Il nazionalismo suprematista e sciovinista di Trump demolisce ogni cosa, perfino la Nato. Il messaggio che viene da Washington è brutale quanto coerente con l’iperliberismo: ognuno si faccia i business suoi, ovviamente se ne è capace. Tutto ciò, osserva Paolo Cacciari, fa cadere i veli ipocriti con cui venivano coperte operazioni di potere gestite dalla Nato (“guerre umanitarie”, “missioni di pace”…), ma dà il via libera a un Risiko globale dove ciò che conta è solo la violenza economica e militare. Intanto cresce l’idea – anche nell’opinione pubblica – che non sia più possibile regolare pacificamente le relazioni tra i popoli e gli stati. Cosa sta succedendo? Come opporsi a questa deriva guerrafondaia? Come cominciare a organizzare la nostra disperazione? Mantenere queste domande aperte è un primo passo. Imparare a guardare il mondo non con gli occhi dei potenti è il secondo. Così, ad esempio, proprio nei giorni del video della spiaggia di Gaza rosso sangue, di Trump gangster nello studio ovale e dell’Ue che punta ad armarsi sempre di più arrivano, meravigliosamente, i curdi a indicare una strada, fatta di rifiuto delle armi e di ordinamenti democratici da rifondare dal basso con il municipalismo confederale

Ci sono due modi per pensare alla sicurezza tra i diversi popoli e paesi. Uno è la deterrenza armata secondo l’abusata locuzione latina: Si vis pacem, para bellum («se vuoi la pace, prepara la guerra»). L’altro, all’opposto, è la ricerca dell’appianamento preventivo dei motivi di conflittualità e la de-escalation militare. Il primo atteggiamento si basa sul presupposto che tra i popoli e i rispettivi stati vi sia una inimicizia ontologica insuperabile, culturale, o religiosa, o di mera volontà di potenza. L’altro approccio ritiene invece che sia possibile contemperare pacificamente ogni tipo di diversità nel riconoscimento delle rispettive ragioni, senza farsi del male.
Si tratta di due strategie politiche opposte che hanno segnato a tratti la storia dell’umanità portando ad esiti diversi. La prima è quella seguita dalle potenze imperiali e coloniali (non solo europee, ma prevalentemente europee). La seconda è quella emersa dalle macerie lasciate dal secondo conflitto mondiale con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), la nascita dell’Onu con la creazione della Corte internazionale di giustizia e molte agenzie specializzate (come l’Organizzazione mondiale della sanità, il Programma alimentare mondiale, l’Unesco, l’Unicef, ecc.). L’idea di un diritto internazionale condiviso e rispettato dagli stati ha portato ad importantissimi trattati, convenzioni e accordi, tra cui il Trattato di non proliferazione delle armi nucleare (TNP, firmato nel 1960) e vari accordi contro gli inquinamenti, per la salvaguardia dei mari, dell’atmosfera, della biodiversità. In Europa lo spirito di convivenza pacifica tra i “blocchi” occidentali e dell’Est portò agli accordi di Helsinki (1975) con la costituzione della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione tra tutti gli stati europei, gli Usa e l’Urss.
Tutta questa già fragile e incompleta impalcatura istituzionale sta da tempo traballando. L’Onu, inerte, umiliata e scavalcata dai veti incrociati delle grandi potenze nei momenti più acuti delle crisi internazionali (Palestina, Jugoslavia, Iraq, Libia e altrove) è oggi presa di mira esplicitamente dal nuovo corso della amministrazione degli Stati Uniti. Il nazionalismo suprematista e sciovinista di Trump sta inaspettatamente demolendo anche i legami storici esistenti tra gli stati del blocco atlantico. Il messaggio che viene da Washington è tanto brutale quanto coerente con l’ideologia iperliberista, competitiva e mercatista delle destre: ognuno pensi per sé, ognuno si faccia i business suoi, se ne è capace.
Tutto ciò ha, da un lato, il merito di far cadere i veli ipocriti con cui venivano coperte operazioni di potere gestite dalla Nato (“guerre umanitarie”, “missioni di pace”, rispetto dei principi democratici, ecc.), dall’altro però dà il via libera a un Risiko globale dove ciò che conta è solo la forza economica e militare che ogni stato, solo o alleato con altri, saprà mettere sul campo di battaglia. Prima commerciale, poi militare. Il risultato sarà tutt’altro che rappacificante. Altro che premio Nobel! Le relazioni internazionali tra gli stati si acuiranno, la spesa per armamenti ed eserciti crescerà ancora di più, dispotismo e militarismo prenderanno il sopravvento all’interno dei singoli paesi. In generale sta crescendo l’idea – anche nell’opinione pubblica – che non sia più possibile regolare pacificamente le relazioni tra i popoli e gli stati. Il pendolo della storia che oscilla tra pace e guerra sta di nuovo pericolosamente muovendosi dalla parte della guerra. Quasi fosse un destino inevitabile. Poco importa sapere contro chi va fatta, poiché qualunque “altro” può rappresentare una minaccia. La “cultura della difesa” è propinata dagli stati maggiori dell’esercito nelle scuole. Le università e i centri di ricerca pubblici lavorano senza distinzioni e senza vergogna per lo sviluppo delle tecnologie “duali” (leggi anche Maledetti i costruttori di morte). Come il nucleare. I principi del pacifismo vengono derisi, la non interferenza negli affari interni degli altri paesi svillaneggiata, la cooperazione internazionale abolita per decreto.
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Come opporsi a questa deriva guerrafondaia? Come fare a risollevare le ragioni e le pratiche della pace vera?
Per riuscirci servirebbe domandarci – con pazienza e rigore – quali sono oggi i principali motivi di attrito tra gli stati (le “determinanti materiali dei conflitti militari”, per dirla con Emiliano Brancaccio, Le condizioni economiche per la pace, Mimesis, 2024) e, poi, quali sono i mezzi per risolverli senza far ricorso alle armi?
Questa è la faglia politica “contro-egemonica” che segna la distinzione tra la barbarie e la civiltà, tra il dispotismo e la democrazia, o, se volgiamo dare ancora un senso alle vecchie parole, tra la destra e la sinistra.
La prima causa di conflitto è sicuramente la competizione per l’uso delle risorse del pianeta, inteso sia come accesso alle materie prime, sia come distruzione delle condizioni di vita sulla Terra. L’enorme sete di energia e di materie naturali di un sistema industriale mondiale ipertrofico condanna intere regioni del Sud globale al ruolo di “zone di sacrificio”. Rapporti commerciali iniqui, ragioni di scambio capestro e la corruzione dei governi locali completano la endemica marginalità cui è condannata la gran parte delle popolazioni del pianeta. A questo aggiungiamo i cambiamenti climatici che rendono inabitabili le fasce costiere e le aree tropicali. Tutto ciò sta generando mostruose urbanizzazioni e migrazioni bibliche all’interno dei continenti africano, latino-americano e asiatico, ma anche – in piccola proporzione – verso i paesi del Nord globale. Nel breve arco di un ventennio saremo dieci miliardi: un miliardo abiterà nell’Occidente e tutti gli altri nel resto del mondo. Una questione che non potrà essere gestita dagli xeno-guerrieri che crescono nelle curve degli stadi e siedono nelle aule dei parlamenti.
La seconda causa capace di innescare conflitti tra gli stati è l’oppressione operata in misure diverse dai governi di molti Paesi ai danni delle minoranze interne (religiose, etniche, politiche) oltre che delle persone del genere femminile, ingabbiate in ordinamenti statali autoritari e mono-identitari (leggi anche Femminismi e nonviolenza). Movimenti che sollecitano il giusto sostegno internazionale alle lotte di liberazione e di indipendenza. Mandela in Sud Africa, le Giunte del buon governo in Chiapas, le comunità dei popoli indigeni andini e oggi, meravigliosamente, i curdi ci indicano la strada da seguire e il modello ideale di ordinamento democratico per rifondare dal basso una cooperazione internazionale multilaterale e multiculturale: il municipalismo confederale (Abdullah Öcalan, Gli eredi di Gilgamesh. Dai sumeri alla civiltà democratica, Edizioni Punto Rosso, 2011).
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Non mi illudo certo che sia facile trovare soluzioni a problemi così vasti e complessi. Ma averne la consapevolezza è già un buon inizio e, soprattutto, è necessario entrare nell’ordine di idee che sia possibile dare risposte a ciascuna di queste questioni con mezzi pacifici, diplomatici, democratici, nonviolenti. Ci conforta sapere che comunque è vero il contrario: nessuna soluzione verrà da campagne militari, bombardamenti, fortificazioni delle frontiere, deportazioni e campi di concentramento.
Forse, in teoria, potrebbe nascere del bene dal crollo dell’alleanza imperiale occidentale a guida statunitense. La de-globalizzazione è una sfida anche per quelli di noi che hanno immaginato una riterritorializzazione (Alberto Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, 2020) dei sistemi di sostentamento e delle istituzioni di autogoverno delle comunità locali (leggi anche Riscoprire il territorio). Il ridimensionamento delle ambizioni e del raggio d’azione delle vecchie potenze coloniali potrebbe, forse, diminuire l’appetito dei “divoratori del mondo” (Malcom Ferdinand, Un’ecologia decoloniale. Pensare l’ecologia dal mondo caraibico, TAMU, 2024), l’abbandono di modalità d’azione predatorie da parte delle grandi imprese transnazionali, l’alleggerimento e il riequilibrio del carico antropico sui sistemi vitali terrestri. Insomma, un bagno di modestia, un’apertura alle ragioni degli altri, il rispetto e la condivisione e la presa in cura dei beni comuni naturali.
Paolo Cacciari ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
Siamo in una situazione folle: Trump sta azzerando gli equilibri che già zoppicavano.
Che fare chiede Paolo? Non sono così esperta, ma una frase mi solletica “Si vis pacem, para iustitiam” 🌸
Deriva guerrafondaia? Ma chi, Trump? Ma veramente mi pare che da quando è tornato Trump abbiamo il cessate il fuoco a Gaza e accordi in ucraina. E se i curdi han deposto le armi è proprio perché sanno che da zio Sam non arriveranno più rinforzi. Capito tutto come sempre il buon Paolo. Oppure è USAID che continua a fare miracoli?
Francamente mi sembra un tuo commento riduttivo di quello che scrive “il buon Paolo”. Ma quale pace a Gaza, il buon Trump ha già destinato migliaia di dollari per riarmare Israele e ha postato quell orribile video su come gestire la striscia, infischiandosene di milioni di palestinesi disperati e soli…per non parlare dell ucraina e del disprezzo con cui ha trattato l’ormai debole Zelensky. I curdi hanno proposto lo scioglimento del Pkk, beh a prescindere dai motivi non ti sembra una già piccola speranza? Oppure è un mondo di prepotenti narcisisti e arroganti quello che vogliamo? Se si stabiliscono le linee di riferimento e’ importante per tutti, per una maggiore consapevolezza. Oppure siamo tutti complici.
Grazie Paolo Cacciari, nel giorno più nero il Confederalismo Democratico, come quello sperimentato in condizioni terribili nel Rojava, si presenta come l’unica soluzione pacifica per una vera coesistenza tra culture, etnie, gruppi umani. Basata sulla autogestione, la lotta al patriarcato, la difesa della Natura.
Semmai riduttiva è la visione del buon Paolo. Trump bullizza zelesky, certo, ma il suo predecessore ha cancellato gli accordi di Minsk e ha evitato accuratamente qualsiasi dialogo per un cessate il fuoco. Cosa è peggio? Chi ha fatto più male agli ucraini? Ora Trump sta discutendo con la Russia non solo per risolvere la questione ucraina, ma per ridisegnare un’impalcatura di sicurezza eurasiatica di lungo termine che coinvolga anche la Cina, proponendo una graduale diminuzione, fino al dimezzamento, della dotazione militare di tutte e tre le super potenze. Mentre Biden non ha fatto altro che soffiare sulla guerra per 4 anni e opporsi sistematicamente a qualsiasi negoziato. E il buon Paolo cosa scrive? “Deriva guerrafondaia” di Trump. Fantastico. USAID colpisce ancora….
Ricordo che Trump ha diminuito di 70 miliardi di dollari la spesa militare per il 2025 rispetto al 2024. Questo è un dato oggettivo. Di fronte a questo, che credito dobbiamo dare a un articolo che parla di “deriva guerrafondaia di Trump”? Ma per favore.
Gentile Bernardo, Trump, Putin e Xi Jinping stanno facendo una nuova Yalta, disegnando un nuovo ordine mondiale? E’ una tesi sostenuta da molti e temuta da quanti temono di rimanere ingabbiati in queste nuove “aree di influenza”. Ciò comunque porterà a ridurre i conflitti armati, a ridurre le spese militari e a riprendere la denuclearizzazione? Sarebbe una cosa buona. Me lo auguro di cuore, senza ironia. Vedo solo che la loro (dei capi-condottieri delle tre grandi potenze – due e mezza, la Russia) impostazione dispotica e autoritaria, in casa propria, e neocolonialista in casa d’altri (penso all’Africa) non promette nulla di buono.
Grazie dell’attenzione, Paolo
Paolo, non sono gentile, come sai. Dici che la postura dei nuovi capi sia dispotica e sono d’accordo, ma non si tratta di una deriva, dal momento che i loro predecessori hanno fatto molto peggio. Semmai questi finalmente discutono su come uscirne. In questo momento di guerrafondaia c’è rimasta solo la UE, e solo perché è rimasta legata al potere di quei predecessori… Quanto ai curdi, gli stessi predecessori li hanno armati fino a due mesi fa… Ora i rubinetti chiuderanno e gli conviene fare gli zen… Ma il confederalismo di Ocalan non ha nulla anche vedere con ciò che hanno fatto questi generali, che hanno mandato a morire migliaia di ragazzini solo per difendere i pozzi di petrolio degli americani, mentre in occidente la sinistra arcobalenata vaneggiava (e vaneggia) di “resistenza” del popolo curdi democratico femminista ecologista eccetera. Il meglio del repertorio woke al servizio dell’imperialismo.
Comincio con i curdi. Come può essere credibile l’appello al disarmo del PKK di Ocalan recluso in mano si carcerieri di Erdogan? Questa si chiama resa incondizionata.Infatti il PKK ha chiesto il suo rilascio per costruire insieme un percorso alla democratizzazione. Intanto l’esercito turco oltre che in Turchia opera ancora in Iraq e Siria. Nn mi pare ci sia volontà di arrivare a un accordo pacifico piuttosto un escamotage per usare il carisma della storica guida del popolo curdo per annientarlo.
Per quanto riguarda la pace nn può essere slegata dalla giustizia sociale, redistribuzione delle ricchezze certamente legate ad una prassi ecologica e centralità della questione femminile. Questo nesso sempre trascurato è imprescindibile. Il lavoro e la giustizia sociale devono tornare al centro dei cambiamenti, la lotta delle classi per liberarsi e viceversa perpetuare il dominio nn è finita.