La Conferenza internazionale sul clima CoP6 a Glasgow comincia il 31 ottobre. Sui grandi media qualcuno ne parla, facendo sapere che la regina Elisabetta non sarà presente a differenza di quanto programmato. In questo articolo Paolo Cacciari spiega che sono due le linee di attacco degli oppositori alla decarbonizzazione dell’economia, una diretta e l’altra insidiosa, e che esiste un solo percorso di vero rientro delle attività antropiche nei limiti ecologici misurabile
Nella notte tra il 18 e il 19 ottobre, sulle statue nelle città di Bologna, Firenze,
Milano, Napoli, Padova, Palermo, Roma, Venezia, Verona e Torino sono comparse delle grosse maschere a forma di teschio, decorate con delle piante e con la bocca chiusa da una grossa croce nera, opera di Michele Tombolini artista in collaborazione con #ExtinctionRebellion. Il teschio simboleggia la morte del pianeta come conseguenza del collasso climatico ed ecologico
In vista della Cop26 di Glasgow, due sono le linee di attacco degli oppositori alla decarbonizzazione dell’economia: una è diretta, l’altra è insidiosa. La prima dice: i costi della transizione energetica sono insostenibili, comportano “decenni di pesanti sacrifici” – parole testuali del Corriere della Sera – “Bollette più care, nuove tasse, gravi tensioni sociali, segmenti di popolazione composti da milioni di persone che diventano di colpo più povere o perderanno, nel giro di pochi anni, il loro posto di lavoro” (Guido Tonetti, La transizione ecologica non sarà un pranzo di gala, Corriere della sera, 13/10/21). L’altra, in un perfetto gioco delle parti, risponde rassicurando: “neutralità” del carbonio zero emissione “nette” (al 2050) non significa rinunciare a tutta l’energia di cui abbiamo bisogno, ma solo trovare il modo di neutralizzare e compensare le emissioni climalteranti indesiderate. Quindi: spalanchiamo i forzieri, stampiamo Bond verdi, offriamo nuove opportunità di investimento in qualsiasi tecnologia che raggiunga il risultato, compresi il nucleare, l’incenerimento di rifiuti di ogni tipo, l’idrogeno blu (da combustibili fossili), le pratiche di compensazione della CO2 (ETS, sistemi di scambio delle quote di emissione, riforestazioni a distanza, ecc.) e le tecniche di bioingegneria (cattura e stoccaggio del carbonio sotto terra, sbiancamento delle nuvole, fertilizzazione degli oceani, ecc.). Così la magia è compiuta: la transizione ecologica smette di essere un “costo” e diventa un asset per nuovi business. La crescita diventa green, tutti ci guadagnano, nessuno ci perde. Sarà vero?
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Le soluzioni di mercato alla riduzione delle emissioni sono state inventate nel lontano 1997 con il Protocollo di Kyoto. Il meccanismo è semplice: i governi fissano un tetto di emissioni (cap) sulla base del quale concedono delle autorizzazioni (gratuitamente o all’asta) che possono essere commercializzate (trade) e/o compensate (offset) con interventi di “cattura e stoccaggio” in qualsiasi parte del pianeta. I programmi di cap and trade e offset, quindi, non impongono di ridurre direttamente l’uso di combustibili fossili, mentre consentono alle industrie (più capitalizzate) di continuare a emettere gas climalteranti pagando indennità o investendo altrove. Mettere un prezzo all’aria, all’acqua, alle sementi, al genoma… alla natura non sembra una buona soluzione. Al contrario la si riduce a merce e si consente la sua finanziarizzazione. A guadagnarci sono i rendimenti dei capitali, non la salute del pianeta.
Nemmeno la via tecnologica allo “sviluppo sostenibile” non è una novità. La si persegue da cinquant’anni chiamandola green economy, economia circolare, clean technologies, smart cities, ecc. ecc.. Ma non ha raggiunto i risultati attesi sull’intero spettro degli obiettivi ambientali. Per una semplice ragione: se i benefici che si possono ricavare migliorando l’efficienza e la pulizia degli apparati energetici e produttivi vengono impiegati per aumentare permanentemente i consumi delle merci immesse nei mercati, non vi saranno benefici ambientali. L’estrazione di materie prime (tanto di quelle consuete, quanto di quelle più rare e preziose) e la dispersione delle scorie non metabolizzabili dai cicli naturali continueranno a crescere e, con loro, la distruzione degli ecosistemi, della biodiversità, della salubrità della biosfera. In altre parole, se è certo possibile realizzare un decoupling (sganciamento della curva di crescita del valore monetario dei beni e dei servizi immessi sul mercato dalla crescita della pressione e degli impatti ambientali) relativo ad alcuni cicli e settori produttivi, non è ipotizzabile che lo stesso risultato si possa raggiungere per il sistema economico nel suo complesso. Almeno, fino a quando esso rimarrà predisposto al fine di una crescita permanente e indefinita delle merci.
Un percorso di vero rientro delle attività antropiche nei limiti della sostenibilità ecologica si misura in un modo solo: nella diminuzione dei flussi di materia e di energia (bilanci di materia e di energia) impiegati nei processi trasformativi. Gli economisti (e i politici) devono rassegnarsi: tra l’economia dei soldi e quella della natura vi è una “contradizion che nol consente”.
Grazie Paolo per aver evidenziato le evidenti contraddizioni tra le ipotesi, meglio le scelte governative per la transizione ecologica, e le leggi della vita in natura.
Ormai possiamo solo sfidarci a concepire e realizzare nostre comunità dal basso per tentare di attutire e ridurre gli effetti devastanti che i cambiamenti climatici annunciano.
La “mercificazione” di un bene o di un servizio sta a significare la sua produzione in un contesto “eteronomo”, cioè in vista di una sua cessione a terzi acquirenti attraverso una compravendita (scambio, merce contro moneta, altrimenti sarebbe un baratto) sul Mercato.
A ben guardare i problemi che oggi affliggono l’umanità, inclusa la devastazione del suo habitat, dipendono dal fatto che il fenomeno della mercificazione, e quindi la produzione di “valori di scambio”, fatalmente votata alla crescita (per interesse dei produttori e accondiscendenza, più o meno cosciente, dei consumatori) si è protratta senza sosta per troppo tempo invadendo e svuotando settori in cui prima vigeva la produzione di “valori d’uso”, attuata nel contesto “autonomo” ossia della produzione per sé, o auto-produzione, dove regna la parsimonia in quanto produrre oltre i propri bisogni o ampliare quest’ultimi con il superfluo risulta, in tale contesto, demenziale.
Oggi serve, e urge, un radicale cambiamento di rotta: la produzione di “valori d’uso” deve riprendere un suo spazio nel sistema, laddove possibile.
Il che, a prima vista, può sembrare utopico e, comunque, senza grande impatto sulle sorti del mondo.
Questo in quanto, ai più, l’auto-produzione evoca quella domestica, condannata dalla Storia, quantomeno nell’Occidente industrializzato.
E comunque, se un tale tipo di auto-produzione viene riconosciuto ed evocato, è grazie ai sociologi e altri studiosi in quanto per gli economisti che contano, cioè quelli al servizio dell’establishment, l’auto-produzione … NON ESISTE!
Essi sono riusciti (con un “trucchetto”, inqualificabile scientificamente) a far passare, al livello dell’ONU, una visione “unica” del sistema economico di ogni Paese del mondo, impostata esclusivamente sul paradigma dell’ “eteronomia” (una visione che nessun altro economista di professione, seppur eterodosso, ha osato contestare in quanto ognuno “tiene famiglia”).
In effetti (e in questo è consistito il detto “trucchetto”) gli agenti economici sono stati classificati in “Settori istituzionali” distinguendo dicotomicamente quest’ultimi in Settori “produttori” (imprese, amministrazioni pubbliche e associazioni del cosiddetto Terzo settore) e “consumatori” (le famiglie): Marché oblige!
Obbligando così gli studiosi sociali a guardare al sistema economico dal “buco della serratura” del Mercato e della sua linfa (la moneta).
Con quali effetti?
a) l’auto-produzione domestica, che dà sostentamento a gran parte della popolazione mondiale, è stata relegata.. nel folclore!
E così c’è chi si stupisce che alcune popolazioni possano sopravvivere con una manciata di dollari al giorno (che generalmente servono per l’acquisto delle sigarette del capofamiglia).
b) per quanto riguarda poi i produttori del mondo associativo, le cosiddette amministrazioni private, gli economisti dell’establishment li hanno definiti come “produttori non-profit al servizio delle famiglie”, ben guardandosi dal distinguere quelli che sono al servizio di “famiglie terze” (Enti filantropici, propriamente intesi… oggi è d’uopo specificare!) da quelli al servizio delle “famiglie dei soci”: non sia mai che quest’ultima categoria possa evocare una “auto-produzione multi-famigliare”, un concetto che, ben compreso e sviluppato nelle sue diverse prassi (le varie Mutue, operanti non solo nei servizi ma anche nei beni e dedite, altresì, alla multi-attività) potrebbe risultare potenzialmente concorrenziale nei confronti del “dio Mercato” e, soprattutto, relativizzare il ruolo della sua linfa vitale, la moneta a “corso legale” (dato che nell’auto-produzione multi-famigliare può circolare una moneta interna), il cui controllo coincide, già oggi, con quello … del mondo!
c) venendo ora, dulcis in fundo, alla produzione delle amministrazioni pubbliche, riguardante quasi esclusivamente i “servizi collettivi” (o indivisibili) erogati a prezzo zero e finanziati con la fiscalità, lungi dal considerarla come una auto-produzione (paradigma dell’Autonomia) attuata dalla collettività pubblica (comunale, regionale, statale), con il “trucchetto” dei Settori istituzionali è diventata una attività produttiva… dell’Eteronomia (!) in quanto la produzione di un Settore (pubblico, nella fattispecie) è indirizzata ad unità di un Settore istituzionale “terzo” (le famiglie).
Quindi guai a parlare, in tal caso, di auto-produzione (si tratterebbe di una bestemmia nei confronti del dio Mercato e si sconfinerebbe addirittura nell’eresia).
Detto questo, come disse un saggio:
CHE FARE?
Per quanto detto precedentemente la domanda si può formulare nel modo seguente:
Per un adeguato ritorno alla produzione di “valori d’uso”, in Occidente, da quale Collettività conviene cominciare?
Dalla a) dalla b) o dalla c)?
Senza troppo “menare il can per l’aia” diciamo subito: dalla b).
Il perché è presto detto:
a) l’auto-produzione domestica, che in Oriente, specialmente nella sua parte islamizzata, assorbe circa la metà della popolazione attiva (femminile) nazionale, va visto in Occidente come una “strada in salita” in quanto, per mancanza di know-how e di adeguati mezzi di produzione, l’interesse collettivo che caratterizzerebbe questo passaggio in contro-tendenza verrebbe ottenuto, per quanto detto, a scapito dell’interesse individuale.
Da incoraggiare (eventualmente per motivi ideologici)… ma senza contarci troppo!
c) in un mondo in cui l’Amministrazione pubblica “privatizza tutto” senza difficoltà, un’inversione di tendenza appare non solo una “strada in salita” ma una vera e propria “arrampicata di sesto grado”, considerando che chi vuole lo “status-quo” detiene l’essenziale dei mezzi di informazione (e dunque influenza in tal senso la pubblica opinione e l’azione politica).
Inoltre, se si considera che l’Amministrazione pubblica REGALA ai produttori privati perfino la gestione dell’inquinamento ambientale (chi inquina poco può vendere a terzi il diritto ad inquinare), tagliando fuori l’utente finale (dell’acqua, dell’aria ecc.) cioè la collettività pubblica: siamo molto lontani dalla presunta “auto-produzione” pubblica, fenomeno che molti imputano alla corruzione della classe politica.
Una via certamente da battere ma, se battuta da sola, senza contarci troppo.
b) Considerando che l’eccesso della produzione di “valori di scambio” comporta non solo problemi di sostenibilità ambientale ma anche di sostenibilità sociale (disoccupazione e precarietà ne minano le basi), l’individuazione di adeguate varianti di questa tipologia di auto-produzione che possano rimediare a tali problemi, pare la più opportuna via da seguire.
Una variante promettente, denominata Convivio, è stata recentemente individuata da World-Lab e, forse, altre potranno essere individuate.
L’importante è che siano, come il Convivio, economicamente viabili (non necessitino di fondi pubblici), standard, e non necessitino di innovazione (di prodotto o di processo produttivo).
Cosicché una volta realizzato un “prototipo” può essere diffusa, simultaneamente (!), ovunque coesistano risorse inutilizzate e bisogni insoddisfatti.
Trattasi, in tal caso, di una strada in discesa in quanto l’interesse comune viene ottenuto come sottoprodotto del perseguimento dell’interesse individuale (un motore efficiente e collaudato).
L’unico inconveniente risiede nella sua scarsa “moralità” nel senso che sarebbe più bello se il bene comune fosse ottenuto con il sacrificio individuale.
Pazienza!
In attesa di soluzioni più “morali” si può sempre restare sulla via attuale… ma per quanto ancora?
In poche parole: Bisogna uscire dalla civiltà industriale, che è incompatibile con il Sistema Vitale Terrestre. La crescita economica è una terribile patologia del Pianeta. Dobbiamo gestire con il minor danno possibile il passaggio a modelli completamente diversi, dove non esista più neppure il concetto di economia. L’ostacolo più grande è la spaventosa sovrappopolazione umana che affligge la Terra, che non può supportare più di 2-3 miliardi di un Primate di 70 Kg, che pretenderebbe anche di mangiare carne. Gli anni 70 del secolo scorso sono stati l’Ultima Chiamata: nessuno ha risposto.