Nuovi gravissimi dubbi sono emersi sul servizio del New York Times che ha fatto il giro del mondo riguardante i casi di violenza sessuale nell’attacco del 7 ottobre. Si è scoperto, ad esempio, che l’autrice del servizio è stata assunta in ottobre e che non abbia fatto mistero dei suoi forti orientamenti personali – espressi su social e recentemente rimossi – nutriti di retoriche razziste e violente nei confronti dei palestinesi. Sarebbero da poco emerse prove sul fatto che abbia perfino prestato servizio nell’intelligence militare israeliana…

Nuovi dubbi emergono sul servizio del New York Times riguardante i casi di violenza sessuale verificatisi durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre: il quotidiano deve a questo punto ai suoi lettori una spiegazione aperta e trasparente.
Ormai, quel resoconto sulla questione è divenuto talmente discutibile da suggerire alla testata di incaricare altri giornalisti per la ricostruzione dell’intera storia. I dubbi più recenti si concentrano su Anat Schwartz, israeliana coautrice di molti dei reportage a più ampia diffusione pubblicati dal quotidiano, compreso l’ormai noto articolo del 28 dicembre scorso dal titolo Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence (Oct. 7).
Ricercatori indipendenti hanno esaminato attentamente una serie di documenti online sollevando seri dubbi sulla Schwartz. Innanzitutto, a quanto pare, non è mai stata giornalista reporter ma in realtà è una regista che il Times ha sorprendentemente assunto nell’ottobre scorso. Sarebbe lecito pensare che il quotidiano fosse alla ricerca di qualcuno con consolidata esperienza giornalistica, dovendo affrontare una storia delicata come quella in questione da produrre in mezzo alle nebbie di una guerra in corso. Di certo, la testata disponeva di corrispondenti già presenti nella sua redazione che avrebbero potuto essere assegnati al caso.
Ancora, i ricercatori hanno scoperto come la Schwartz non avesse fatto mistero dei suoi forti orientamenti personali, espressi su social. Sono stati ripresi degli screenshot testimonianti i suoi “like” espressi in post proponenti la bufala dei “40 bambini decapitati” o in cui si esortava l’esercito israeliano a “trasformare Gaza in un mattatoio”, definendo i palestinesi “animali umani”.

Sono proprio da poco emerse ulteriori prove online sul caso: a quanto pare la Schwartz ha prestato servizio anche nell’intelligence militare israeliana.

Altra curiosità, uno dei coautori di due dei reportage della Schwatz e pubblicati dal New York Times è Adam Sella, suo nipote.
Ma fermiamoci un momento. Cosa accadrebbe se il Times assumesse improvvisamente un regista palestinese senza esperienza giornalistica, che di recente avesse pubblicamente apposto un “like” a post esortanti a “spingere gli ebrei israeliani in mare” per redigere alcune delle sue inchieste più sensibili e controverse? Non dobbiamo fare chissà quali congetture. Il Times ha licenziato il fotoreporter palestinese Hosam Salam nel 2022 dopo che un gruppo di controllo media filoisraeliano aveva protestato per i suoi post apparsi sui social media.
Dopo che la storia online è divenuta di pubblico dominio, Anat Schwartz ha bloccato i suoi profili e cancellato gran parte dei contenuti incriminanti.
Il New York Times impone regole rigide ai suoi giornalisti in merito all’osservanza di criteri di formale obiettività. Essi, ad esempio, non dovrebbero partecipare a manifestazioni di alcun tipo, indossare spille elettorali o pubblicare opinioni personali sui social media. Assumendo Anat Schwartz, il giornale ha chiaramente violato le proprie linee guida e dovrebbe darne pubblica spiegazione scusandosi.
C’è poi un ulteriore esempio correlato che conferma la pasticciata copertura da parte del Times circa i casi di violenza sessuale. Una delle prime organizzazioni israeliane arrivate sulla scena dell’attacco di Hamas è stata Zaka, costituita da un gruppo di volontari che si occupano del recupero di cadaveri. Il 15 gennaio, la giornalista del Times Sheena Frankel ha redatto un profilo positivo del gruppo, includendo soltanto tre o quattro accenni critici per poi subito confutarli. Mondoweiss aveva già sollevato seri dubbi su Zaka alcune settimane prima, sottolineando come “i volontari dell’organizzazione abbiano sistematicamente fornito false testimonianze continuando a riportarle ai giornalisti per conto del governo israeliano”. Il 31 gennaio, inoltre, il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato una lunga inchiesta, evidenziando “casi di negligenza, disinformazione e una campagna di raccolta fondi che utilizzasse i morti come oggetti scenografici”. Haaretz citava un rapporto di Zaka secondo cui un suo volontario aveva visto una donna incinta assassinata con il bambino ancora attaccato al cordone ombelicale, prima di concludere che l’incidente “semplicemente non è accaduto”.
In questa fase, permangono seri dubbi su molti aspetti della versione complessiva di Israele sul 7 ottobre. Soltanto un’indagine veramente indipendente e imparziale potrebbe un giorno avvicinarsi alla verità. Nel frattempo, il New York Times deve almeno riconoscere pubblicamente i suoi errori e incaricare nuovi giornalisti imparziali per fare chiarezza sul caso.
Nota del traduttore: a integrazione dell’articolo, si segnala un thread molto articolato sul caso, pubblicato su X/Twitter
Pubblicato su mondoweiss.net e qui con l’autorizzazione dell’editore (ringraziamo Rania Hammad per la collaborazione). Titolo originale completo Extraordinary charges of bias emerge against NYTimes reporter Anat Schwartz (“Straordinarie accuse di parzialità dirette alla giornalista del New York Times Anat Schwartz”). Traduzione per Comune di Pasquale Liguori.
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