati statali. Insomma, dietro e davanti ai beni comuni c’è un’idea radicale di democrazia che va conquistata anche aprendo brecce giuridiche sul diritto costituito. La proposta di legge Rodotà è un buon ariete.
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