Quello che arriva dagli alberi, selvaggio come ai tempi di Jack London o meno, è semplicemente un richiamo alla vita stessa o, meglio, alla possibilità di vivere. E mai quel richiamo è stato un grido lancinante come al nostro tempo. Negli ultimi diecimila anni la Terra ha perso un terzo delle sue foreste, ma la metà di quegli alberi indispensabili alle specie del pianeta è stato perso a partire dal 1900. Nella Cop 26 di Glasgow è stato promesso di azzerare la deforestazione entro il 2030, cioè entro otto anni, ma la realtà è molto diversa da quella che viene raccontata ai vertici internazionali. L’ultima edizione del rapporto del World Resources Institute, considerato la fonte più attendibile sulla deforestazione, riporta che nel 2021 il mondo ha perso altri 11,1 milioni di ettari di foreste tropicali, al ritmo incredibile di dieci campi di calcio ogni minuto. Secondo Global Forest Watch, il 96% della deforestazione globale avviene ai tropici. L’aspetto più preoccupante è che un terzo delle foreste distrutte erano primarie, le più preziose sia per lo stoccaggio di carbonio dall’atmosfera che per la protezione della biodiversità. Per questo è così essenziale proteggerle – lasciando che si rigenerino, che la natura si curi da sé – molto più importante che piantare nuove foreste. Alberto Castagnola rilegge un numero speciale monografico del National Geographic Italia

(Parte prima)
Questo articolo è interamente basato su un numero speciale di National Geographic Italia, intitolato “Salvare le foreste, proteggono noi e il nostro pianeta e hanno bisogno di aiuto”, che contiene numerosi articoli dei massimi esperti in materie forestali e una grande quantità di foto di rara bellezza. Apparso nel maggio 2022, descrive tutti i processi che si svolgono all’interno delle zone boscate e insieme analizza in profondità i meccanismi di distruzione in corso e le minacce al loro futuro.

Di fronte alla impossibilità di fare qualunque sintesi, mi sono limitato a mettere in evidenza i soli aspetti quantitativi dei drammatici processi in atto, in termini di attività umane dannose e di crisi climatica in corso. La lettura del testo mi ha aperto una serie di prospettive, ha stimolato le mie reazioni più profonde, ha ulteriormente aumentato le mie paure per la vita sul pianeta. Ma soprattutto ha trasformato un elemento del paesaggio in un organismo vivente, che soffre come un essere umano e insieme come parte di una collettività colpita. I numeri tra parentesi alla fine di ogni paragrafo, aiutano a collocare i testi utilizzati, ma spero che tutti preferiscano immergersi subito nelle immagini e nelle continue stimolazioni del volume.
E difficile essere alberi di questi tempi
Nel corso degli ultimi diecimila anni la Terra ha perso un terzo delle sue foreste, la metà di queste solo a partire dal 1900. Abbiamo tagliato gli alberi per usare la legna. Li abbiamo abbattuti per creare fattorie e pascoli. Per costruire case e strade. In tutto il mondo la deforestazione è diminuita rispetto ai picchi degli anni Ottanta, ma l’andamento varia da regione a regione. In Indonesia, paese in cui le foreste sono state abbattute per far posto alle piantagioni di palma da olio, la perdita di alberi è diminuita a partire dal 2016. Da agosto 2020 a luglio 2021 in Amazzonia sono stati distrutti 13.000 chilmetri quadrati di foresta pluviale, con un aumento del 22% rispetto all’anno precedente. Poichè l’anidride carbonica e altri gas serra riscaldano il pianeta, i semi di alcune delle 73 mila specie arboree stimate iniziano a germinare in zone più vicine ai Poli e in posizioni più elevate sui pendii, trascinandosi dietro altre forme di vita. Gli alberi crescono più in fretta perchè assorbono la Co2 in eccesso, un elemento fondamentale per la fotosintesi. Finora questo “inverdimento” del pianeta ha contribuito a rallentare il cambiamento climatico. Ma i cambiamenti climatici uccidono anche gli alberi. E l’aspetto che preoccupa maggiormente gli esperti di foreste è la sempre crescente frequenza degli eventi meteorologici estremi. Incendi, tempeste violente, infestazioni di insetti, e soprattutto il caldo eccessivo e la siccità che possono peggiorare gli effetti di tutto il resto. Questi episodi singolari, spesso senza precedenti, possono rapidamente provocare la distruzione di massa degli alberi, creando delle situazioni del tutto nuove nelle foreste che coprono il pianeta dall’ultima era glaciale. Le foreste che sono già precipitate nel baratro rappresentano solo una piccola percentuale dei 3000 miliardi di alberi e dei quattro miliardi di ettari boscosi del pianeta (11-16).
Il punto è che che non possiamo ancora quantificare gli effetti climatici su scala planetaria. La superficie coperta da alberi della terra è aumentata del 7% dal 1982, ma ciò non significa che le foreste siano in salute: i dati non distinguono le foreste naturali dai boschi creati per scopi produttivi, cioè i milioni di eucalipti, pini e palme piantati per ottenere determinati prodotti a scapito delle foreste pluviali. Inoltre questi dati non consentono di sapere quali alberi soo stati abbattuti dalle motoseghe e quali sono stati uccisi da eventi legati al clima. Inoltre il numero complessivo di alberi non è l’unico fattore importante. Gli alberi più vecchi e grandi immagazzinano la maggior parte della Co2, sono cruciali per la biodiversità e saranno difficili da rimpiazzare. Stando ad un recente rapporto degli scienziati dell’IPCC, dal 1945 il caldo e la siccità provocati dai cambiamenti climatici hanno ucciso il 20% degli alberi nel Sahel africano, nel Marocco sudoccidentale e negli Stati Uniti occidentali. E solo negli ultimi 22 anni si è registrata una riduzione significativa di cinque delle otto specie più abbondanti nella regione occidentale dell’America, in gran parte a causa degli incendi e dei parassiti. (18)
Vediamo per quale meccanismo gli alberi sono vulnerabili all’aumento delle temperature. L’aria più calda assorbe più umidità dalle piante e dal terreno. Per ridurne la perdita durante le siccità gli alberi chiudono gli stomi delle foglie o perdono del tutto le foglie. In questo modo però si riduce l’immissione di Co2 per cui le piante rimangono affamate e assetate. Quando fa particolarmente caldo, gli alberi perdono persino parte dell’acqua. Quando il suolo è molto secco, gli alberi non riescono più a mantenere la pressione nei tubicini interni che portano acqua alle foglie. Bolle d’aria interrompono il flusso provocando fatali embolie. Alcune specie si proteggono con radici più profonde, o immagazzinando più acqua, ma queste strategie vanno a discapito della possibilità di crescere in altezza per competere con altri alberi per la luce e lo spazio. Come gli scienziati hanno capito solo negli ultimi anni, il sistema idraulico di molti alberi di regioni diverse, funziona già al limite anche in condizioni normali. Ciò significa che un periodo prolungato di caldo e di scarsità di piogge possono spingerli oltre quella soglia. La siccità che nel 2002 ha colpito le regioni sudoccidentali degli Stati Uniti ha fatto esattamente questo. Studiando gli anelli di accrescimanto è emerso infatti che quello è stato l’anno più secco in un millennio, il peggiore in assoluto per la crescita degli alberi.Un fenomeno simile non era mai stato registrato. Nei venti anni successivi, il caldo e la siccità hanno ucciso, direttamente o indirettamente, miliardi di alberi in Spagna, in Corea del Sud e in Australia. Nella Siberia centrale sono andati perduti 800 mila ettari di abeti. (23)
Il caldo ha contribuito anche alla diffusione di parassiti letali, che hanno indebolito gli alberi e hanno fatto sì che coleotteri e falene sopravvivessero agli inverni o si riproducessero più di frequente. Queste infestazioni hanno ucciso alberi in Honduras, Turchia e Algeria, mentre in Europa centrale si è avuta l’impressione che fosse arrivata una sorta di nuova e spaventosa peste. (23)
Nel 2018 in Europa centrale si è registrata la peggiore siccità degli ultimi cinque secoli. In estate la temperatura è stata 3,3°C più alta della media. Moltissimi alberi sono morti, i sopravvissuti indeboliti hanno cominciato ad attrarre parassiti. La Repubblica Ceca è stata la più colpita. Dal 2018 al 2020 in Germania sono andati perduti 300 mila ettari di foresta. Secoli di storia hanno aggravato la crisi: in questa parte dell’Europa le foreste naturali sono quasi del tutto scomparse. L’uomo ha profondamente cambiato il paesaggio. Dominati in origine da faggi e querce, molti boschi sono stati ripiantati con pecci e pini. (28).
Ma nel mondo i problemi non sono dovuti soltanto alla penuria di piogge e ai roghi. Dopo che il caldo estremo e la siccità avevano indebolito le mangrovie lungo centinaia di chilometri della costa nord dell’Australia, un episodio di El Nino del 2015-2016, probabilmente intensificato dai cambiamenti climatici, ha provocato un temporaneo abbassamento del livello del mare. Le mangrovie che occupavano 7000 ettari di costa, sono morte di sete. Nel Brasile sudorientale, quello stesso episodio ha fatto diminuire le precipitazioni, stressando le mangrovie. Poi, un giorno di giugno del 2016 grossi chicchi di grandine sono caduti in questo ambiente caldo per la prima volta nella storia, mentre raffiche di vento a 100 chilometri orari spogliavano gli alberi di tutte le foglie, e ne spezzavano i tronchi, in un’area di 500 ettari. E 5 anni dopo degli esperti, osservando il suolo intorno agli alberi morti e caduti in acqua, cercavano di capire se sarebbe mai potuta ricrescere qualche mangrovia. (29).

L’importanza degli alberi
L’antico albero madre svetta nel cielo per circa 35 metri, circondato dalla sua famiglia, quasi a voler raccontare la loro storia e a proteggerla. Questo boschetto multigenerazionale è sopravvissuto a millenni di variazioni climatiche, infestazioni di insetti e tormente.Tutte le esperienze vissute sono iscritte nei semi e negli anelli dei tronchi, le informazioni trasmesse da un albero tramite reti fungine sotterranee. Sistemi di difesa affinati in milioni di anni hanno aiutato questi alberi a sopportare temperature estreme e a tenere lontano gli erbivori. Hanno anche permesso a questa foresta di accumulare tanta anidride carbonica (1300 tonnellate a ettaro) quanto una foresta pluviale tropicale. Ma queste difese non possono nulla contro le seghe a motore. Attraversiamo la radura ricoperta di licheni fogliosi caduti insieme alle fronde degli alberi. Sulla corteccia priva di vita dei gigantescchi tronchi vediamo altri licheni morenti. Le foreste primarie come questa stoccano il doppio dell’anidride carbonica rispetto alle foreste secolari e sei volte rispetto a quelle tagliate a raso. Quando gli alberi antichi invecchiano, continuano a stoccare Co2 nel tronco, sequestrandola al sicuro nel terreno. Gli antichi alberi abbattuti giacciono a terra, disposti in parallelo in direzione dello stabilimento che li trasformerà in cartelli, segatura e strumenti musicali. Studi hanno confermato che l’abbattimento di foreste primarie rilascia il 40-65 % della Co2 dell’ecosistema nell’atmosfera. Noto lo stato di humus color cioccolato esposto dal taglio stradale, spesso quasi due metri e ricco di anidride carbonica. Circa la metà della Co2 di questa foresta è stoccata in questo strato, il restante negli alberi. Quando i macchinari per il taglio movimentano il terreno e lo espongono, lo spostamento, l’erosione e la decomposizione provocano la perdita di quasi il 60% dell’anidride carbonica. Secondo delle ricerche, si perde un altro 60% di Co2 quando vengono abbattuti gli alberi di rimpiazzo.
Ci vogliono decenni prima che una radura smetta di emettere più carbonio di quanto ne assorba, e secoli prima che recuperi la forza serbatoio dei fusti originali. Non possiamo permetterci di aspettare i decenni necessari affinchè queste foreste si riprendano dal taglio raso. Nelle centinaia di anni che occorrono perchè una foresta maturi, il nostro pianeta sarà proiettato verso un riscaldamento di 5 gradi C, innescando massicci eventi di siccità, pandemie e carestie. Nella British Columbia è rimasto solo il 3% degli alberi primari di fondovalle e stiamo per abbattere anche quelli. Lo stesso avviene nel resto del mondo.
Un mese dopo ha ricominciato a piovere, e l’antico cipresso madre e la sua foresta sono stati abbattuti. Le piogge sono continuate. Dopo un mese il terreno, spoglio di alberi, si è eroso, i fiumi si sono ingrossati e in alcune parti della provincia le città sono state inondate.
L’articolo della Simard si conclude con cinque proposte dirette ad evitare almeno in parte questo disastro:
- Dobbiamo smettere di convertire le foreste naturali in piantagioni industriali e campi agricoli
- Dobbiamo tutelare e ripristinare immediatamente gli ecosistemi delle foreste primarie
- Riportare le piantagioni allo stato di foreste naturali, in cui abbattere gli alberi in modo selettivo e a un tasso inferiore per preservare la biodiversità, l’approvvigionamento idrico e lo stoccaggio di Co2
- Servono politiche ambientali che mettano nella tutela dei serbatoi di anidride carbonica delle foreste la stessa enfasi posta nel prevenire le emissioni da carburanti fossili
- Dobbiamo smettere di avere una relazione distaccata con la natura, vista in termini di sfruttamento per trovare un rapporto stretto, protettivo e rigenerativo. (45)
Suzanne Dimard è anche la scienziata che per prima ha descritto e poi dimostrato con una serie di studi, che gli alberi di un bosco sono fra loro collegati e si trasmettono informazioni e sostanze, mentre fino ad allora la teoria ufficiale era che gli alberi fossero delle entità isolate in competizione tra loro per acqua, luce e cibo. Le aziende del legname piantavano file delle specie arboree più redditizie, eliminando gran parte della competizione, in un approccio in stile piantagione che non teneva conto del genio della natura e delle sue interconnessioni. La Simard con una serie di esperimenti rivoluzionari ha scoperto che gli alberi sono legati tra loro dalle cosiddette reti micorriziche: le loro radici comunicano attraverso i funghi micorrizici che le colonizzano, consentendo lo scambio di anidride carbonica, acqua e nutrienti. I funghi estraggono dalle radici degli alberi gli zuccheri che non sono in grado di produrre da soli e in cambio trasportano acqua e nutrienti alle radici e oltre, di albero in albero. La Simard ha anche dimostrato che gli alberi comunicano e addirittura collaborano tra specie, trasmettendo segnali di stress in caso di siccità o malattie, e scambiando minerali attraverso un complesso circuito che ha paragonato alle reti neurali del cervello umano. Ha anche identificato gli “alberi madre”, che fungono da fulcro di queste reti e che sono in grado di riconoscere la propria progenie a cui inviare più risorse. Quando gli anziani muoiono “scaricano” Co2 e composti di difesa nella rete, caricando nutrimento e informazioni per le generazioni future.

(Seconda parte)
La ecoregione mediteranea e le sue foreste.
Per definirla si parte da lontanissimo. Storie di dei, ma anche di popoli che si spostano, che plasmano il paesaggio con l’agricoltura e il pascolo con il fuoco, con l’uso delle risorse idriche, con il disboscamento, importando nuove specie, spostandone altre, eliminandone altre ancora. In nessun altro luogo al mondo natura, storia e cultura sono così strettamente interconnesse. Da centinaia di migliaia di anni.
A unirle, un destino comune che si chiama siccità, che caratterizza il clima mediterraneo, a causa di un forte contrasto stagionale tra il periodo estivo caldo, con una accentuata aridità, e la stagione autunnale e invernale piovosa, con temperature relativamente miti. Nel periodo secco la maggior parte delle piante e degli animali va incontro ad un deficit idrico. E questo è uno snodo cruciale. Quasi decisivo. Perchè è cosi, grosso modo, da cinque milioni di anni. Tutto questo si è tradotto infatti in resilienza. Non una resilienza qualunque, piuttosto una formidabile resilienza. Gli alberi e le foreste e più in generale gli ecosistemi del Mediterraneo hanno imparato a resistere e a sviluppare strategie di sopravvivenza anche in assenza d’acqua. A questo processo di fondo, vanno poi aggiunte le variazioni climatiche del Pleistocene, con una alternanza di periodi glaciali e brevi periodi interglaciali, che, a loro volta, hanno contribuito in modo marcato alla caratterizzazione della biodiversità mediterranea.
Il risultato è sotto i nostri occhi, con circa 25 mila specie, di cui più della metà endemiche, il bacino del Mediterraneo è il terzo “hot spot” al mondo per numero di specie vegetali. Conserva inoltre il 10% delle specie vegetali mondiali pur occupando solo l’1,6% della superficie terrestre e custodisce l’80% delle specie vegetali europee. E ancora: nel Mediterraneo sono endemiche il 48% delle specie di rettili, il 64% degli anfibi, il 28% dei mammiferi. Una biodiversità straordinaria, senza però dimenticare che 5.785 delle specie vegetali e animali presenti nel Mediterraneo oggi sono nella Lista Rossa IUCN delle specie in via di estinzione.
Si stima che prima dell’intervento umano, migliaia di anni fa, le foreste coprissero l’82% del paesaggio della regione. Oggi si fermano al 35%, con una percentuale inferiore all’uno per cento per quelle che potremmo definire “foreste antiche”, ovvero poco toccate dalla pressione antropica. Va detto che la distribuzione spaziale della biodiversità mediterranea non è ancora perfettamante conosciuta. Un problema, un focus sulle specie arboree costituisce una questione chiave per comprendere il funzionamento delle foreste e sviluppare strategie di conservazione, che è quello che ci serve urgentemente.
Tutte le foreste del Mediterraneo hanno una diversità specifica molto alta. Uno studio pubblicato nel 2019 (Frederic Medail, IMBE), ha classificato nella regione euromediterranea un numero incredibilmente elevato di Taxa arborei nativi: 245, tra cui 210 specie e 15 sottospecie, appartenenti a 33 famiglie e 64 generi diversi. Tra questi ci sono anche 30 specie e 16 sottospecie endemiche. Questo significa 200 specie e sottospecie in più di quelle presenti nella regione centroeuropea. Una enormità. In cima alla classifica della diversità arborea c’è la Spagna (155 tra specie e sottospecie, seguita da Grecia (146), Italia ((133), Albania (122), Macedonia (116), e Croazia (110). Alcune grandi isole mediterranee ospitano diversi alberi endemici, come la palma da dattero di Creta, l’abete dei Nebrodi in Sicilia e il pino laricio in Corsica.
A minacciare il Mediterraneo, oltra alla pressione diretta e indiretta esercitata da 500 milioni di abitanti, ci sono i cambiamenti climatici, con tutto quello che si portano dietro. Incendi, soprattutto. Sempre più estremi, incontrollabili, letali.
Nessuno solo venti anni fa poteva immaginare di dover far fronte a roghi che bruciano 14 mila ettari l’ora – come è ccaduto nella penisola iberica nel 2017, soprattutto in Portogallo – con una velocità da tre a nove volte superiore alla capacità di spegnimento dei mezzi antincendio. I dati di un Rapporto del WWF internazionale del 2019 sono impressionanti: nel 2017, nella regione mediterranea, sono andati in fumo quasi 900 mila ettari, pari alla superficie di un’isola come Cipro, la cifra più alta registrata dal 1985. Anche se venissero rispettati gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, le aree del Mediterraneo che bruceranno aumenteranno comunque del 40% rispetto a oggi, percentuale che potrebbe raddoppiare in caso di aumento oltre i tre gradi della temperatura media globale.

Tuttavia l’ecoregione già oggi è più calda e secca di prima e gli effetti del riscaldamento globale che stiamo sperimentando possono essere riassunti in tre punti. Il primo: alterazione dei modelli di incendio. Il modo in cui il territorio brucia e le fiamme si diffondono si è intensificato. La combinazione di lunghe ondate di calore, accumulo di siccità, bassa umidità dell’aria e venti molto forti insieme a una vegetazione molto secca e foreste molto infiammabili sono il cocktail perfetto per incendi molto più rapidi e con una virulenza mai sperimentata prima. Il secondo: periodi di rischio più lunghi e meno stagionali. Il terzo: espansione delle zone a rischio, un po’ per un uso spregiudicato del territorio e delle risorse idriche, un po’ per l’abbandono delle pratiche tradizionali di gestione forestale. (46-56)
Un tentativo di operare nella giusta direzione è costituito da MEDFORVAL, una rete internazionale di paesaggi forestali ad alto valore ecologico, nata nel 2015 e che unisce 19 aree in 12 paesi, che lavorano in modo interconnesso per migliorare la gestione, la conservazione e la qualità degli ecosistemi del Mediterraneo. Per l’Italia ne fanno parte la Valle dell’Aterno in Abruzzo, e la Riserva naturale del Cratere degli Astroni, a Napoli, con in più una presenza extraterritoriale importante in termini gestionali, come quella del Parco del Ticino, la gestione è affidata all’Oikos di Milano. (57).
Le alternative radicali. Le proposte più realistiche
Trasferire gli alberi.
Trasferire gli alberi potrebbe dare alle foreste un modo per vincere il caldo man mano che cambia il clima globale. Per molti alberi il “posto ideale, qui e altrove, sta cambiando insieme al clima della Terra. Questi larici prosperosi, infatti, non discendono dagli alberi della valle, nè dello Stato. Vengono da 457 chilometri più a sud, nell’Idaho, dove i loro antenati si sono adattati a condizioni che oggi sono comuni da queste parti: estati più calde, inverni leggermente più brevi, un diverso andamento delle precipitazioni. I larici della British Columbia, in Canada, fanno parte di un esperimento pensato per rispondere a una domanda sempre più pressante: come possiamo aiutare le foreste a stare al passo con i cambiamenti climatici causati dall’uomo? In terreni come questo, dalla California settentrionale al confine con lo Yukon, sono stati piantati alberelli nati da semi di larici e altre specie raccolti dai boschi della costa occidentale degli Stati Uniti, per sperimentare l’idea di migrazione assistita.
Vogliono scoprire fin dove occorrerà spostare le popolazioni di alberi verso nord, e in che tempi, per star dietro ai cambiamenti del clima. Le temperature globali medie sono aumentate di circa 1,1 gradi centigradi. Al ritmo attuale di emissioni, è probabile che aumentino altrettanto nei decenni avvenire. In media, a livello mondiale, le foreste possono espandere il loro areale di circa 900 metri all’anno, i nuovi alberti tendono a spingersi dove il clima è più fesco, cioè verso i Poli o a quote più alte. Per tenere il passo con i cambiamenti attuali, dovrebbero spostarsi da 6 a 10 volte più rapidamente. Nella British Columbia la disparità è ancora maggiore: uno studio del 2006 indicava che le zone climatiche della provincia si sarebbero spostate verso nord di quasi 10 chilometri all’anno. Un albero disadattato, la cui genetica corrisponde ad una diversa realtà climatica, è più suscettibile a disastri meteorologici, malattie e parassiti. Nei primi anni 2000, varie ondate di siccità hanno indebolito molti alberi. Gli inverni miti hanno permesso al coleottero del pino, un tempo tenuto a bada dai freddi intensi, di spostarsi al nord. Ogni anno, dal 1999 al 2015, sono morti milioni di alberi. Nel 2003 incendi da record hanno devastato più di 2600 chilometri quadrati di foreste della British Columbia, rese aride dal coleottero e dalla siccità. Nel 2009 le autorità forestali della British Columbia hanno dato avvio al più grande esperimento mondiale di migrazione assistita. In 48 località hanno piantato file ordinate di alberelli nati da semi di 15 specie diverse, raccolti da 47 boschi fra l’Oregon e Prince George, per un totale di 152.376 alberi. A distanza di circa 10 anni, molti degli alberi che oggi prosperano vengono da popolazioni che si trovano 500 chilometri più a sud, segno che il clima è già cambiato parecchio. I primi dati erano così impressionanti che nel 2018 l’agenzia forestale della British Columbia ha adottato ufficialmente una politica che prevede l’uso di semi provenienti da zone climatiche più calde per i 280 milioni di alberi che pianta ogni anno. L’esperimento ha violato una delle regole fondamentali della silvicultura moderna. Piantare solo specie del luogo. Oggi però questi adattamenti locali sono richiesti anche in altri luoghi. Ovunque ci saranno dei limti alla velocità con cui le foreste possono adattarsi. Dato che nessuno propone di abbattere boschi sani, si possono fare progressi solo piantando su terreni disboscati o bruciati. Al ritmo attuale la provincia non riuscirà a sostituire tutte le foreste abbattute prima di 80 anni. E anche allora i nuovi alberi potranno tutt’al più stare al passo con il clima.

Piantare più alberi, senza esagerare.
In un esperimento realizzato in Brasile, una piantagione di eucalipti, non nativi, piantati in righe perfette come carote, viene curata per il successivo taglio per ricavarne carta o paletti; accanto una foresta naturale, a crescita lenta. Disordinata e caotica. I guadagni realizzati con la prima area permettono di coprire in parte i costi di piantumazione della seconda, che poi progredisce e si espande senza limiti di tempo e senza cure particolari. Intanto nel mondo si moltiplicano le iniziative che cercano di salvare il mondo piantando alberi. Ad esempio, c’è la Bonn Challenge lanciata dal governo tedesco e dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, che punta a ripristinare 350 milioni di ettari di foresta entro il 2030. Ci sono stati anche dei fallimenti clamorosi, in Turchia, Sri Lanka e Messico. Gli alberi piantati nei luoghi sbagliati hanno ridotto le risorse idriche per gli agricoltori, distrutto suoli di praterie ad alta varietà di specie che sequestravano Co2 o che provocavano la diffusione di specie invasive. Inoltre il rimboschimento del pianeta non può sostituirsi all’abbattimento delle emissioni di carbone, petrolio e gas. Inoltre gli alberi piantati non possono sostituirsi alle foreste primarie, mentre salvare queste ultime è più importante del far crescere nuove foreste. Inoltre, anzichè piantare migliaia di miliardi di alberi, sarebbe meglio assicurarsi che saranno ancora vivi “nel giro di 20 anni”. Quindi le alternative sono chiare. Ripristinare la foresta nativa, specie ai tropici, dove gli alberi crescono in fretta e la terra costa poco. Inoltre le operazioni di ripristino forestale devono creare valore per le comunità locali. Infine un esperto afferma: “Se lasciamo il grosso del lavoro alla natura, la foresta può rigenerarsi molto efficacemente”. (113-117)
La scienza può creare alberi più resistenti, modificando il loro Dna. Ma è davvero giusto farlo?
Negli Stati Uniti, negli Appalachi, nel corso del Novecento, sembra ne siano morti 4 miliardi dei castagni americani, dei latifoglie che potevano raggiungere i 30 metri di altezza e i tre di diametro. Morirono a causa di un fungo asiatico importato per caso alla fine dell’ 800. E fu una anticipazione di altri disastri futuri. Gli scienziati, più di recente, affermano di aver modificato il dna del castagno per renderlo resistente a quel fungo. Però dopo oltre trenta anni di incroci, oggi gli scienziati ritengono che la resistenza a questa malattia risieda in almeno nove regioni del genoma del castagno, il che rende piuttosto difficile il lavoro di ibridazione. Quindi la vera domanda è: qual’è la combinazione giusta dei geni? Inoltre gli incroci richiedono molte nuove generazioni per compiere progressi, e ogni generazione richiede anni per crescere. Inoltre gli Stati Uniti hanno norme molto severe sugli organismi geneticamente modificati e quindi le ricerche in corso potrebbero incontrare ulteriori difficoltà (118-123)
Una nuova soluzione viene dalla Germania: non tocchiamo le foreste e lasciamo che la natura si curi da sè.
Una famiglia nobile possedeva due foreste nel cuore della Germania. Ma una notte di febbraio del 1990 l’uragano Wiebke si abbattè sulla zona con venti a oltre 200 chilometri orari, devastando le colline boscose. Usciti la mattina dopo, nonno e nipote entrarono nelle loro foreste. Centinaia di maestosi pecci di 40 anni di età giacevano abbattuti. Si pose quindi il problema di come intervenire. L’episodio non è rimasto isolato. Nel 2018 l’Europa centrale ha vissuto quattro anni consecutivi di siccità o di temperature insolitamente elevate. In Germania le infestazioni di “bostrico tipografo” hanno decimato migliaia di ettari di pecci. Una possibilità era quella di piantare alberi, sostituendo quelli perduti con altri simili. È però emersa anche un’altra posizione, sostenuta da un gruppo di proprietari di foreste (dove era presente anche un membro della famiglia nobile sopra citata), che hanno adottato la cosiddetta “silvicoltura naturalistica”, un approccio di minimo intervento in cui si evita di piantare alberi laddove possibile, limitandosi perlopiù alle specie autoctone. Lo scopo è quello di replicare gli ecosistemi delle foreste naturali lasciando a terra il legno morto e abbattendo in maniera selettiva soltanto gli alberi più maturi. Dopo la seconda guerra mondiale i boschi di tutta la Germania vennero tagliati per aiutare a ricostruire le città danneggiate dalla guerra in altri paesi europei. Per ricostruirle, negli anni ’50 i forestali piantaronno milioni di alberi, perlopiù pecci. Fu l’inizio di una fiorente industria silvicola. Oggi il legname e i suoi sottoprodotti sono un business da 150 miliardi di dollari l’anno e che dà lavoro a più di 700 mila tedeschi. Attualmente un terzo del paese è ricoperto di alberi. Dopo la siccità e i parassiti, il governo tedesco ha stanziato oltre un miliardo e mezzo di euro destinati ai proprietari di foreste, per rimuovere gli alberi abbattuti dal bostrico e ripiantarne altri. Per alcuni sostenitori della “silvicultura naturale” ovviamente si tratta di un errore. Altri suggeriscono che con l’accelerazione del cambiamento climatico è bene considerare anche l’idea di piantare più specie resistenti alla siccità provenienti da altre zone. (124-125)

Testi e iniziative recenti relativi alle foreste
Uno degli impegni di più alto profilo della Cop 26 tenutasi a Glasgow era stata la promessa solenne di azzerare la deforestazione entro il 2030. Ci sono solo otto anni per fermare il sacheggio delle foreste tropicali e il calo dovrebbe quindi niziare subito. Ma la realtà è molto diversa da quella che viene raccontata ai vertici internazionali. L’ultima edizione del rapporto del World Resources Institute, considerata la fonte più attendibile sulla deforestazione, riporta che nel 2021 il mondo ha perso altri 11,1 milioni di ettari di foreste tropicali, al ritmo incredibile di dieci campi di calcio ogni minuto. Secondo Global Forest Watch il 96% della deforestazione globale avviene ai tropici. L’aspetto più preoccupante è che un terzo di queste foreste distrutte erano primarie, le più preziose sia per lo stoccaggio di carbonio dall’atmosfera che per la protezione della biodiversità. Al primo posto il Brasile, al secondo la R.D. del Congo, al terzo la Bolivia. Una buona notizia proviene dall’Indonesia, che per il quinto anno consecutivo ha ridotto drasticamente la sua perdita di alberi, che nel 2021 è del 21% inferiore a quella del 2020. Anche le coltivazioni per la produzione di olio di palma sono in fase di riduzione, ma questa buona notizia potrebbe essere cancellata a causa della guerra in Ukraina, importante produttore di olio di girasole, poichè i mancati raccolti potrebbero spingere le vendite di olii alternativi. Anche per le foreste boreali è stato un anno duro: la perdita di copertura arborea del 2021 rispetto al 2020 è stata del 29%. A causa della crisi climatica, infatti, il 2020 è stato l’anno nero degli incendi, con epicentro negli Stati Uniti occidentali e soprattutto in Siberia. In Russia nel 2021 sono stati divorati dagli incendi 6,5 milioni di ettari. (Fonte: articolo su “Domani” del primo maggio, pag.6)
“L’IKEA ha fame di alberi”, L’enorme domanda di legname per mobili a basso costo contribuisce ad alimentare l’abbattimento illegale delle più grandi foreste primarie europee. Il fenomeno è particolarmente grave in Romania. L’articolo, pubblicato su Internazionale (n. 1463, 3 giugno 2022, da pag 46 a 54). descrive con il massimo dettaglio una serie di visite a posti sicuramente illegali di estrazione dei tronchi e tutti i meccanismi per far pervenire enormi quantità di legname alle aziende Ikea per la produzione di mobili. Una sintesi è praticamente impossibile, ma il complesso meccanismo di acquisizione, in larga parte illegale, da parte dell’azienda di legni pregiati è descritto e documentato in ogni passaggio.
La casa editrice di Internazionale ha poi lanciato una iniziativa a favore delle foreste, annunciando di voler piantare 100 mila alberi, uno per ogni abbonamento alla rivista.
B. Cucinelli racconta il progetto di riforestazione e aiuto alle comunità locali, in collaborazione con Carlo d’Inghilterra e la sua Sustainable Market Initiative. (Fonte. Liberi Tutti, su il Corriere della Sera del 21 maggio 2022, pag. 33). Interessa soprattutto gli artigiani che lavorano per la moda, ma prevede anche viaggi in Himalaya.
Su Io Donna del 13 novembre 2021 appare la notizia della prima piantumazione di alberi al Parco Nord di Milano. C’è un sito: Forestami.org per inviare donazioni per creare un nuovo bosco con alberi tipici della Pianura Padana. L’obiettivo è piantare tre milioni di alberi e si inizia con la rinaturalizzazione di una area industriale abbandonata. La stessa fonte (23 aprile 2022, pag. 26) cita un altro intervento di piantumazione alla ex fabbrica Bracco, a Cesano Maderno, vicino Milano.
Il 18 maggio 2022 il Corriere della Sera, pag. 23, descrive una nuova Fondazione che ha come obiettivo la piantumazione record di 60 milioni di alberi, sempre connessa a Forestami.org
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