La speranza, il grido, il dominio del denaro, la dignità sono alcuni dei temi al centro di questa conversazione tra Salvador López Arnal con John Holloway (pubblicata sulla rivista spagnola El Viejo Topo e Rebelion). «Gaza: impossibile non gridare quando vediamo ciò che sta succedendo. I migranti annegati nel Mediterraneo: impossibile non provare dolore, impossibile non provare rabbia, impossibile non sentire che “il mondo non deve essere così”. Impossibile non pensare che forse tutti gli orrori che vediamo e che subiamo sono intrecciati… Questo è il grido. Il grido è una domanda, sta cercando un’eco, vuole risuonare… E importante capire che il capitalismo non è soltanto una società ingiusta e sbagliata, ma che ha una dinamica e questa è una dinamica distruttiva che rischia di condurre la nostra specie all’estinzione. È questa dinamica distruttiva quella che bisogna fermare. Già ci sono milioni e milioni di persone che provano a fermarla: provano a fermare la distruzione della biodiversità, provano a fermare il cambiamento climatico, provano a fermare lo sfruttamento dei combustibili fossili, provano a salvare i migranti nel mar Mediterraneo, lottano contro l’apertura delle miniere a cielo aperto… Tutte queste lotte hanno una grande importanza, un’enorme importanza, però in molti casi non producono effetti concreti… Le lotte per fermare il treno, per arrestare la distruzione, sono lotte particolari, inevitabilmente, però il problema è che c’è una forza molto potente dietro la distruzione: il dominio del denaro, del profitto. Per fermare il treno della distruzione, bisogna rompere il dominio del denaro… La speranza è l’idea dell’Ancora no, l’esistenza attuale di quello che ancora non esiste, ma che esisterà o che perlomeno potrebbe esistere. Per parlare della possibilità di creare un’altra società, dobbiamo partire dalla sua esistenza iniziale come rifiuto, come lotta, come sogno, come nostre creazioni di forme distinte di vivere. La forza della speranza rivoluzionaria dipende in sostanza dalla forza attuale di questo Ancora no, dalla forza attuale di fare comunità. Il difficile è che questo Ancora no è spesso invisibile. In parte perché le nostre lotte non appaiono sui giornali, in parte perché sono tanto piccole che perfino noi non ci accorgiamo della loro esistenza. Ma queste lotte indeboliscono la riproduzione del capitale…»
John Holloway, sociologo e filosofo marxista, ha sviluppato il suo pensiero avvicinandosi al movimiento zapatista. Nato a Dublino vive in Messico dal 1991, dove è professore dell’Università Autónoma di Puebla. I suoi ultimi libri pubblicati sono: Cambiare il mondo senza prendere il potere, Crack capitalism e La sperenza. In un tempo senza speranza (in Spagna pubblicati pubblicati tutti dalla rivista/casa editrice El Viejo Topo). Concentriamo la nostra conversazione sull’ultimo libro.
Il suo ultimo libro, tradotto da Pedro Horrach Salas, lo dedica alla sua memoria, è un omaggio a Il principio speranza di Ernst Bloch?
Sí. La speranza è molto importante, per me, suppongo lo sia per tutti. Sicuramente lo è per tutti i lettori di El Viejo Topo. Il mondo non deve essere così, non deve generare tutta questa sofferenza, devono esistere altri mondi. Probabilmente è stato per questo che, mentre finivo di laurearmi, ho cominciato a leggere Bloch e Il principio speranza prima di leggere Marx, e me ne sono subito appassionato. Che bellezza! Che meraviglia vedere il mondo attraverso la speranza, attraverso la sete incessante di un mondo migliore! Per quello ho incluso Bloch fra i ringraziamenti del libro. Vorrei esprimere questo riconoscimento anche verso i morti. Questo non vuol dire che il libro segue le orme di Bloch, va in un’altra direzione.
Verso quale direzione?
Adesso non ci troviamo nel contesto dei partiti comunisti, non abbiamo la stessa fiducia in un lieto fine. Quello che mi rimane come idea principale è l’idea dell’Ancora no, l’esistenza attuale di quello che ancora non esiste, ma che esisterà o che perlomeno potrebbe esistere. Per parlare della possibilità di creare un’altra società, dobbiamo partire dalla sua esistenza iniziale come rifiuto, come lotta, come sogno, come nostre creazioni di forme distinte di vivere. La forza della speranza rivoluzionaria dipende in sostanza dalla forza attuale di questo ancora no, dalla forza attuale di fare comunità. Il difficile è che questo ancora no è spesso invisibile. In parte perché le nostre lotte non appaiono sui giornali, in parte perché sono tanto piccole che perfino noi non ci accorgiamo della loro esistenza. Ciò che sostengo nel libro è che queste lotte indeboliscono la riproduzione del capitale.
Lei dice che la speranza nasce dal grido, non dall’assenza. Che grido è il suo? Con chi lo condivide?
Gaza: impossibile non gridare quando vediamo ciò che sta succedendo. I migranti annegati nel Mediterraneo: impossibile non provare dolore, impossibile non provare rabbia, impossibile non sentire che “il mondo non deve essere così”. Impossibile non pensare che forse tutti gli orrori che vediamo e che subiamo sono intrecciati, che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nell’organizzazione sociale attuale. Questo è il mio grido. Con chi lo condivido? Non lo so, il grido è una domanda, sta cercando un’eco, vuole risuonare. Però suppongo che tu lo condividi dato che mi stai intervistando.
Lo condivido.
E suppongo che anche i lettori di questa intervista lo condividano. Credo che è parte del mondo capitalista, di un mondo che ci aggredisce senza sosta, di un mondo che dipende dalla sottomissione ogni volta più pesante della vita umana e non umana alla sua logica. Il grido è semplicemente la resistenza della vita.
UN ESTRATTO DEL LIBRO “LA SPERANZA” DI JOHN HOLLOWAY:
Chi sono i destinatari del suo libro? A chi ha pensato mentre lo scriveva? Filosofi, sociologi, in generali membri del corpo accademico?
Ho pensato a tutti noi che gridiamo “Adesso basta!” a tutti noi che vogliamo cambiare il mondo, che siamo sociologi, tassisti, lavoratori, studenti. Qualunque cosa siamo.
Parla di una trilogia che iniziò con Cambiare il mondo senza prendere il potere continuò con Crack capitalismo e con il suo nuovo libro. Qual è il filo conduttore della sua trilogia?
Il filo conduttore è come pensare alla rivoluzione oggi. Dopo i disastri del secolo scorso, esiste ancora la possibilità di una rivoluzione anticapitalista? Cosa significherebbe? È chiaro che la rivoluzione, per dire, il superamento del capitalismo, è necessaria e urgente, però non sappiamo se è possibile. L’argomento del primo libro, Cambiare il mondo senza prendere il potere (2002) è che il mondo non può cambiare in maniera radicale attraverso la struttura dello Stato. Lo Stato è una struttura talmente integrata all’interno delle relazioni sociali capitaliste che è impossibile che sia un mezzo per rompere queste relazioni. Questo libro ha suscitato molte polemiche in tutto il mondo.
Qui da noi in Spagna, ad esempio.
Il secondo libro, Crack capitalism (2010), cerca di rispondere a una domanda inevitabile: “Se non attraverso lo Stato, allora come?”. La risposta è che dobbiamo riconoscere che in ogni momento stiamo creando spazi o momenti o attività che rompono, in modo consapevole o non, la logica del capitale, il dominio del denaro. Sono crepe nella struttura della dominazione, che vanno da grandi movimenti come il movimento zapatista o la Rojava, dove la gente sta creando forme di convivenza che rompono il capitale, a crepe di medie dimensioni come i centri sociali e a piccole crepe laddove semplicemente rifiutiamo che il denaro sia il fondamento delle nostre vite. Sono sicuro che tutti noi possiamo pensare a molteplici esempi che conosciamo. L’unico modo in cui riesco a visualizzare la rivoluzione è in termini di riconoscimento, creazione, espansione, moltiplicazione e confluenza di queste crepe. Nel nuovo libro, La speranza in un tempo senza speranza, ammetto che da dieci anni i tempi sono senza speranza, però ne deduco che è più importante che mai pensare non dalla dominazione ma dalla lotta e dalla speranza. Pensare la speranza è pensare la forza attuale di questo mondo che ancora non c’è, ma che potrebbe esserci. Questa forza si vede nelle lotte attuali che esistono da tutte le parti, ma si percepiscono anche dal danno che queste lotte arrecano all’interno del nemico, per dire, all’interno del mondo del denaro. La nostra forza si esprime con la crescente fragilità del denaro e del sistema.
Dal suo punto di vista, senza un concetto del capitale, non c’è modo di pensare la speranza. Qual è il suo concetto di capitale?
Parto dall’idea di coesione sociale. Qualsiasi società ha sintesi o coesione sociale, delle forme prestabilite di convivenza. Nel Capitale, Marx analizza e critica l’attuale coesione sociale, che ha come come caratteristica principale il fatto che la gente si relaziona (e relaziona le proprie attività) tramite lo scambio dei propri prodotti come merci. Non è la forma esclusiva con la quale ci relazioniamo, però è di sicuro quella dominante. Questo modo di relazionarci crea una struttura sociale con una sua specifica dinamica. Nonostante che in apparenza sia uno scambio tra uguali, Marx dimostra che è una coesione sociale conflittuale basata sullo sfruttamento, uno sfruttamento che si manifesta attraverso la mercantilizzazione della forza del lavoro. Questo conflitto basato sullo sfruttamento, e pertanto sulla lotta, genera una dinamica nella società, una dinamica che Marx riassume nella frase lapidaria: “Accumulate! Accumulate! Così dicono Mosè e i profeti”. Il carattere distruttivo di questa dinamica è ogni giorno sempre più evidente. Questo è ciò che intendo riguardo il concetto del capitale.
Non è solo una definizione strettamente economica.
No, non è una definizione economica. Piuttosto fa riferimento alla struttura e alla dinamica della coesione sociale conflittuale nella quale viviamo.
E perché la chiama la grande fragilità?
Nonostante la turbolenta fase politica attuale, il sistema, l’attuale coesione sociale di cui abbiamo parlato, sembra godere di una notevole stabilità. Non viene messo in discussione molto apertamente il fatto che noi ci relazioniamo attraverso le merci, per dire, attraverso il denaro. Però questa apparente solidità nasconde una crescente fragilità che è il risultato delle resistenze e delle ribellioni. Negli ultimi quarant’anni, il capitale si è riprodotto non tanto grazie allo sfruttamento, per dire, alla produzione di plusvalore, ma, una volta di più, grazie all’espansione del debito, per dire, attraverso la rappresentazione monetaria di un plusvalore che tuttavia non è stato prodotto. La sua base è ogni volta di più artificiale. Il capitale esige una sottomissione alla sua logica che ogni volta si fa più pesante, ma non riesce a imporla. Per questo deve costantemente espandere il debito, fingendo che il plusvalore che non è stato prodotto in realtà esiste. La nostra mancanza di una pronta sottomissione provoca la crisi del capitale e impedisce la sua realizzazione. Questo è ciò che intendo riguardo la grande fragilità del capitale. Le nostre resistenze hanno avuto un impatto perfino sul denaro, facendo in modo che si trovi costantemente sull’orlo dell’abisso. Quello che sottolineo si è manifestato chiaramente nel 2008, però mentre continua a espandersi il debito, la possibilità di un collasso è diventata un problema frequente. Questa prolungata crisi del capitale è il risultato della nostra resistenza. La crisi comporta l’intensificarsi della concorrenza tra i capitali, l’aumento delle tensioni tra gli Stati e in generale che il sistema sia più violento e instabile.
Il titolo della prefazione del libro: “Fermiamo il treno!” rimanda a Walter Benjamin e ai suoi freni di emergenza. Che treno bisogna fermare? Chi sono coloro che devono (o dobbiamo) fermarlo?
E importante capire che il capitalismo non è solamente una società ingiusta e sbagliata, ma che ha una dinamica e questa è una dinamica distruttiva che rischia di condurre la nostra specie all’estinzione. È questa dinamica distruttiva quella che bisogna fermare. Già ci sono milioni e milioni di persone che provano a fermarla: provano a fermare la distruzione della biodiversità, provano a fermare il cambiamento climatico, provano a fermare lo sfruttamento dei combustibili fossili, provano a salvare i migranti nel mar Mediterraneo, lottano contro l’apertura delle miniere a cielo aperto, ecc. Tutte queste lotte hanno una grande importanza, un’enorme importanza, però in molti casi non producono effetti concreti. Non si stanno raggiungendo gli obiettivi stabiliti riguardo la CO2, per esempio, e molti governi e molte imprese adesso stanno abbandonando le loro promesse di ridurre le emissioni nocive. Le lotte per fermare il treno, per arrestare la distruzione, sono lotte particolari, inevitabilmente, però il problema è che c’è una forza molto potente dietro la distruzione: il dominio del denaro, del profitto. Per fermare il treno della distruzione, bisogna rompere il dominio del denaro.
E crede che la gente si renda conto di quanto ha appena sottolineato?
Credo che molte persone si accorgano di ciò, però nella situazione attuale è difficile dirlo. Siamo abituati a vedere azioni spettacolari contro l’utilizzo dei combustibili fossili, però non a quelle contro il dominio del denaro. Grazie alla mia compagna ho molti contatti con il mondo dei giardini botanici, dove le persone si dedicano costantemente alla tutela della biodiversità, a fermare l’attuale massacro delle forme di vita non umane. È un mondo molto creativo, però in generale non si dice ciò che è ovvio: è la dinamica creata dal dominio del denaro quella che oggi sta distruggendo il nostro rapporto con le altre forme di vita. Bisogna rompere questa dinamica per preservare la biodiversità. A volte molti di coloro che sono coinvolti sono coscienti di ciò, però il tema del dominio del denaro e della sua abolizione rimane un tabù molto forte.
E dove viene la forza di questo tabù?
In generale non è perché ci sia una censura visibile, è che l’abolizione del denaro sembra semplicemente inimmaginabile. Come confrontarsi con questo tabù? Mi pare che non sia una questione di sensibilizzazione nei termini classici, ma bensì di travalicare i limiti convenzionali. Penso a una condizione di politica del Pd, di poscritto: “Dobbiamo fermare l’utilizzo dei combustibili fossili. PD: inoltre dobbiamo abolire il dominio del denaro”. “Dobbiamo fermare la distruzione della biodiversità. PD: inoltre, per ottenere questo obiettivo, dobbiamo abolire il denaro”. “Dobbiamo fermare l’avanzata dell’estrema destra. Pd: Inoltre, dobbiamo abolire il dominio del denaro, che genera le relazioni basate sull’odio”. Significa pensare alla rivoluzione come uno straripamento delle resistenze e delle ribellioni, uno straripamento necessario però non inevitabile. Riguardo all’immagine del treno si può dire che il capitale distrugge ma che allo stesso tempo crea.
Il capitale crea?
Il capitalismo è stato una forma di organizzazione sociale estremamente creativa. Sicuro, è stato così. Se pensiamo al Manifesto comunista, ci accorgiamo che Marx ed Engels erano fortemente consapevoli di ciò. Però mi accorgo che negli ultimi anni, c’è stato un cambiamento. La forza creativa-distruttiva del capitale è arrivata a un punto tale che ora stiamo assistendo non solo alla distruzione dell’Africa o dell’America Latina o dei contadini nel mondo, ma di tutta l’umanità. Si potrebbe dire, ad esempio, che la distruzione dei contadini sblocca un’enorme creatività per la produzione degli alimenti, ma è più difficile affermare che l’estinzione dell’umanità conduca allo sblocco di una creatività. Probabilmente stiamo giungendo a un punto critico nel quale lo scompenso tra la creazione e la distruzione si è intensificato in maniera tale che diventa evidente per tutti che dobbiamo fermare il treno, abolire il dominio del denaro e del capitale.
Lei sostiene che bisogna ricominciare da capo, però non dal confinamento, bensì dallo straripare, dalla poesia dello straripamento. A quale straripamento allude? Che poesia è questa?
Il treno è la metafora del confinamento. Siamo seduti dentro il treno e non controlliamo dove ci sta portando o come scendere. Da questo deriva l’importanza di azionare il freno di emergenza. Siamo confinati dentro il treno che ci porta verso catastrofi più grandi, probabilmente all’estinzione. O forse siamo noi il treno, che corre spedito verso il disastro, senza sapere come spezzare la disciplina del denaro che guida la nostra corsa. O, lasciando da parte la metafora del treno, il denaro stesso è un contenitore. Plasma e imbriglia quello che facciamo giorno dopo giorno, e quello che pensiamo. La speranza, la resistenza, la ribellione, la rivoluzione è un processo dello straripamento. Rompiamo incessantemente i limiti del confinamento monetario, in modo individuale o collettivo: l’amicizia, l’amore, l’ozio, la disobbedienza, ogni volta creiamo altre forme relazionali che non ricadono all’interno della disciplina del denaro. L’importante è capire che il denaro non è soltanto un contenitore che plasma le nostre azioni, ma anche un contenitore che ci sta schiacciando sempre di più.
Sempre di più?
Il confinamento monetario della vita è molto più evidente, molto più esigente rispetto, ad esempio, di un secolo fa. La vita è più stressante, il denaro penetra più a fondo in tutti gli aspetti della nostra vita. In molti casi è questo aumento dell’aggressione monetaria che ci spinge a resistere, a dire “Adesso basta!”. Abbiamo già accettato condizioni disagevoli e stressanti nel lavoro, ma adesso vogliono imporci una nuova “flessibilità” e licenziare molti nostri compagni, ma “Adesso basta!”. Adesso non lo accetteremo, non accetteremo la logica del denaro, del profitto. Comincia la lotta. Però, di fatto, è il capitale che ha iniziato la lotta con l’aumento della pressione sulla nostra attività. La lotta viene dall’alto. L’esistenza del capitale è una lotta costante per estrarre maggior plusvalore, per sottomettere in modo crescente gli aspetti della vita umana e non alla sua logica, come dire, per limitare e plasmare i nostri movimenti, i nostri impulsi, i nostri desideri, i nostri pensieri. E noi rispondiamo dicendo: “No, scusa, abbiamo altre priorità nella nostra vita, domani vado a giocare con i miei figli”. Straripiamo. Straripando, creiamo altri mondi, impariamo a scrivere poesia invece della prosa.
Lei parla di una speranza priva di certezze. Afferma che non c’è la sicurezza di un lieto fine. Si tratta di un viaggio senza la certezza di arrivare a casa. Una speranza che non spera. Che tipo di speranza è questa?
Che tipo di speranza è questa? Mi pare che sia l’unica possibile. La certezza di arrivare bene alla nostra casa comunista si è perduta con Hiroshima. La speranza non è l’ottimismo. Ora non possiamo dire che la speranza è dalla nostra parte.
Proseguo ancora su questa strada. Lei osserva che il materialismo storico suggerisce che la storia è dalla nostra parte, dalla parte delle classi inferiori, mentre l’idea di una storicità aperta lo nega. Sta facendo una critica al materialismo storico?
Sì. Oggi non possiamo difendere l’ottimismo del materialismo storico tradizionale, non possiamo accettare che nello stesso modo con cui il capitalismo ha sostituito il feudalesimo, il comunismo rimpiazzerà il capitalismo. Speriamo che sia così, lottiamo per questo, ma non sappiamo se lo otterremo. Il freno di emergenza introdotto da Walter Benjamin rompe in modo netto con la tradizione del materialismo storico. In base a questa tradizione, il treno della storia si dirige verso il comunismo. Il suo movimento è un progresso, avanza verso un lieto fine, che raggiungeremo attraverso una futura rivoluzione. Questa visione ottimista non mi convince per niente e credo che nell’attuale momento storico non ha la stessa forza di persuasione. Arrivare a un’altra visione del movimento storico fa parte del processo di ripensare la rivoluzione anticapitalista dopo i disastri del secolo passato. Principalmente Russia e Cina. Abbiamo due treni metaforici. Per il materialismo storico tradizionale è il treno del progresso; se tutto va bene, arriviamo al terminal del comunismo. Essere di sinistra o criticare la situazione attuale significa essere progressista. I governi “di sinistra” sono governi progressisti. Il progresso è un movimento che sta distruggendo le relazioni del passato: non solamente le relazioni patriarcali ma anche quelle indigene, l’agricoltura tradizionale, la relazione tradizionale con le altre forme di vita. Opporsi a questo progresso significa essere reazionario. L’altro treno, il treno della mia prefazione, il treno di Benjamin, è il treno della catastrofe. Entrambe le metafore condividono l’idea che la storia ha una dinamica, una certa direzione, ma la direzione che vediamo è totalmente opposta.
Ottimismo contro pessimismo?
Non è questione di ottimismo contro pessimismo, bensì di esperienza storica. La storia stessa ci insegna che il movimento del progresso nasconde un movimento catastrofico: il progresso attraverso la distruzione, l’imperialismo, la guerra. Un momento fa dicevamo che il capitalismo è una società enormemente creativa-distruttiva, però che la distruzione attuale e potenziale è salita di livello: olocausto, armi nucleari, riscaldamento globale. Il treno del progresso del vecchio materialismo storico si rivela essere il treno della catastrofe. Con questo cambia tutto l’orientamento, tutta la narrativa dell’anticapitalismo. L’anticapitalismo non è un movimento progressista bensì antiprogressista. Questo è ciò che sta avvenendo con lo zapatismo, con i molti movimenti contro l’estrattivismo, con i movimenti che cercano una rinaturalizzazione del mondo, un’altra relazione con le piante e gli animali, con i movimenti contro i combustibili fossili, contro il riscaldamento globale. Sono tutti movimenti antiprogressisti.
La sinistra non deve essere progressista…
Si è aperta una frattura in ciò che chiamiamo “la sinistra”, la frattura tra la sinistra progressista e la sinistra antiprogressista. Questa frattura è molto evidente qui in America Latina, forse meno in Europa. Si esprime ad esempio con l’opposizione ai governi progressisti che hanno trovato nella pratica una saldatura più profonda delle società nella logica del capitale, attraverso l’estrattivismo, le infrastrutture (il treno Maya, ad esempio), il turismo. Pensare di rompere la dinamica storica significa un cambio radicale nella tempistica della rivoluzione. Si tratta di fermare il treno qui e ora, non nel futuro. Ora non possiamo pensare a un semplice contrasto tra un futuro di emancipazione e un presente di dominazione. E molto meglio interpretare il capitalismo come una lotta senza tregua per imprigionarci, confinarci e la rivoluzione come processi continui per spezzare l’accerchiamento e straripare.
Un concetto che si ripete frequentemente nel suo libro: dignità. In cosa consiste? Cos’è la dignità dal suo punto di vista?
Gli zapatisti danno molta importanza alla dignità fin dall’inizio della loro sollevazione. È un concetto molto importante che presenta molte sfaccettature. La prima è un: “Adesso basta!”. “Ci hanno schiacciato, ci hanno sfruttato, ci hanno represso e umiliato, però la nostra dignità non ci permette più di accettarlo, adesso basta!”. Però rivela anche un principio di organizzazione. La nostra organizzazione deve basarsi sul rispetto reciproco della dignità di tutti. Questo implica un’organizzazione non gerarchica. L’unico comando accettabile è un comando che obbedisce: comandare obbedendo. Non avanziamo dando istruzioni, dicendo alle masse cosa devono fare, bensì domandando e ascoltando: camminiamo domandando. La dignità è una critica alla tradizione leninista, incluso all’idea di un partito rivoluzionario. Un partito stabilisce delle gerarchie, traccia una distinzione tra i capi e gli altri, tra i membri del partito e le masse. La dignità esige delle forme di organizzazione che promuovono lo sviluppo delle opinioni di tutti, che siano politicamente corrette o no: assemblee o altre forme comunitarie. Più che l’elitarismo rivoluzionario, il soggetto leninista è una persona limitata, confinata dentro i limiti della militanza sindacalista a meno che il partito non gli dia una coscienza rivoluzionaria. Il soggetto dignitoso non ha questi limiti.
Perché?
Semplicemente perché la sua dignità è uno straripamento, una costante negazione della negazione sociale alla sua dignità. La dignità è una resistenza e ribellione, una controparte inevitabile, anche se latente, dell’oppressione. Da qui, la dichiarazione degli zapatisti: “Siamo donne e uomini, bambini ed anziani comuni, come dire, ribelli, anticonformisti, scomodi, sognatori”. La dignità non ricade all’interno delle relazioni capitaliste. È una fonte che straripa.
Traduzione per Comune di Massimo Zincone
John Holloway ha aderito alla campagna “Partire dalla speranza e non dalla paura”:
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