Ci sono non-luoghi nelle periferie di alcune città italiane che hanno poco da invidiare alle peggiori favelas del pianeta. Dei Bipiani di Ponticelli, a Napoli, si sono occupati anche tv e istituzioni, più o meno per la durata e con la profondità di uno spot pubblicitario o elettorale, ammesso che tra le due cose ci sia differenza. I bipiani sono strutture realizzate con larghissimo impiego di amianto, tirate su in emergenza dopo il terremoto dell’Ottanta e lì rimaste: una bomba ambientale a cielo aperto dove sopravvivono 398 persone, tra cui diversi migranti. Cittadini senza appeal elettorale. Malattie respiratorie e neurologiche, nascite con evidenti malformazioni, ma soprattutto diagnosi di tumori e una rassegnazione triste qui sono molto diffusi. Un reportage fotografico
di Pas Liguori*, pasliguori.com
Quando scatto fotografie in periferia, mi ispirano due puntuali conferme: l’umanità che regolarmente riscopro e la resistenza per una vita migliore da parte di chi vive in quei luoghi. Coraggio e riscossa sfuggiti alla morsa di indubbie difficoltà e discriminazioni.
In occasione del viaggio ai “bipiani” di Ponticelli, a Napoli, ero però consapevole che le cose sarebbero state molto diverse. Avevo già visto inchieste televisive con i riflettori puntati sul degrado del posto con condizioni abitative dove dignità e diritto alla vita non sono umiliati, sono uccisi.
Le telecamere sui misfatti inducono spesso a stupore impulsivo e condanne retoriche, facendo strada a propositi di rinnovate battaglie civili e a iperboliche soluzioni politiche. Dopo un po’, nel buio dei riflettori spenti, il disinteresse generale ritorna e si espande. In quell’oscurità, l’indifferenza ci vede benissimo. E alimenta il puntuale mancato rispetto delle solenni promesse. Un déjà vu inaccettabile che a Ponticelli si ripete da troppo con un sapore cronico di dolorosa amarezza.
I bipiani sono strutture realizzate con largo impiego di amianto, tirate su in emergenza dopo il terremoto dell’Ottanta e lì rimaste, bomba ambientale a cielo aperto, monumento resistente ai divieti imposti dalla legge 257 del 27 marzo 1992 che dispone misure urgenti relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto. Venticinque anni dopo, nell’ambito di un’incredibile illegalità, 398 disgraziati cercano di sopravvivere sfidando il cancro in agguato costante. Più o meno come se tutti i giorni, al risveglio, uno decidesse di provare l’agghiacciante adrenalina di un giro di roulette russa. Purtroppo, moltissimi grilletti premuti non sono – e continuano a non essere – colpi a salve.
Bipiani è un termine improprio. Persino chiamarli baracche sarebbe un magnificat. Nulla da invidiare alle peggiori favelas del pianeta, anzi qui è gratuito l’accesso alla spa del tumore.
Un orrendo crimine residenziale perpetrato ai danni di napoletani evacuati dalle proprie abitazioni danneggiate dal sisma di trentasette anni fa. Nel tempo, si sono aggiunti i migranti, in prevalenza albanesi e africani, che hanno occupato i loculi lasciati liberi da chi è riuscito a scappar via (o non è più).
In questo rione della morte convivono etnie diverse, accomunate da una rassegnazione triste. Sostanzialmente, si tollerano con reciproca sopportazione e il non dialogo li rende ancor più disuniti. La carica virale della residua protesta – va detto che le lotte del passato hanno prodotto il nulla – risulta fiacca, facilmente debellabile dall’indifferenza sociale consolidatasi in questi decenni.
Cittadini senza appeal elettorale, relegati in strutture vietate dalla legge eppure tollerate in un Paese che proprio in questi giorni ospita il vertice delle economie guida del mondo globale. Un Paese che, attraverso le sue istituzioni nazionali, regionali, provinciali, metropolitane e comunali, cui vanno aggregate quelle curiali della Chiesa porporata, non è riuscito in quasi quarant’anni a fornire una soluzione abitativa a persone sepolte nell’amianto di Stato.
Continuano a vivere lì, aggrappati all’unica parvenza di casa che hanno, pur consapevoli dell’abbraccio mortale del veleno che impregna i tetti, le pareti e gli interni scrostati dei loro “appartamenti”.
Amianto prêt-à-porter, visibile al vivo, in ogni dove. Quello invisibile si accumula inesorabile nei polmoni di bambini, anziani, donne e uomini che “vivono” questa vita surreale ma vera.
Due sensazioni precise accompagnano il mio tour in questo scempio: un silenzio estraneo a ogni decantata napoletanità e la miscela olfattiva delle varie cucine, friarielli e spezie esotiche, sovrastata da un sapore polveroso, metallico.
Patrizio Gragnano mi parla dell’”odore di qui”. Ex assessore alle politiche sociali della municipalità di zona, Patrizio da molti anni si batte denunciando questo scandalo. Lui è la mia indispensabile guida in questo viaggio nell’assurdo che esiste. Ambasciatore, motivatore, amico degli “invisibili”. Li chiama opportunamente così. Soprattutto, è il loro angelo. Lo abbracciano, gli chiedono educatamente una piccola speranza, gli aprono le porte di questi contenitori della vergogna così difficili da poter raccontare. Evitando intrusioni inopportune, ascolto i loro dialoghi e posso solo scorgere lo spettacolo inquietante di questa profonda ingiustizia: l’inferno è un posto migliore, non prevede vergogna.
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Per poter condurre una prima ricognizione, devo subito allontanare il pensiero vile e comprensibile di respirare anche solo per pochi istanti quello che queste persone respirano in ogni minuto dei loro giorni e della loro lunga notte.
Gli interni appaiono non dissimili da un’opera di Basquiat all’improvviso animatasi, mentre gli esterni si svolgono su attraversamenti pedonali incrociati da fasci voluminosi di fili elettrici volanti, pericolosissimi per chiunque, figuriamoci per un bambino desideroso di essere spensierato per un po’ con l’aiuto di giochi che gli sono preclusi.
C’è chi si è cimentato a infondere un senso estetico a questo horror organizzando un’improbabile aiuola con fiorellini. E chi con operosità ha installato la coltivazione – volenterosa ma che lascia allibiti – di piante di pomodoro in un orticello comunque malsano.
È difficile scattar foto inquadrando invisibili. Si pensa a scene normali, condizionate poi dal peggio: un rientro a casa dopo una giornata di lavoro, condotta tra precarietà ed espedienti. Una cena in famiglia con pietanze gustose, respirando fibre e particelle avvelenate. Una buonanotte a bambini che addormentandosi guardano le stelle disegnate sulla parete vicina scrostata e condita di amianto.
Mi fermo a parlare con tre persone. Tutte con tumore diagnosticato, c’è chi lo cura e chi ha persino rinunciato a farlo per i costi connessi. Altre malattie respiratorie, neurologiche, digestive sono parecchio diffuse. Si registrano casi di nascita con evidenti malformazioni.
Il pensiero corre poco più in là, spostandosi di circa ottocento metri dove prima o poi entrerà in funzione il noto Ospedale del mare, costato almeno quattrocento milioni, inaugurato più volte dai vari governatori regionali succedutisi e dai più longevi in carriera cardinali e vescovi con tanto di taglio di nastri e scoppiettanti champagne. Un ospedale costruito in zona rossa Vesuvio, a due passi dal disastro ambientale dei bipiani.
Questa periferia non è famosa quanto altre pur difficili della città. È una Napoli immune agli stucchevoli proclami post-ideologici di ridicoli nostalgici del borbone, neo masanielli che si spacciano per Che dell’era contemporanea e tuttologi sparsi qui e lì. È una Napoli che esiste davvero e che non dovrebbe e non deve esistere più, composta com’è da persone che ogni giorno si ammalano o muoiono un po’ di più tra le mura killer di casa. Condannati senza avvocati a difenderli, sperano in fondo che il disumano tribunale del disinteresse applichi loro almeno uno sconto di pena: un posto che li aiuti, loro sì, a restare esseri umani.
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* Fotografo per passione, ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme.
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