Il senso di smarrimento di questo tempo ci costringe a capovolgere concetti e a percorrere strade inedite. Si tratta, ad esempio, di non dare più per scontato il sistema di definizioni, identificazioni e classificazioni con i quali abbiamo spesso disegnato recinti invalicabili, costruito gerarchie, eliminato sfumature. E fatto dell’identità una pietra da scagliare contro gli altri. Ai temi dell’identità e della cultura e alla tendenza a voler fare di questi concetti dei dati solidi sottraendoli alla loro natura fluida e astratta, è dedicata questa intervista a Marco Aime, antropologo
Il sovranismo, il tentativo di restituire agli Stati i poteri ceduti al mercato e alla finanza internazionale, non è altro che la versione moderna del nazionalismo. Per capire la crescita di xenofobia e razzismo bisogna partire da qui, dal «prima gli italiani», ma anche dalla consapevolezza che il grande capitale, per quanto globale, non ha mai smesso di cercare il sostegno degli Stati. Anche per questo si parla sempre più spesso del bisogno di identità: il dominio della mercificazione, ciò che trasforma le persone in cose, passa infatti anche attraverso il sistema di definizioni, identificazioni e classificazioni con cui si disegnano recinti invalicabili, si costruiscono gerarchie, si eliminano complessità e sfumature. Ma per quanto siano inventate, le identità restano sempre attive sul piano pratico e per alcuni diventano pietre da scagliare contro altri.
Ai temi dell’identità e della cultura e alla tendenza a voler fare di questi concetti dei dati solidi sottraendoli alla loro natura fluida e astratta, Marco Aime, antropologo, ha dedicato molte attenzione. Ogni identità o appartenenza, spiega in questa intervista, deve essere frutto di una scelta, non dipendere dal luogo di nascita, come vorrebbero far credere i fautori delle «radici». Una cosa è certa: questo continuo richiamo all’identità, si fonda su una malcelata idea di «purezza». E sappiamo bene a cosa ha portato in passato la ricerca di purezza.
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La strategia di chi insegue il potere è limpida: creare uno stato di tensione costruito sulla paura, in particolare dei migranti, per avere mano libera su provvedimenti che favoriscono i consensi. Per spezzare questo circuito e per non cadere nella trappola del «dipende tutto da chi sta in alto» forse si può partire dal mettere in discussione la nota «zona grigia» di cui ha parlato Primo Levi (Levi, 1986), dove tutto si confonde in una palude, dove si annuisce in silenzio? Da dove cominciare?
Direi dall’impegno individuale, che in prima battuta dovrebbe essere diretto a una maggiore conoscenza della realtà. È singolare che nell’epoca della comunicazione siamo sempre più vittime di narrazioni mediatiche, che in modo molto semplice rimodellano e falsificano la realtà. Il sempre maggiore flusso di informazioni e immagini che ci avvolge ogni giorno condiziona la nostra capacità critica. Solo ciò che avviene sullo schermo è reale. La visione del mondo passa attraverso il filtro dei social oppure della televisione. La comunicazione ha sostituito la politica e i fatti non costituiscono più una prova. Se non ricuperiamo la nostra capacità di osservare i fatti e poi analizzarli, diventiamo sempre più vittime di chi sta al potere. Il padrone conosce mille parole, l’operaio cento, per questo è lui il padrone, aveva scritto don Milani sul muro della scuola di Barbiana. Oggi direbbe che il padrone è chi conosce gli algoritmi, che noi non conosciamo.
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C’è una gerarchia culturale e politica sottovalutata che discrimina tra viaggiatori qualificati, i turisti, e non qualificati, i migranti. Questo della libertà di muoversi, perché costretti da diverse ragioni o soltanto perché lo si desidera, potrebbe diventare un terreno intorno al quale creare una diversa narrazione delle migrazioni?
I muri, sempre più numerosi, impediscono ai poveri di entrare, non ai ricchi di uscire. Esiste una diseguaglianza rispetto alla possibilità di movimento: un indonesiano necessita di un visto per 154 paesi, un danese solo per 35. Da una quindicina d’anni si assiste a una esternalizzazione delle frontiere dei «Paesi sviluppati». I visti sono controllati dalle compagnie aeree nel Paese di partenza. I Paesi di origine o di transito sono chiamati a cooperare per limitare l’immigrazione. Se si prova a rileggere l’intera storia dell’umanità, si scopre che è stata una storia di movimenti. Da sempre gli esseri umani si sono spostati in cerca di risorse. Già i primi sapiens che uscirono dall’Africa erano «migranti economici». Comprendere e interiorizzare che la cifra della nostra specie è il movimento, potrebbe aiutare a leggere con uno sguardo diverso il fenomeno migratorio attuale e capire che rientra nella normalità dell’esistenza umana.
In «Eccessi di culture» (Aime, 2004) hai utilizzato una metafora splendida a proposito dei problemi che sorgono nel momento in cui si intende fissare e rendere tangibile l’identità di un gruppo e ancor di più una nazione: «È come voler fotografare una classe di bambini che non stanno più fermi». La ricerca di identità sembra oggi orientare molti, perfino nelle culture di sinistra. Quali le possibile conseguenze?
Le conseguenze sono inquietanti: rinchiudersi nelle identità porta a scenari di conflitto e di guerra. Questo continuo richiamo all’identità, si fonda su una malcelata idea di «purezza» e sappiamo bene a cosa ha portato la ricerca di purezza nella Germania nazista. Ciò che risulta ancora più assurdo però è che questo presunto sentimento identitario a cui i cosiddetti sovranisti si richiamano, si fonda su un comune odio verso gli «altri», i diversi, ma non crea un reale senso di comunità all’interno. Si basa solo su un’avversione, spesso amplificata a colpi di propaganda, verso l’Altro. Lo slogan «prima gli italiani» punta a escludere gli stranieri (poveri), ma non ci fa certo sentire più italiani. Infatti non punta a rivalutare qualche vero o presunto elemento di italianità, ma solo a decidere chi non lo avrebbe per nascita.
A proposito di identità e sovranismi. Un autore a te caro, Édouard Glissant, scrittore e saggista martinicano, qualche anno fa ha parlato di diritto all’opacità (Glissant, 2007). Puoi spiegarci di cosa si tratta e perché oggi abbiamo bisogno di quel «diritto»?
Le barriere della diversità sono, secondo Glissant, una delle tante eredità della cultura occidentale che, con la sua tendenza all’unitarismo, ha guidato tutto il processo di colonizzazione, ma anche quello di decolonizzazione. In una intervista concessami anni fa mi disse: «Tutta la cultura occidentale ruota attorno alla problematica della comprensione: comprendere, comprendere, comprendere. Penso a Lévi Strauss e alle sue teorie sulle strutture. Per me comprendere significa “prendere con sé”. Io posso utilizzare aspetti di una cultura diversa, avere relazioni con questa cultura, anche senza comprenderla». Per Glissant è l’idea di purezza, di trasparenza a essere pericolosa: «Io rivendico il diritto all’opacità – disse – La troppa definizione, la trasparenza portano all’apartheid: di qua i neri, di là i bianchi. “Non ci capiamo”, si dice, e allora viviamo separati. No, dico io, non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L’opacità non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa. Un amico mi ha detto recentemente, che il diritto all’opacità dovrebbe essere inserito tra i diritti dell’uomo».
Perfino l’esigenza di creare comunità, dunque di ricomporre legami sociali nei territori attraverso principi di solidarietà e mutualismo, può scivolare nella costruzione di identità rigide. Una strada da seguire per evitare pericolosi scivoloni è quella dei No tav, a cui hai dedicato da sempre molte attenzioni, che sono legati al territorio ma nelle loro parole e nelle loro scelte non compare mai l’equazione terra-sangue. Come dire «valsusini si diventa», è un’adesione a un’idea fatta di molte idee. È questo un modo per reinventare il significato di «comunità»?
Esatto, ogni identità o appartenenza deve essere frutto di una scelta, un prodotto della cultura, non dipendere dal luogo di nascita, come vorrebbero far credere i fautori delle «radici». Uno degli elementi che hanno caratterizzato il movimento della valle di Susa è stato proprio il non rinchiudersi in un localismo, ma di aprirsi a tutti coloro che condividono una scelta. Purtroppo assistiamo invece a retoriche sempre più frequenti, che attribuiscono alla natura, l’origine. una presunta capacità di modellare gli individui, rendendoli così «identici» tra di loro. Di qui il verbo dell’identità, che così concepita negherebbe ogni scelta possibile nel corso delle nostre vite, in quanto predestinati dalle nostre radici.
L’impatto della crescita delle migrazioni, registrata più a livello mondiale che italiano, e dei cambiamenti climatici sembrano disegnare il passaggio di un’epoca. Si tratta davvero di smettere di difendere lo status quo, modelli di vita irrazionali, iper-competitivi e votati all’eterno consumo e allo spreco e di aprici a cambiamenti importanti qui e adesso?
Molti studiosi hanno dimostrato come tra le principali cause di guerre e migrazioni ci siano motivi di carattere ambientale. Il modello capitalistico, fondato sul concetto di sviluppo, cioè di una crescita continua, che tende all’infinito sta erodendo sempre di più l’ambiente in cui viviamo e questo causa squilibri sempre maggiori tra le diverse parti del pianeta. Se non ci si ferma a riflettere sul futuro, sempre più vicino, si va diretti verso l’orlo dell’abisso. È scomparso del tutto quel senso di responsabilità verso le generazioni future, a cui dovremmo lasciare un pianeta almeno nelle condizioni in cui lo abbiamo ricevuto. Invece l’utilitarismo dominante, la razionalità irragionevole del modello capitalista, tendono solo e sempre al maggior guadagno con minore spesa. Minore per i privati, ma maggiore per tutti noi, costretti a pagare in denaro e in salute, le conseguenze della corsa al profitto.
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I testi cui si fa riferimento in quest’intervista sono:
Levi Primo (1986), I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino.
Aime Marco (2004), Eccessi di culture, Einaudi, Torino.
Glissant Èduard (2007), Poetica della relazione, Quodlibet, Roma.
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*Docente di antropologia culturale presso l’università di Genova, è autore di numerosi libri di saggistica (tra cui Eccessi di culture e Il dono al tempo di Internet per Einaudi, Etnografia del quotidiano e La macchia della razza per eleuthera) e di alcuni libri di narrativa e per bambini. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
L’intervista è stata realizzata per la XVII edizione del Rapporto sui diritti globali.
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Franco dice
Condivido tutto perché è logico ragionare così se si vuole vivere in un mondo migliore,chiederei però un passo oltre,una proposta pratica anche se piccola e parziale, per capire che si può fare,grazie.p.s.per esempio non guardare più la televisione…..