A Milano la Scuola Svizzera approva un regolamento in cui si “sconsiglia” la frequenza a studenti con DSA, disabilità motorie e disturbi vari. Il fatto arriva sui giornali e suscita sconcerto, si parla di discriminazione; c’è anche, però, chi trova delle ragioni a questa scelta. Probabilmente stiamo sottovalutando la portata di parole, comportamenti e pensieri che, anche in forza della diffusione da social, si spacciano come libertà di opinione ma, utilizzando proprio gli spazi democratici, finiscono per generare esattamente una riduzione dei diritti e delle stesse libertà democratiche. Sarà il caso di porci qualche domanda.
di Anna Foggia Gallucci*
La scuola a Milano che suggerisce di non iscrivere ragazzi DSA o con disabilità non discrimina, ovviamente, semplicemente consiglia. Nonostante ciò qualcuno permane esterrefatto. Comunque la si affronti, la questione, c’è da capire di più.
Allora, interroghiamoci su un’ipotesi: immaginiamo che sia, da un po’, costume diffuso lasciar che pensieri vergognosamente discriminatori (con tutto ciò che ne deriva: anticostituzionali, antiscientifici, ecc…) trovino spazi apparentemente legittimi, perché quando nascono e cominciano ad esprimersi -magari timidamente- non si da’ loro il giusto peso, li si giustifica o li si ignora o anche li si snobba, magari perché formulati da chi ci sta vicino, e ci si dice “no, ma non è possibile! Non può fare questi pensieri, lui/lei. È una svista, capita a tutti di prendere cantonate, ora non ingigantiamo!”.
Immaginiamo anche di dimenticare spesso che ciò che esprime un valore non è a rischio cantonata, giacché il valore sei tu e non è né ovvio né spontaneo negarsi in un fluire casuale di parole in libera uscita da un cervello chiuso per ferie. Proviamo a farci domande del tipo: lo direi, io, “aiutiamoli a casa loro”? Lo direi “eh, ma se l’è cercata”? Lo scriverei “delitto a sfondo omosessuale” o parlerei mai di “razza” umana per indicare l’origine geografica?
No. Ecco. Nel mio caso posso certificare che la mia testa è di casa tra le nuvole, lo giuro, pratico non senza compiacimento voli pindarici e distrazioni ma ‘sta roba proprio non mi esce, non potrebbe, semplicemente perché dentro non ce l’ho. Quindi, si diceva: noi sottovalutiamo atteggiamenti, parole, segnali vari e nel frattempo questi pensieri (pensieri? Forse tocca parlare di bolle d’aria in circolo nei piani alti del corpo, il pensiero è tutt’altra cosa…) si covano, nutrono, crescono, diffondono, reclutano, radicano.
Pensieri antidemocratici che però degli spazi democratici approfittano per affermarsi, lavorando come cellule cancerose. Quando, ormai, il corpo sociale è pieno di metastasi, ci si interroga, stupisce, si casca dal pero, ci si indigna. Oh, mon Dieu! Ma… servirà? La domanda è sinceramente aperta, non è retorica. Anni fa una mia collega, insegnante di scuola primaria, nel bel mezzo dei comitati che contestavano il decreto (poi legge) Gelmini, tirò fuori l’idea (sigh!) di fare classi solo di bimbi con disabilità.
Fu considerato uno scivolone. Poi l’assessore della giunta di centrosinistra chiese se fosse proprio necessario pagare, ai disabili, tutti (?!) ‘sti servizi. Un collega di giunta gli rispose che forse era meglio, per risparmiare, non accettare gli stranieri, cominciavano a diventar troppi.
Ovviamente non erano razzisti, che scherziamo? Per la precisione, allora andò così: “ma, secondo te, devono essere tutti intellettuali?”. Poi la mamma (alternativa, of course) in consiglio d’istituto si lamentò che passeggiando in centro si sentivano le persone parlare di più le lingue straniere che l’italiano e “confesso che non riconosco più la mia città”.
Ma dai?! E la compagna al circolo che “si, ma i rom..” e il consigliere che “si, ma i gay…” e altri compagni e compagne, amici e amiche che “però le donne si vestono in quel modo, poi di che si lamentano se uno, poraccio…?”‘. La professoressa carinissima che “tutti ‘sti negretti, ma tutti noi tocca prenderseli?”‘, e anche qui lo sappiamo che lei ha fatto la volontaria in casa famiglia, era nel movimento pacifista, ah, ok.
Insomma, la casistica è ampia. Ormai troppo. I risultati anche sono troppi, e davanti agli occhi di tutti. Tra le varie cose che abbiamo dimenticato, noi che per professione o vocazione non dovremmo dimenticare, ce n’è una detta da Martin Luther King: “alla fine ricorderemo non le parole dei nostri nemici ma il silenzio dei nostri amici“. Insomma, chiudo gli occhi e mi figuro il momento in cui toccherà ricordare quando si poteva ancora evitare… poi li riapro e mi dico che potrebbe avere un senso che quel momento fosse ora.
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