A noi di Comune, lo abbiamo confessato più volte, non convincono sempre i richiami di momenti storici complessi e lontani nel tempo quando si cerca di raccontare, riconoscere e soprattutto contrastare violenze e gravi discriminazioni. Meglio qualche surreale racconto – come questo proposto da Paolo Moscogiuri – ambientato contemporaneamente nel nostro tempo e negli anni Trenta. Un testo per ragionare su come la tranquillità provocata dal sentirsi appartenente al pensiero dominante sia sempre instabile e può lentamente trasformarci perfino in capri espiatori di comportamenti reazionari. Il protagonista del racconto è il signor Luigi Percento, figlio di un commissario di polizia, mite e un po’ ansioso impiegato amante del lavoro statistico
Qui il racconto in un file audio (voce di P. Moscogiuri):
IL QUESTIONARIO
Figlio di un commissario di polizia, Luigi Percento, aveva ereditato dal padre un carattere indagatore e curioso; per questo, aveva accettato ben volentieri di occuparsi del “Questionario”: una ricerca di mercato sulle abitudini dei consumatori. Due pagine fitte di domande, divise in sezioni: casa, tempo libero, auto, ecc., legate a un concorso a premi per incentivarne la partecipazione.
Luigi, che da otto anni svolgeva questo lavoro, conosceva bene la psicologia del consumatore ed era diventato abilissimo a farlo rispondere anche su questioni personali, come l’igiene intima o le abitudini sessuali. Ma nonostante tutto, negli ultimi tempi, il ritorno dei “Questionari” spediti era notevolmente diminuito; di conseguenza, se il “Questionario” era a rischio, lo era anche il suo lavoro; e questo preoccupava molto Luigi Percento che, se per un verso aveva un carattere curioso e indagatore, per l’altro era estremamente indeciso e bisognoso di riferimenti che lo guidassero; di direttive e, qualche volta, di ordini più che di consigli. Notti insonni lo attendevano al varco, e più passava il tempo più lo stress per la preoccupazione del suo posto di lavoro aumentava. Per evitare il peggio aumentava anche l’impegno; ormai non usciva dall’ufficio se non a tarda sera.
Comunque, il nuovo questionario era pronto e mancava solo di spedirlo e sperare nel suo buon esito. Lo aspettava poi, un lungo e complesso lavoro statistico per trasformare le risposte in diagrammi e percentuali numeriche.
L’immissione delle risposte nel sistema computerizzato veniva fatta da service esterni. A Luigi Percento, aspettava invece, come abbiamo detto, la loro trasformazione in valori statistici. Ed era questo il lavoro che svolgeva oggi, con l’ansia di vederne i risultati. Ansia, che si trasformò ben presto in incredulità, quando lesse che il 90% degli italiani si lavava con il sapone Marsiglia; faceva colazione con latte e polenta, latte e castagne bollite, caffè d’orzo o di cicoria; andava a lavoro in bicicletta; solo il 5% possedeva il telefono in casa; nessuno rispose alle domande sul possesso della TV, di un HI-FI, di un telefonino o di un computer.
Qualcuno sottolineò che possedeva una macchina fotografica, altri la cucina economica. In un questionario, il compilatore ci tenne a precisare che la sua auto era fornita di “tenore elettrico”; forse un clacson? E ancora: solo il 10% aveva il bagno in casa, gli altri utilizzavano la latrina condominiale se cittadini, e buche in campagna se contadini. Pochissimi scrissero di avere una casa di proprietà e la quasi totalità era in affitto per un costo medio di 200 lire. Di aria condizionata neanche a parlarne e per il riscaldamento si rispondeva con: “stufa a legna”. Non parliamo poi dell’abbigliamento, perché qui i risultati erano davvero incomprensibili. Si scriveva di tessuti con nomi stranissimi come il “cafioc” o il “lanital”, il raion o la salpa.
Ripresosi dallo sconcerto, telefonò al service per capire quale immane errore era potuto accadere per avere quei dati disastrati. Ma alle 11 di mattina non rispondeva ancora nessuno. Non gli rimaneva che provare e riprovare a interrogare il computer; ma il risultato fu sempre lo stesso. Era una situazione veramente surreale. Poteva capire un errore, una svista su qualche dato, ma il quadro che usciva fuori dal “Questionario” era uno spaccato della società del 1930 o ‘40, e non di quella attuale.
Decise allora di andare dal suo capoufficio per far presente la situazione. Bussò alla porta, e nell’aprirla ebbe la sensazione che questa fosse di piombo per quanto era pesante. Il responsabile, alla vista di Luigi, alzò il braccio destro con la mano aperta, in un atteggiamento di attesa; come se si aspettasse che anche lui facesse la stessa cosa. Luigi stava per salutare con un ciao, dato che si davano del tu, ma non fece in tempo a parlare, perché questi con voce autoritaria lo invitò a sedersi:
“Venite avanti Percento; sedetevi!… Come va la nostra indagine sull’uso dei prodotti autarchici!?… Spero che sia a buon punto!… Voi sapete che mercoledì prossimo il Prefetto di Roma verrà a farci visita, per poi riferire direttamente a …Lui!? Mi aspetto perciò una relazione completa ed esaustiva, ma… soprattutto, che esalti la bontà dei prodotti autarchici, e il gradimento degli italiani… Ditemi allora; non ve ne state lì imbambolato come una mammoletta… Ma, Percento! Perché non portate sulla giacca, lo stemma littorio?
Luigi in questa raffica di domande e autorisposte fuori luogo e fuori tempo, aveva cercato di inserirsi più volte, ma, frastornato e intimorito dal tono del capoufficio, non ci riuscì. E questi proseguì:
“Insomma! Percento, Voi mi state facendo perdere tempo!… Tornate alla vostra scrivania, rimettete i manicotti oltre allo stemma, che spero non abbiate perso, e, finite di scrivere i risultati della nostra indagine!… E mi raccomando, non usate quel brutto pennino a taglio sinistro, che lascia sbavature e macchie di inchiostro!… Andate, Andate, non fatemi più perdere tempo!”.
Luigi, che non sapeva cosa fare e dire, uscì dalla stanza; e questa volta la porta non pesava più come il piombo, anzi era leggera come una piuma. Il corridoio, che lo riportava al posto di lavoro, era stranamente cambiato, pieno di cassettiere di legno, che assorbivano parte della poca luce proveniente dai sovrapporta in vetro, rendendolo buio e tetro. Entrato nella sua stanza, non trovò più il computer sulla scrivania, ma una montagna di scartoffie, un quadernone rilegato, un calamaio, un barattolo di colla “Coccoina”, un tampone con carta assorbente e una penna da bella calligrafia.
La scrivania somigliava a una cattedra; tutta di legno, chiusa sul fronte e con due cassettiere ai lati. Sul ripiano una incerata nera. Al posto della sua comoda poltrona anatomica con braccioli e schienale ribaltabile, trovò una sedia di legno del tipo che oggi si vende nei mercatini vintage.
Frastornato e incredulo si sedette per non cadere a terra, guardò uno ad uno i pochi oggetti sul ripiano della scrivania, compresa la foto in bianco e nero della sua famiglia, che ritraeva il figlio maschio vestito da marinaretto e la femmina con gonna al ginocchio, sandali e calzini e un enorme fiocco rosa in testa; la moglie con tailleur, cappello a tesa larga, e una rigida borsetta tenuta sottobraccio. Poi, come in un film al ralenti, alzò lo sguardo e iniziò a osservare i suoi colleghi. Tutti indistintamente tenevano una sigaretta in bocca, alcuni accesa altri spenta, e il fumo nella stanza era più denso della nebbia in Val Padana, ma nessuno sembrava farci caso o provare fastidio.
Bruno, il collega di fronte, disse a Oreste: “oggi è sabato, e usciamo all’una. Ci vediamo per le esercitazioni?”; ma passò il capoufficio, con le mani dietro la schiena, e tutti abbassarono lo sguardo, e Oreste non rispose.
Luigi, non capiva quello che gli stava succedendo, ma aspettò l’ora di uscita, leggendo e rileggendo tutte quelle scartoffie sul tavolo. Fuori dall’ufficio, per poco non venne travolto dai colleghi che si affrettavano a salire sulle proprie biciclette, dopo aver pinzato i pantaloni con mollette da bucato. Una voce gridò: “ueh, Percento, ma dove vai, la tua bicicletta è lì affianco al portone! Ci vediamo al dopolavoro?”.
Luigi, guardandosi attorno con aria furtiva, prese la bicicletta indicata e si avviò incredulo verso casa.
Aperta la porta, la voce della moglie gli ordinò di mettere le pattine ai piedi, perché aveva appena passato la cera. I figli gli andarono incontro, e dandogli del Voi, il maschio gli mostrò, orgoglioso, la sua nuova automobilina di latta con il pilota e le ruote stampate, e la femmina la bamboletta di celluloide.
Non sapendo quale fosse il sogno e quale la realtà, ma sentendosi stranamente rilassato e privo delle sue ancestrali ansie, strinse forte la moglie e la baciò alla ricerca di un segno di verità; ma questa tirandosi indietro disse: “caro, ma sei impazzito! non davanti ai bambini!“.
Si sedette alla tavola apparecchiata, e la moglie gli versò un brodino, scusandosi se era un po’ insipido, ma aveva finito l’estratto di carne e aveva dovuto usare l’Italdado. Durante il pasto, la moglie si lamentò dei prezzi degli alimenti, sempre più cari: la carne era arrivata a ben 13 lire il chilo, e anche se avesse voluto risparmiare con la “polpa famiglia”, questa ne costava comunque 8; che il caffè vero era ormai inavvicinabile e che tutte le sue amiche avevano la “serva”, e che lei da sola non ce la faceva più a tirare avanti, e che erano due anni che non si comprava più un cappellino nuovo e la modista aveva perfino rinunciato a rinnovargli quello che aveva. In fin dei conti per aumentare le entrate un metodo sano e semplice lui sapeva qual era. Il governo dava in prestito fino a 3.000 lire, da restituire all’1% al mese, ma se avessero avuto altri figli, alla fine la restituzione sarebbe diventata irrisoria o nulla.
Finito il pranzo, Luigi disse di non sentirsi bene, e se ne andò a dormire per verificare al risveglio se il “sogno” che stava vivendo fosse terminato. Così non fu. E allora sperò nel giorno dopo: domenica 19 giugno 1938, XVII anno dell’era fascista, secondo il calendario del giovane Balilla, appeso in cucina. E il giorno dopo venne e nulla era cambiato.
Ormai si stava convincendo di aver sognato quello strano ufficio con la macchina che divorava dati e disegnava diagrammi e numeri; il capoufficio poi che gli dava del tu davanti a tutti, quando da ormai quattro mesi quella maniera poco virile di relazionarsi era stata abolita; così come la stretta di mano.
Si affacciò al balcone e notò un’aria di festa; non solo per le bandiere appese ovunque, ma per l’atmosfera di attesa che campeggiava nelle strade e sui volti della gente. Cercò istintivamente, quello strano apparecchio, che forse aveva sognato, dove si vedevano immagini e suoni, come al cinema. Non lo trovò, e allora accese l’enorme radio poggiata sul buffet della camera da pranzo. Il suono non si udì subito, ma dopo qualche secondo; dapprima un ronzio sembrava annunciare che lo strumento si stava “riscaldando”, come le prove nei concerti, poi ne uscì una trascinante marcia militare; dopo qualche istante, uno speaker annunciò la lettura delle notizie del giorno. Parlò dell’importanza della cinematografia italiana e dello sforzo del regime per contrastare lo strapotere di Hollywood, con la costruzione degli stabilimenti di Cinecittà. Il centro cinematografico romano, ormai in funzione da un anno, aveva già in produzione ben 79 film per l’anno prossimo; poi un riferimento orgoglioso sulla creatività italiana che aveva permesso nel 1937, la produzione di film come Scipione l’africano, con la quale il genio italico stava facendo buona mostra di sé.
Dopo altre brevi notizie sul fasto del regime, lo speaker ricordò che alle ore quindici, si sarebbe giocata a Parigi, allo stadio olimpico De Colombes la finale dei mondiali di calcio fra l’Italia e l’Ungheria. Arbitro, il francese Capdeville. Dopo aver elencato i nomi dei giocatori delle due squadre, l’annunciatore ricordò che l’Italia aveva già vinto il campionato nel 1934 e che lo avrebbe sicuramente rivinto anche quest’anno.
La mattina passò velocemente, e dopo un pasto frugale, Luigi e il figlio si sedettero di fronte alla radio per aspettare la radiocronaca della partita, la moglie e la figlia in cucina lavavano i piatti. Loro erano fortunati a possedere un apparecchio radio, anzi la “Radiobalilla”, che il Duce aveva voluto si diffondesse in tutta Italia: città e campagna, scuole e locali pubblici; portando i prezzi ad abbassarsi dalle 3.000 lire del 1929 a solo 430 lire. Avevano comunque dovuto fare un pagamento rateale, ma ne valeva la pena, non solo per ascoltare buona musica, le notizie del “Giornale Parlato”, e il segnale orario, ma anche perché la radio rappresentava un momento di raccoglimento famigliare e spesso occasione per invitare amici e parenti ad ascoltarla.
Predispose la radio sulle onde corte, visto che la radiocronaca veniva addirittura da oltre le Alpi. Ore 15. Sovrapposta alla sigla dell’E.I.A.R.(Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), la voce del radiocronista inviò saluti fascisti a tutta l’Italia; ricordò che questa radiocronaca era possibile grazie al genio italico di Guglielmo Marconi, deceduto l’anno prima, e grazie all’installazione di sei nuovi trasmettitori nel Centro Radiofonico a onde corte di Prato Smeraldo. Poi, con voce rotta da un nodo alla gola, mentre ora s’innalzava l’inno di Mameli, lesse i nomi dei nostri valorosi atleti: Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Meazza (detto Balilla), Ferrari, Biavati, Colaussi, Piola; allenatore: il sig. Pozzo Vittorio.
In realtà insieme all’inno di Mameli si udiva un rumore di sottofondo, come fischi; ma si sa in onde corte le interferenze sono tante.
Man mano che la partita si svolgeva, Luigi si rendeva conto di dare meno importanza al terribile fatto accaduto il giorno prima. Erano la delusione di fronte ai gol di Titkos all’ottavo minuto, che portava l’Italia a pareggiare 1 a 1, e l’euforia delle reti di Colaussi e Piola che faceva finire il primo tempo con un insuperabile 2 a 1, a essere veri in quel momento. Ancora una rete per l’Ungheria e due per l’Italia nel secondo tempo, e l’Italia fascista era campione del mondo per la seconda volta! Era questo che importava. In realtà lui non era stato mai un grande tifoso, ma ora quella vittoria che lo aveva legato fortemente per 90 minuti a tutti gli italiani in festa, gli aveva fatto comprendere come nessun “Questionario” avrebbe mai potuto calcolare la percentuale statistica dell’amor patrio.
Tornò così più sereno al lavoro, il giorno dopo. Le sue ansie erano scomparse del tutto, e, sogno o realtà questa organizzazione sociale era fatta per lui. Si sentiva più sicuro, più protetto, più uomo. Si infilò i manicotti neri, si appuntò lo stemma littorio alla giacca e si mise di buona lena alla stesura dell’importante rapporto statistico, per “misurare” il gradimento dei prodotti autarchici.
Passarono alcuni mesi, nei quali partecipò ben volentieri alle attività del Partito a cui si era orgogliosamente iscritto; finché un giorno dell’autunno di quello stesso anno, mentre sfogliava il suo quotidiano preferito, lesse:
- “Nasce una nuova rivista: “La difesa della razza”. Il partito fascista ne raccomanda la diffusione ai segretari federali.”
- “Il Consiglio dei Ministri delibera il divieto agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei possedimenti dell’Egeo.”
- “Su proposta del Ministro Bottai, gli ebrei sono esclusi dall’insegnamento nelle scuole statali ed è loro vietata l’iscrizione.”
- “Proibiti i matrimoni degli italiani di “razza ariana”, con i cittadini di altra razza.
Luigi alzò lentamente lo sguardo dal giornale per fissare un punto nel vuoto; la fronte si imperlò di goccioline di sudore, e il cuore aumentò i battiti; la saliva si prosciugò e fece fatica a deglutire. D’un tratto tutte le sicurezze acquisite e la virilità ritrovata, svanirono come il fumo della sigaretta che spense per errore sul palmo della mano: lui era ebreo.
Nel pomeriggio fu chiamato dal capoufficio. Aprì la porta, e stava per alzare il braccio a mano tesa, quando il capo lo bloccò dicendo: “No, Percento, non offendete ideali che non vi appartengono! Riempite il questionario sulla scrivania e firmatelo per consenso informato.”
Luigi, in piedi, poiché il capo non lo aveva nemmeno invitato a sedere, e con mano tremante, mise le crocette sui quadratini, corrispettivi a domande riguardanti la religione professata, i possedimenti di famiglia, e altre sui parenti prossimi e amicizie e luoghi frequentati. Tornato alla scrivania, si tolse i manicotti e la spilla con il fascio littorio, prese la borsa con il porta pranzo e uscì definitivamente dall’ufficio.
Nel tragitto che lo riportava a casa, vide numerose auto dai mille colori, persone frettolose con i telefonini incollati alle orecchie, ragazzi su monopattini elettrici che sfrecciavano dappertutto, e a casa ritrovò il suo indispensabile computer. Luigi era così finalmente tornato nel suo tempo.
Erano passate alcune settimane da quel suo incubo del quale non seppe mai darsi spiegazione; ma sogno o realtà aveva compreso che la tranquillità che può dare il sentirsi appartenente al pensiero dominante è sempre instabile e può lentamente trasformarci in capri espiatori di progetti reazionari; e non avrebbe mai più sottovalutato l’importanza della difesa delle minoranze, di qualsiasi natura queste fossero: etniche, religiose, di genere o politiche, perché se la dignità, anche di una sola persona viene umiliata con l’approvazione della maggioranza, allora è l’intera società ad essere sconfitta.
paolo moscogiuri dice
Grazie alla redazione di Comune-info per la pubblicazione sia del racconto scritto che in audio. Mi scuso con i lettori per la dizione non proprio professionale (ho fatto del mio meglio), ma ci tenevo, essendo questo racconto dedicato a tutte le minoranze di qualunque natura esse siano; e quindi non potevo lasciare fuori i non vedenti, lottando da più di 30 anni contro le barriere architettoniche, sensoriali e cognitive. Spero anzi che altri seguano il mio tentativo di inclusione.
maomao comune dice
Grazie a te, Paolo, per il regalo che ci hai fatto, e anche per l’audio che è una bella variante, peraltro dettata da una cura e un’attenzione specifica molto più che lodevoli nei confronti di chi legge e chi ascolta, in modo particolare se non vedente
Paolo Moscogiuri dice
???
Maurizia dice
Bellissimo racconto, molto descrittivo che rispecchia una società confusa, quella attuale, in cui l’individuo non riesce, realmente, a riconoscere se stesso.
Juana dice
Racconto surreale. Ma anche no. Una storia che ci riporta al passato. O riporta il passato ai giorni nostri, dove tutti sembrano aver perso la memoria. E una novita: versione audio.