Ci sono eventi che ignorano il circo mediatico e i suoi temi e preferiscono far incontrare tante persone comuni, in molti modi diversi, per raccontare ad esempio l’universo delle migrazioni e un’idea diversa di accoglienza. Ci sono festival pensati per legare le comunità di diversi paesi dell’Appennino. Ci sono festival promossi da piccole associazioni e reti. Il Festival delle migrazioni 2022, messo su dall’associazione Don Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa (aderente a Recosol, Rete delle comunità solidali), per la prima volta è stato dislocato in sette comuni della provincia di Cosenza, dove le comunità di origine albanese arrivarono circa cinquecento anni fa, in fuga dalla violenza turca, in terre e villaggi allora abbandonati
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Calanchi, colline aspre e brulle situate lungo le pendici del massiccio del Pollino che ovunque si ruoti lo sguardo è lì, presente, rassicurante. Si sale e si sale lungo strade che a fine estate sembrano bruciate. Si lascia la Salerno-Reggio Calabria per entrare nel mondo arbëreshë. Lungo la via, poche case qua e là. Una bella sensazione di aria pulita, profumo di mentuccia e finocchio selvatico. Le comunità arbëreshë sono di origine albanese e arrivarono in quelle zone circa cinquecento anni fa, in fuga dalla violenza turca. Occuparono terre e villaggi allora abbandonati. Soltanto nella Calabria sono circa cento gli insediamenti e la maggior parte nella Provincia di Cosenza. Rigorosamente dislocate in punti isolati e impervi, lontane le une dalle altre e separate da strade tortuose, oggi la maggior parte delle comunità conserva le molte tradizioni e riti religiosi. La lingua ha assunto una propria connotazione rispetto a quella d’origine, tanto che si calcola che solo il 45 per cento dei vocaboli della lingua arbëreshë siano di origine albanese, ma gli usi e i costumi sono gli stessi: dagli abiti tradizionali, bellissimi, alla cucina.
Ci si arriva abbastanza agilmente ora, a seconda di dove si vuole andare, c’è un’uscita autostradale relativamente vicina. Il programma del Festival delle Migrazioni che da undici anni l’associazione Don Vincenzo Matrangolo organizza ad Acquaformosa, quest’anno, per la prima volta è stato dislocato lungo tutti i territori dei Comuni aderenti all’associazione. Sette Comuni per sette tappe, sette giornate intense. Un viaggio nel viaggio tra migrazioni di oggi e di ieri.
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Prima tappa Cerzeto. Ci accoglie il sindaco, Giuseppe Rizzo, architetto nella vita privata, “Putin” nella vita pubblica. Lo chiamano scherzosamente così perché è un decisionista, uno che sa quando è il momento di porre fine alle polemiche e agire. Ha lavorato lungamente a Firenze e poi ha deciso di tornare nella sua terra d’origine. È grazie a lui se a Cerzeto è stato avviato un progetto di accoglienza (SAI, “Sistema Accoglienza Integrazione”) che attualmente occupa diciotto persone e ha permesso di dare vita a diverse attività che hanno rivitalizzato il paese. L’ostello comunale è un edificio nuovo, ampio che può accogliere circa venti persone ed è frequentato da giovani, studenti in Erasmus e pellegrini del cammino di San Francesco di Paola. Il passaggio dei pellegrini è aumentato considerevolmente negli ultimi tempi e solo quest’anno sono state circa seicento le persone che hanno transitato per i sentieri e il paese di Cerzeto, ospitate anche nelle case dei privati. Il centro di accoglienza è gestito da giovani che ogni giorno rispondono alle esigenze di circa cinquanta ospiti di diverse nazionalità che vivono nelle case del paese, gestite dall’associazione Cerzeto Solidale. L’accoglienza ha prodotto benessere alla collettività incrementando l’economia locale ed evitando così il rischio spopolamento. Una mostra fotografica inaugurata il 25 agosto, racconta per immagini la comunità di Cerzeto, tra presente e passato in un continuum suggestivo di vecchio e nuovo anche nell’ambientazione.
A sera, dopo una cena in piazza con oltre cinquanta ospiti, preparata con ingredienti locali a chilometro zero del presidio Slow food locale, il concerto. Momento topico della giornata e non lo sapevamo. A un certo punto, mentre incalzavano i ritmi delle tarantelle, sale sul palco una bimbetta ospite del SAI. Treccine colorate, abitino rosa. Con grazia e disinvoltura, come se avesse fatto solo quello nella sua – breve – vita, inizia a ballare. Balla per oltre un’ora tra l’esaltazione crescente del pubblico. È finita con un palco stracolmo di bambini e bambine che con la complicità dei musicisti del Parto delle nuvole pesanti scrivevano una delle pagine più suggestive del Festival.
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Dopo una notte in cui faticavamo a prendere sonno, con l’eco delle musiche ancora in testa e le forti emozioni di quel momento magico, ci avviamo verso San Benedetto Ullano, 1.500 abitanti, per il secondo giorno di festival. La sindaca Rosaria Amalia Capparelli ha uno sguardo dimesso, dolce. Sembra timida, parla sottovoce. Eppure la storia dell’accoglienza nasce con lei. Appena si è sparsa la voce che “la sindaca voleva far arrivare i neri”, gli abitanti hanno occupato il Comune. Sembrava una scena da film: quando arrivano Giovanni Manoccio e Giuseppe Rizzo, rispettivamente sindaco di Acquaformosa e di Cerzeto, vedono i cittadini appesi alle finestre, abbarbicati nel palazzo comunale, schierati a bloccarne l’ingresso. Rosaria li aveva chiamati per aiutarla a spiegare il progetto di accoglienza, “dato che nei loro comuni era stato avviato da tempo”. Il racconto di Rosalia si fa emozionante, la sindaca ancora oggi è visibilmente commossa nel ripensare a quel giorno. Numeri alla mano, Giuseppe e Giovanni dimostrano che accogliere è certamente utile alla collettività. “Servono materassi nuovi, case da affittare, ragazzi da assumere, scorte di cibo, qualcuno che aiuti nel sistemare le case, che sappia guidare….” e via di seguito. La cosa quindi cambia aspetto ed è finita, come si suol dire, “a tarallucci e vino”. Finalmente si può partire. La sindaca mantiene la barra dritta e con rigore avvia il progetto. È stata successivamente rieletta con l’80 per cento dei voti e prosegue il suo operato. Bello vedere San Benedetto Ullano oggi. Piccolo paesino colorato abbellito anche dal museo itinerante delle Porte narranti: una mostra permanente di artisti che hanno decorato i portoni del paese con le storie del passato e della tradizione arbëreshë. “Per sapere dove stiamo andando è bene non dimenticare da dove veniamo”.
Ci stiamo abituando alle sorprese che ogni giorno ci regalano queste comunità accoglienti, nonostante ciò veniamo colte di sorpresa dal racconto spontaneo di due anziane signore salite sul palco a San Giorgio Albanese, il giorno successivo. Ogni sera, nel corso di tutto il festival, sono state premiate delle persone che hanno compiuto gesti di solidarietà nelle comunità e quella sera, il 27 agosto, è toccato a due signore ultra ottantenni. In pieno lockdown avevano aiutato una giovane donna afghana a partorire in casa in emergenza. Il parto portava delle complicazioni serie, la donna stava male e i soccorsi troppo lontani. La vicenda si è risolta con un lieto fine grazie al loro intervento. Il pubblico presente alla premiazione ha potuto ascoltare le loro parole, una serata che svuotato di senso tanta politica xenofoba. Tra la commozione generale e con la voce rotta dall’emozione, hanno sottolineato la bellezza di questa nuova realtà dove il loro paese è finalmente rinato e rivitalizzato da questi nuovi cittadini. Il Comune di San Giorgio (1.400 abitanti) ospita infatti circa quaranta persone e la sede del SAI è nella piazza del paese. Un edificio nuovo aperto per ogni necessità e punto di riferimento dell’intera comunità. Gli ospiti vivono, come ovunque nei progetti di questi Comuni, nelle abitazioni messe a disposizione dei cittadini.
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È tutto così naturale qui, in queste realtà per lo più sconosciute dell’entroterra calabrese. Eppure durante questo viaggio itinerante, tanti gli stranieri presenti, studiosi, appassionati e attivisti di associazioni internazionali venuti a conoscere questo sistema accoglienza. Il 28 agosto a Vaccarizzo alcuni di loro hanno sottoscritto il Manifesto per una Nuova Accoglienza promosso da quattro università europee, dieci associazioni nazionali e internazionali, quattro Ong e rappresentanti delle religioni. Sarà presentato all’Unesco per candidare le migrazioni come “bene immateriale dell’umanità”, al Parlamento Europeo e alla conferenza PanAfricana che si terrà in Etiopia nel prossimo febbraio. Badara Seck, l’artista senegalese che partecipa da diversi anni al festival, ha voluto benedire questo momento con un canto rituale di buon augurio. Definire Badara Seck un artista è un termine riduttivo, la sua arte è legata a un dono ricevuto dalla nascita: essere stato nominato griot dalla sua comunità, colui cioè che ha il compito di trasmettere con la propria voce la tradizione orale degli avi. Il suo messaggio è un grido di pace, un augurio potente che arriva dritto all’anima. Tra le colline brulle del Cosentino, abbiamo avuto tutti il sentore di vivere qualcosa di straordinariamente grande. Sì, eravamo nel posto giusto.
Anche questo succede in questi luoghi, in questo festival giunto ormai verso la fine della sua undicesima edizione. Un progetto molto audace che però sin dal suo primo esordio ha riscosso un notevole successo grazie anche alla partecipazione di ospiti di spessore. La presenza consueta di Maurizio Alfano, tra i numerosi relatori presenti, con le sue puntuali analisi ha ancora una volta fornito spunti di riflessione anche a chi da anni è sensibile ai temi delle migrazioni, allo sfruttamento del lavoro e alla questione ambientale. A San Basile, la relazione-spettacolo di Mohamed Ba, artista senegalese, ha ribaltato con grazia e meticolosa precisione, tanti luoghi comuni a cui anche i più sensibili ai temi dell’accoglienza sono soggetti: il suo excursus sulle maschere diffuse sul territorio del continente africano ha evidenziato la filosofia che guida molte delle scelte di questi popoli, il rispetto sacro per la natura, la non centralità dell’uomo e soprattutto la considerazione della donna come genitrice e simbolo di saggezza infinita. La maschera dei Dogon, ad esempio, simboleggia il concetto che in “ogni uomo c’è una donna e in ogni donna c’è una donna” in quanto fonte di vita. Alla fine del festival, i numeri parlano da soli: oltre 10.000 presenze di pubblico nei concerti e oltre 600 persone presenti nei convegni e seminari. Del resto, l’associazione organizzatrice, Don Vincenzo Matrangolo, che coordina tutti i progetti territoriali di accoglienza in quest’area geografica delle comunità arbëreshë, ha una storia consolidata. L’associazione nasce nel marzo 2010 ad Acquaformosa e ad oggi conta 125 persone impiegate, di cui 85 donne, 65 a tempo indeterminato e 60 laureati. L’attuale presidente, Giovanni Manoccio è l’ex sindaco del paese e colui che ha introdotto di fatto l’accoglienza in questi territori. Dalla sua costituzione sono stati accolti nei vari progetti locali oltre 1.300 ospiti provenienti da quattro continenti (75 nazioni). In queste piccole comunità dove forte è il rispetto delle proprie origini, si accoglie sul serio. Il Festival delle Migrazioni è perciò davvero un festival nel festival dove la bellezza e la sacralità di riti antichi si contaminano con storie, saperi e paesaggi locali. È incredibile notare come la cultura arbëreshë così orgogliosamente protetta dagli eredi di Castriota Scanderberg si incontri con i nuovi abitanti di ogni dove. E si riparte da questi luoghi con il desiderio di non andare più via.
Roberta Ferruti (Recosol) ha aderito alla campagna Dieci anni e più
Un racconto bellissimo! Io ho vissuto da cronista tutte le giornate del festival ma ai miei reportges è mancato il pathos. Congratulazioni alla collega che ho avuto il piacere di conoscere e che spero di ritrovare in qualche altra occasione.
Nel mio paese ,nel crotonese la parola arbyresh e’ venuta dopo, noi ci definivamo griki, grikarbyror,come dicono gli studiosi vicini alle popolazioni del crotonese.Sono partiti spinti dalla pressione turca,e altresi’ dal rafforzamento di regimi feudali spietati, contro braccianti e contadini,protagonisti erano i proprietari albanesi,bizantini o turchi.il racconto e’ bellissima o è ritrova nel presente segni del passato. Shum uri e, Ju falli shum
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