Ordinary day. Un giorno qualunque, il quotidiano da vivere per tutt3. Senza le difficoltà in più che il nostro sistema sostanzialmente abilista crea – strutturando spazi, tempi, pensieri – modi di muoversi di studiare e di vivere in base a ciò che considera la “normalità”, una visione che tutela il privilegio degli abili e lascia fuori chi non rientra negli standard dei corpi e delle menti, sanciti come ideali.
Nell’incontro tenutosi venerdì 6 dicembre, a San Michele Salentino, voluto dal Garante dei diritti dei disabili Lorenzo Basile, ci sono state narrazioni di grande intensità di chi vive nel quotidiano la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana con una forza che sorprende, tenace e consapevole del valore dei limiti e del tempo da lasciar perdere.
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Ho sempre dato una grande importanza alle parole, alla loro capacità di creare mondi o di distruggerli. Eugenio Borgna, grande maestro di psichiatra venuto a mancare qualche giorno fa, diceva:
“Le parole sono dotate di un immenso potere: sono in grado di aiutare, di indicare un cammino, di recare la speranza, o la disperazione. Ci sono parole che curano, e ampliano gli orizzonti della speranza, e ci sono parole che feriscono e lacerano l’anima. Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé stante, ma sono anche creature viventi, e di questo non sempre siamo consapevoli nelle nostre giornate divorate dalla fretta e dalla distrazione, dalla noncuranza e dalla indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come modi aridi e interscambiabili di comunicare i nostri pensieri. Ma le parole che ci salvano non sono facili da rintracciare, faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene”.
Invecchiando ho radicalizzato la mia avversione alle parole che separano, classificano, chiudono le persone in categorie e stigmi. Anche quelle che apparentemente sono pensate per il bene. Quando insegnavo sentivo la prepotenza degli obiettivi didattici e delle valutazioni che dicevano “l’alunno è abile a…”, perché orientavano l’azione e la visione educativa a un ideale funzionale e produttivo, con poca attenzione ai differenti punti di partenza e al valore del processo che non deve necessariamente dare un risultato misurabile, un’azione escludente già negli intenti chi abile non era.
Sento l’insufficienza e l’iniquità della stessa parola “disabile”, in un sistema che disabilita facilmente chi non rientra nei paradigmi scelti come norma. Lo stesso per la parola “inclusione” che sembra la concessione di chi vive la normalità e quindi il privilegio di questa condizione considerata superiore – suprematista? – elevata a sistema, a chi si considera debole, bisognoso, inabile. Sulla parola “normalità” stenderei un velo pietoso.
Il Garante regionale ha concluso dicendo che c’è bisogno di inclusione, di noi nel vostro mondo, e di voi nel nostro.
Penso a quanto sia orizzontale la vita, intesa come orizzonti senza confini, a quanto sia vasta e diversa, a quanto siamo limitati noi con i concetti che elaboriamo, con i rapporti che creiamo, che sono spesso di forza, dei più forti che dettano leggi e barriere. A quanto la vita ci sorprenda sempre coi suoi drammi, i suoi dolori e il suo mistero, con un’altra idea di bellezza, più umile e delicata.
Penso alla disabilità invisibile, quella dell’incapacità dell’anima, di cui parlava Enzo Bosso quando diceva:
“Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono”.
Penso che dobbiamo abolire le parole usate e inventarci parole nuove che sappiano esprimere l’essere gli uni accanto agli altri, senza definirne i limiti, ma esaltando il fondo comune per ritrovare la stessa misura profonda.
A fine serata una donna che conosco mi avvicina: “Perché come Attacco Poetico quest’anno non parlate di disabilità come sapete fare voi?”. Perché no?
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