Il fallimento dell’azione dall’alto è evidente e terrificante: negli ultimi trent’anni, da quando la questione clima si è affermata, le emissioni globali di Co2 invece di ridursi sono aumentate più che nei 240 anni dal 1750 al 1990. Eppure non è vero che tutto è immobile, come racconta il libro di Paola Imperatore e Emanuele Leonardi L’era della giustizia climatica. Primo: si è aperto uno nuovo spazio politico grazie ai movimenti a partire dagli scioperi climatici del 2019. Secondo: milioni di persone hanno preso consapevolezza del fatto che i più ricchi inquinano molto più degli altri. Terzo: hanno cominciato a prendere forma risonanze e convergenze inedite tra lotte diverse, non solo quelle su clima e lavoro: il costruire comune, l’avere direzioni comuni, la capacità di mettere in comune saperi, come nel caso della GKN di Firenze, è ciò che probabilmente quelli che sono in alto temono di più. Quell’agire comune, ricorda Massimo De Angelis, è un processo fragile ma incoraggiante perché cerca di dare forma al mondo che auspichiamo, un mondo nel quale non siamo semplicemente mezzi, un mondo nel quale immaginiamo nuovi futuri e cominciamo a crearli, un mondo nel quale ognuno si riprende in mano la propria vita
Il libro di Paola Imperatore e Emanuele Leonardi L’era della giustizia climatica (Orthotes, 2023) è un testo agile che offre un importante contributo non solo per la sua lettura storica e politica della metamorfosi dell’idea di giustizia climatica, dagli anni Novanta del secolo scorso quando nascono la “governance del clima” e il sistema delle annuali Conferenze delle Parti (COP), e il 2019, l’anno degli scioperi climatici. In questo arco di tempo, numerosi sono i riferimenti ai punti di svolta, ai frame narrativi da parte del mainstream, alle tarature degli interventi regolatori al solo fine di subordinare le istanze della giustizia climatica al mantenimento di un sistema che produce ingiustizia climatica. Il libro di Imperatore e Leonardi è anche importante perché situa la condizione del nostro tempo come disincantata da quella stretta mortale tra un “progressivismo politico” — che riconosce l‘origine antropogenica del riscaldamento climatico — e il neoliberismo economico — che pone i meccanismi di mercato come il mezzo principale per la risoluzione del problema delle emissioni (problema di cui il mercato capitalistico stesso è responsabile), una stretta che ha caratterizzato questi trent’anni.
In questa parabola, descritta in maniera sintetica ma illuminante dagli autori, si è consumata una forma di governance climatica transnazionale che, nonostante le promesse, i protocolli, gli accordi, i meccanismi messi in piedi in decenni di negoziazioni tra i governi, è responsabile di un aumento massiccio delle emissioni: in trent’anni di governance, le emissioni sono aumentate di più che nei 240 anni dal 1750 al 1990, mentre avrebbero dovuto diminuire o quantomeno raggiungere un plateau. Il disincanto del movimento della giustizia climatica è quindi la realizzazione di un enorme fallimento della governance, anche se un cinico potrebbe insinuare che di fallimento non si è trattato, se per misura del successo o meno di una politica consideriamo la preservazione del capitalismo a fronte di una crisi climatica che il capitalismo non può affrontare nella sua totalità perché è esso stesso il motivo principale della sua origine. Ma dal punto di vista che mette Gaia, e la giustizia sociale e ambientale sopra il capitalismo, è un fallimento. Questo fallimento della governance, a lungo anticipata da numerosi critici nel corso degli anni, sembra ora manifestarsi chiaramente a tutti. Tuttavia, ciò potrebbe costituire il punto di partenza per una nuova fase nel movimento per la giustizia climatica.
È difficile seguire le traiettorie della governance globale del clima — anche attraverso gli occhi critici degli autori — senza sentire crescere dentro di sé un senso claustrofobico di disperazione. Eppure, dal secondo capitolo del libro si percepisce un’apertura, come se una finestra aperta lasciasse entrare aria fresca, un salto di significazione dell’inquadramento del problema da parte dei movimenti. Si apre una prospettiva, un possibile orizzonte costitutivo di un nuovo soggetto collettivo, un soggetto che crea se stesso attraverso la pluralità di una convergenza. Gli autori rilevano l’emergere di un nuovo spazio politico grazie all’evoluzione del movimento della giustizia climatica a partire dagli scioperi climatici del 2019, fino al processo di convergenza delle lotte operaie e ambientali del 2022 in Italia. Questo nuovo spazio politico è il risultato di una serie di fattori.
In primo luogo, uno spostamento della percezione dentro il movimento e della narrativa per quanto riguarda il senso di giustizia climatica. All’ingiustizia climatica vista solamente come un rapporto tra nazioni ricche e nazioni povere, tra chi inquina o ha inquinato storicamente di più e chi invece deve pagare il conto in termini di crisi climatica, negli ultimi anni si aggiunge preponderante una consapevolezza di classe, cioè il fatto che dentro ogni Paese i ricchi inquinano notevolmente di più dei mediani e dei più poveri. E allora, pensare a un nuovo modello di vita, di cooperazione sociale, necessaria per affrontare la crisi climatica passa anche attraverso la ridistribuzione delle risorse. Cosi, commentando un grafico del rapporto “Confronting Carbon Inequality” di Oxfam del 2020 che ci restituisce un chiaro senso di quali siano le diseguaglianze profonde nelle emissioni di CO2 gli autori concludono:
“a) il 50% più povero della popolazione avrebbe diritto, in una situazione di completa uguaglianza ‘carbonica’, a raddoppiare le proprie emissioni; b) il 40% mediano dovrebbe certamente rivedere il proprio modo di consumare, ma si tratterebbe per lo più di accortezze, non certo di sconvolgimenti impossibili da mettere in atto; c) chi dovrebbe letteralmente sconvolgere le proprie abitudini solo le – relativamente – poche persone al vertice della piramide dei redditi” (64-65).
Sia molto chiaro, dunque, che la transizione ecologica richiede che i poveri diventino meno poveri e i super ricchi (molto) meno ricchi! In secondo luogo, l’emergere di un movimento ecologista di massa in Francia — i Gilets Gialli — come risposta al tentativo della transizione ecologica dall’alto di far pagare il fallimento della governance climatica ai ceti medi impoveriti, ha posto un limite nella consapevolezza degli attivisti: no, non si affronta la transizione ecologica attraverso l’impoverimento ulteriore delle nostre condizioni di vita.
E allora, ci ricordano gli autori, questo è il contesto dentro il quale le ragioni del lavoro e del clima incominciano ad avvicinarsi, a ricomporsi, in un processo che supera la falsa contrapposizione tra le due, come se fossero due semplici questioni settoriali. D’altra parte, lavoro e clima, sono esse stesse due declinazioni di un campo di pratiche sociali assai più largo, cioè due temi che concernono la riproduzione sociale in senso lato dentro un sistema sociale di dipendenze dal denaro in cui viviamo di lavoro perché ci dà reddito, che ci permette di acquisire i mezzi necessari alla vita. Ma viviamo anche in sistemi ecologici perché siamo anche noi umani (inclusi i “post-umani”) terra, stelle, aria, acqua e microbiota. La vita è l’insieme che è composto dalla questione ecologica e quella del lavoro. Ma la vita passa anche attraverso le relazioni di genere, attraverso le relazioni “razziali” e migratorie, e di violenze discriminatorie e oppressive di tutti i tipi. Passa cioè attraverso i conflitti delle misure delle cose che diamo alle pratiche sociali, alle domande sui cosa, i perché, i quando, i quanto, i dove e i chi, domande le cui risposte concrete dipendono via via dalla posizionalità dei soggetti dentro la gerarchia sistemica, dai loro rapporti di forza.
Ricomposizione tra i diversi movimenti vuol dire che ogni parte si prende in carico politicamente della problematica della riorganizzazione del tutto. Si viene quindi a creare un effetto sineddoche, per il quale si usa una parola di significato più (o meno) ampio per descrivere la parte (o il tutto), ancora più generale di quello proposto dagli autori. Questi rilevano come dal 2019
“si dice ‘clima’ ma si intende ‘ecologia’, in generale: la parte per il tutto. È un modo per trasformare il movimento di lotta per il clima… in una cassa di risonanza per tutte le istanze di giustizia ambientale” (59).
Ma se è vero, e non solo auspicabile, che è in atto un processo ricompositivo tra la questione ecologica e quella del lavoro, è anche vero che la convergenza di diversi movimenti richiede di allargare il senso del tutto, di cui ogni movimento si sente parte. Si dice lotta delle donne, si dice lotta dei migranti, si dice lotta per la giustizia climatica, si dice lotta per il lavoro, si dice lotta per reddito, si dice lotta degli studenti, si dice lotta di medici e infermieri, si dice lotta dei precari, si dice lotta dei transessuali, si dice lotta delle lesbiche e dei gay, si dice lotta dei contadini, si dice lotta per la pace, si dice lotta operaia, si dice lotta dei popoli indigeni, ma si intende riorganizzazione dei rapporti di produzione e riproduzione della vita, delle forme della cooperazione sociale, cioè della riproduzione sociale in senso lato. Recuperare il senso e l’orizzonte di una trasformazione generale del nostro comune stare e produrre insieme, delle sue finalità, dei suoi modi, non è subordinare una parte al tutto, ma è condividere la creazione del tutto a partire dalle diverse soggettività, e questo è l’unico modo per superare la frammentarietà delle posizionalità e le loro contrapposizioni che da sempre si impongono dall’alto delle gerarchie di potere, e delle narrative dei media mainstream.
E allora convergenza! Cosa significa convergere? Avere una direzione comune. Nel libro gli autori ci danno un quadro della convergenza tra movimenti ecologisti e gli operai della GKN, azienda nel settore dell’automotive di Campi Bisenzio (Firenze) che è stata brutalmente chiusa nel 2021 dal fondo finanziario britannico che ne era proprietario, con il licenziamento di tutti i 400 lavoratori per mezzo di una semplice email. Il collettivo di fabbrica è stato in grado di costruire alleanze inedite con i movimenti ecologisti. Tali alleanze, non si comprendono unicamente con i principi di solidarietà tra lotte diverse, in cui un movimento scende in piazza per supportarne un altro nella sua lotta specifica. Convergenza tra lotte significa costituire un comune a partire da una situazione, cioè da un nodo di contraddizioni apparentemente irrisolvibile dentro la gabbia interpretativa e narrativa dominate. Costruire un comune è costruire un sistema di relazioni produttive e riproduttive dove una comunità plurale e porosa ripensa insieme le categorie di ‘lavoro’ e di ‘fabbrica’ dentro le sfide della trasformazione ecologica, mobilita i saperi, anche e non solo di ricercatori accademici, mette in comune risorse, crea progetti, offre proposte e progetti che possano rendere congruenti diverse istanze di lotta, partendo dal contesto in cui si trovano e le forze che hanno a disposizione. Costruire un comune è in primo luogo il rifiuto del comune corrotto, divisivo e creatore di continue gerarchie ed esclusioni che ci viene imposto come condizione della nostra cooperazione sociale. In secondo luogo, è un progetto plurale — a partire da condizioni date — di un nuovo modo di produrre e riprodurre. In terzo luogo, è un processo di fare e agire in comune che prende la forma del mondo che auspichiamo, dove non siamo semplicemente mezzi, semplici funzioni da subordinare a un fine superiore dato dal potere, ma anche fini di per se stessi. Non possiamo quindi che auspicarci la costituzione di cento, mille, un milione di processi di convergenza, processi che cercano di riprendere in mano i nodi della cooperazione sociale.
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