di Frei Betto
Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca
Stiamo vivendo qualcosa che i nostri nonni non hanno potuto sperimentare: se essi hanno conosciuto epoche di cambiamenti, noi stiamo vivendo un cambiamento d’epoca. Una cosa profondamente diversa. L’ultima volta che l’Occidente ha assistito a un cambiamento d’epoca è stato cinquecento anni fa, nel passaggio dall’epoca medievale a quella moderna.
Stiamo vivendo un’esperienza che hanno sperimentato persone che conosciamo solo per fama, come Copernico, Miguel de Cervantes, Erasmo da Rotterdam, Teresa d’Avila, Galileo Galilei, i quali hanno vissuto il passaggio dal Medioevo alla Modernità esattamente come noi stiamo vivendo quello dalla modernità alla postmodernità.
Ogni cambiamento d’epoca suscita problemi, incertezze e dubbi, a causa della difficoltà di comprendere i mutamenti di valori e di riferimenti… Ma cos’è che caratterizza un’epoca? È il suo paradigma, come il palo centrale che sostiene il tendone del circo. Il paradigma del periodo medievale, durato mille anni, è stata la religione: da qui la supremazia della Chiesa, il potere del papa di nominare re e principi, la centralità della concezione teologica della natura.
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I greci avevano già scoperto, tre secoli prima di Cristo, che la Terra era sferica e danzava intorno al sole. Ma la Chiesa adottò la cosmologia di Tolomeo, secondo cui il nostro pianeta era immobile ed era il sole a girargli intorno, passando sotto di esso di notte. Poiché infatti non conveniva alla Chiesa affermare che Dio si era incarnato in un pianeta qualsiasi, la Terra doveva essere il centro dell’universo. E d’altro canto i nostri sensi non colgono il fatto che la Terra si muova.
Finché non arriva Copernico, il quale aveva letto Paulo Freire! Perché lo dico? Perché, questo maestro dell’Educazione Popolare insegna che, quando cambiamo luogo sociale, cambiamo anche il luogo epistemico, ossia cambiamo il nostro modo di conoscere la realtà.
Se vivi a Guantánamo, guarderai alla realtà in un modo, se vai a vivere a Miami, la guarderai in un altro modo. È un principio dell’Educazione Popolare: la testa pensa dove poggiano i piedi. Se la gente non sta con il popolo, difficilmente penserà a favore del popolo.
Per questo dico che Copernico aveva letto Paulo Freire: fino a quel momento, gli scienziati avevano guardato al sistema solare tenendo i piedi sulla Terra. Copernico, al contrario, guardando al sistema solare con i piedi virtualmente sul Sole, vide tutto, scientificamente, in maniera diversa, prendendo atto che era il sole il centro del nostro sistema. E fu una rivoluzione.
Non è stata però solo la cosmologia di Copernico a determinare il cambiamento d’epoca. Bisogna ricordare anche le invasioni musulmane in Europa, con la conseguente diffusione della cultura orientale (fino all’arrivo degli arabi, nel XIII secolo, gli europei non conoscevano l’esistenza del numero zero).
Un altro fattore importante è stato quello dell’erosione dell’egemonia della Chiesa cattolica: proprio quest’anno stiamo celebrando i cinquecento anni della Riforma Protestante di Martin Lutero, iniziata con la presentazione, nel 1517, delle sue 95 tesi per la riforma della Chiesa. E infine un grande peso assumono anche le spedizioni marittime condotte dai Paesi della Penisola Iberica, con la scoperta di un nuovo continente. (…).
Il fallimento della modernità
Sono stati questi i fattori che hanno condotto al superamento del paradigma medievale, con la sostituzione della religione da parte della ragione, nei suoi due versanti della scienza e della tecnologia. E con il sorgere di un profondo ottimismo, dettato dalla convinzione che, una volta estromessa la superstizione religiosa, come sarebbe stata chiamata dagli illuministi, la scienza e la tecnologia avrebbero trovato una soluzione per tutti i problemi del mondo: le malattie, la peste, le guerre… Ma il fatto è che, guardando al passato e tracciando un bilancio di questi cinquecento anni, noi, figli della modernità, ci rendiamo conto che i progressi sono stati moltissimi – l’essere umano ha persino messo i piedi sul suolo lunare, la gente vive più a lungo, molte malattie come la peste sono state debellate – ma, ecco il problema, hanno beneficiato solo pochi.
A vivere su questo pianeta siamo oggi 7,2 miliardi di abitanti e di questi la metà, 3,6 miliardi di persone, non ha neppure accesso a diritti animali come mangiare, allevare la prole, ripararsi dal freddo e dalle intemperie. 3,6 miliardi di persone per cui è un lusso parlare di diritti umani. Si tratta di persone che passano la loro intera esistenza nello sforzo di garantirsi la conservazione biologica, di poter mangiare e dar da mangiare alla famiglia, come fanno il leone e l’elefante o un uccello che si allontana dal nido per cercare cibo per i piccoli. Si può dire pertanto che la modernità ha fallito e che ciò è avvenuto a causa del capitalismo.
È stato il capitalismo a far sì che le conquiste, reali e buone, restassero un privilegio del 10 per cento dell’umanità. Chi può godere delle grandi conquiste della medicina? I più ricchi. Chi può utilizzare i più veloci mezzi di trasporto? Ancora i più ricchi. E chi ha accesso a tutta la tecnologia della comunicazione? Sempre loro, e scandalosamente. Secondo i dati dell’ong britannica Oxfam, appena otto persone possiedono una ricchezza pari a quella di 3,6 miliardi di abitanti del pianeta, la metà dell’umanità.
La modernità è fallita. Ed è fallita perché, come evidenzia Thomas Piketty, l’autore del libro Il capitale nel XXI secolo, si registra una sempre maggiore accumulazione di ricchezza in poche mani, una brutale e crescente disuguaglianza.
Ci chiediamo allora se la modernità, con tutti i suoi progressi, non finirà per abbandonare questo paradigma della ragione, considerando che ad appropriarsene è stata la logica capitalista. Nell’economia classica, la relazione è la seguente: io, un essere umano, indosso una camicia, in funzione delle mie relazioni sociali con altri esseri umani. Quello che conta è, da un lato, l’essere umano con altri esseri umani e, dall’altro, le merci come strumenti di avvicinamento, di socialità, di comodità. Ma ora i termini si sono invertiti: non più essere umano-merce-essere umano, ma merce-essere umano-merce. La marca della mia camicia deve far sì che gli altri vedano che valgo perché indosso una merce di valore. In altre parole, se vengo a casa tua a piedi, ho un valore “Z”, se vengo con l’ultimo modello di Mercedes Benz, ho un valore “A”. La persona è la stessa, ma è la merce a decidere che valore ha come essere umano. Il che significa che, nella nostra cultura, un uomo o una donna che vivono in strada – in Brasile ve ne sono moltissimi, in attesa che qualcuno dia loro una moneta o un pezzo di pane – non hanno alcun valore. Sono esseri umani, frutto di una relazione d’amore tra due persone, ma non hanno valore perché non sono rivestiti di alcuna merce. E non hanno valore neppure per lo Stato capitalista. Uno Stato che ha due braccia: quello amministrativo, quello per cui chi vive in strada non vale nulla, e quello repressivo, che entra immediatamente in azione allorché chi vive in strada, mosso dalla fame, rompe la vetrina di una panetteria – una proprietà privata, e la proprietà privata è sacra – per mangiare qualcosa.
Si tratta di un capovolgimento completo: nella teologia classica di San Tommaso è questa persona che ha fame a essere sacra, mentre, nella logica capitalista, a essere sacra è questa panetteria, questo negozio, che non può essere toccato neppure se una persona ha fame.
Il futuro sarà il seme che piantiamo
Il futuro sfida ciascuno di noi, perché la storia non è già stata scritta: la storia del futuro sarà il risultato di quello che noi facciamo oggi, nel presente.
Questo vale per le nostre vite personali e per le nostre vite sociali. Quello che sarà il futuro è il risultato del seme che stiamo piantando oggi, e dobbiamo chiederci che seme sia, quale raccolto ci si aspetti, che tipo di umanità e di mondo si pensi di costruire.
Quale sarà il paradigma della postmodernità? Vorremmo che fosse la globalizzazione della solidarietà, anziché l’attuale globocolonizzazione, l’imposizione del modello consumista ed edonista delle società capitaliste. Dobbiamo lottare per tale obiettivo, ma non sarà un compito facile. Perché le nostre forze sono scarse rispetto a quelle di chi vuole che prevalga il paradigma del mercato, quella mercificazione di tutti gli aspetti della vita umana e della natura così appropriatamente denunciata da papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, il primo documento papale della storia della Chiesa sul tema socioambientale. Un’enciclica che il filosofo e sociologo Edgar Morin ha definito come il documento più avanzato nella storia dell’ecologia, in quanto, a differenza dei precedenti, non si limita solo a indicare gli effetti della degradazione ambientale, ma affronta anche e soprattutto le cause.
Se il mercato si impone come paradigma della postmodernità, per l’umanità non c’è più futuro. E oggi sappiamo che tutto è in funzione del mercato, l’unico ente che è senza frontiere, che non ha bisogno di passaporto, che non deve chiedere permesso per entrare non solo in qualunque Paese e in qualunque casa, ma anche nella nostra coscienza e nella nostra cultura.
Per questo, se ciascuno di noi è chiamato a rispondere alla domanda sul tipo di mondo che vuole lasciare alle future generazioni, può farlo solo in due modi. Può dire: “non mi importano le generazioni future, voglio solo godermi la mia vita”. Ma in questo modo, abbracciando un’opzione egocentrica, antietica e criminale, difficilmente sarà una persona felice, perché la felicità esiste solo per chi rende felici gli altri. E non si tratta di un’opzione: si è totalmente preda del neoliberalismo – che ci vuole convincere che la cosa più importante è la nostra vita personale – totalmente addomesticati dal sistema.
E poi c’è l’altra alternativa: “intendo costruire un mondo per tutti“. Quando finii in carcere, sognavo che il mio tempo personale sarebbe coinciso con il mio tempo storico, come avvenuto a Fidel e a Raúl. È molto raro che si possa avere un sogno, vivere la realtà di questo sogno e sopravvivere come hanno fatto loro. È molto raro! Non esiste un altro leader rivoluzionario nella storia a cui sia accaduto quanto avvenuto a Fidel. Oggi la penso come Che Guevara: devo essere un seme affinché altre generazioni possano avere un raccolto. Questa è la disposizione rivoluzionaria di oggi: fare della vita un seme perché gli altri abbiano vita.
Gesù lo ha detto nel Vangelo di Giovanni: che era venuto perché tutti avessero vita, e vita in abbondanza e pienezza. E ha incontrato una morte precoce per dare vita, perché altri avessero vita.
Gli errori dei Paesi progressisti
Noi oggi viviamo all’interno di questo mondo globocolonizzato e dobbiamo analizzare per quale motivo l’esperienza socialista sia fallita in Europa Orientale. Sono stato quattro volte in Unione Sovietica e oggi mi chiedo cosa stiano facendo quei compagni che mi guardavano dall’alto in basso come se io, in quanto credente, non fossi sufficientemente rivoluzionario: staranno lottando per il socialismo o si saranno adeguati al sistema capitalista?
Non era quello il socialismo che vogliamo, perché non aveva radici. E neppure il socialismo della Cina, dove un’economia capitalista si è unita a un governo teoricamente socialista. Resta Cuba.
A volte mi chiedo se voi cubani siete consapevoli dell’importanza storica di questo Paese come simbolo per tutti i militanti della speranza del mondo, e non parlo solo della sinistra, ma di tutta la gente che sogna un altro mondo possibile. Cuba è un riferimento.
Se il socialismo fallisse a Cuba, l’unica alternativa sarebbe un futuro capitalista, che è il presente dell’Honduras, del Guatemala, di nazioni segnate da un alto livello di violenza, miseria, povertà, disuguaglianza. Negli ultimi anni, in questo blocco che chiamiamo America Latina e Caraibi, sono sorti molti governi progressisti (e in questo Cuba ha avuto un ruolo ispiratore): in Argentina, Ecuador, Bolivia, Brasile, Paraguay, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Venezuela. Ma, sebbene si siano registrate molte conquiste importanti, ora si assiste a una crisi, a una impasse.
Prendiamo il caso del Brasile: se gli anni dei governi di Lula e Dilma sono stati i migliori di tutta la storia del Paese, sono stati però commessi anche grandi errori. Per prima cosa, non è stato cambiato il paradigma di sviluppo. Alla scuola primaria si apprende che il Brasile è stato storicamente una nazione esportatrice di materie prime, cominciando dal pau brasil (un albero della famiglia delle Fabaceae, ndt) che ha dato il nome al Paese, per finire allo zucchero, all’oro, al caffè. E lo è ancora. L’unica cosa che è cambiata è che adesso non le chiamiamo più materie prime, ma commodities.
I nostri governi progressisti hanno commesso il grave errore di confidare eccessivamente su una congiuntura internazionale caratterizzata dall’alto prezzo di queste commodities (il Venezuela, per esempio, non immaginava che il prezzo del petrolio sarebbe crollato, incidendo pesantemente su tutta la sua economia). Un quadro, questo, in cui risultava più economico importare merci dalla Cina che fabbricarle al proprio interno, con la conseguenza che in alcuni Paesi, come il Brasile, si è registrato un devastante processo di de-industrializzazione, con relativa chiusura di fabbriche e perdita di posti di lavoro. Così, i prodotti che prima fabbricavamo noi ora dobbiamo acquistarli fuori.
Ma c’è un secondo errore. Immaginiamo una famiglia povera che vive in una baracca di legno di una favela di Rio de Janeiro: nella sua baracca la famiglia dispone di computer, cellulare, frigorifero, televisore, forno a microonde, ma vive pur sempre in una favela, non ha una vera casa, non ha accesso alla salute, all’educazione, al trasporto, alla cultura, alla sicurezza. I nostri governi, insomma, hanno commesso l’errore di dare la priorità all’accesso delle persone ai beni personali, quando avrebbero dovuto invece seguire l’esempio di Cuba, privilegiando, in primo luogo, i beni sociali: educazione, salute, alimentazione, casa… Perché, in mancanza di accesso ai beni sociali, è assai difficile raggiungere un livello sufficiente di qualità di vita solo con i beni personali, soprattutto nel quadro del modello consumista e neoliberista, considerando per esempio che un cellulare diventa vecchio già dopo un anno. Così funziona il mercato: chi sta dietro al mercato ha bisogno che quanti hanno la possibilità di spendere acquistino sempre nuovi modelli dello stesso prodotto, ai fini del mantenimento del sistema.
Il terzo errore è che non abbiamo promosso l’alfabetizzazione politica del popolo. È venuto meno il lavoro, che qui porta avanti il partito, e anche il Centro Martin Luther King, di formazione ideologica e di organizzazione popolare.
Voi sapete che la neutralità non esiste: se io non vengo educato a una concezione solidale, altruista, socialista, significa che la mia formazione avverrà all’interno di una prospettiva individualista, egocentrica, consumista. Se l’apparato di formazione, o, piuttosto, di deformazione ideologica, è di gran lunga più potente dei nostri piccoli sistemi di educazione politica, bisogna ciononostante impegnarsi in tal senso, perché ciascuno di noi, nel suo cuore, ha dei valori ed è a partire da questi che imprimiamo una determinata direzione alle nostre vite. Solo la nostra coerenza con tali valori ci rende felici.
Torniamo all’esempio del Che: era in pace con la storia, aveva vissuto il successo della Rivoluzione Cubana, era sopravvissuto alla Sierra Maestra, era ministro del governo di Cuba; avrebbe potuto restare lì e magari essere ancora vivo, alla guida del governo di Cuba insieme a Raúl. Ma, come un San Francesco d’Assisi della politica, rinunciò a tutto per dare la propria vita affinché altri avessero vita. Prima va in Congo, poi in Bolivia, dove muore a 37 anni, sicuramente felice, perché a renderci felici è la motivazione interiore, sono i valori che ci portiamo dentro e non il denaro, né la funzione che esercitiamo. Ciascuno, durante la sua vita, risponde a questa domanda ontologica: la mia vita è soltanto per me stesso o è perché anche altri abbiano vita?
I nostri governi hanno ottenuto dei successi che è importante ricordare, ma più importante ancora, adesso, è correggere gli errori che sono stati commessi. Se il Brasile è oggi una nazione governata da un golpista di nome Temer, vuol dire che dobbiamo fare autocritica. Non so se in Unione Sovietica si sia fatta autocrítica, ma Dio non voglia che un giorno mi trovi a incontrare cubani che dicano di dover fare autocritica per il fallimento del socialismo a Cuba: sarebbe la fine di tutta la speranza storica dell’umanità.
Dobbiamo fare autocritica prima che fallisca ciò che avrebbe avuto la possibilità di avanzare. Non abbiamo promosso l’alfabetizzazione politica e ideologica perché pensavamo che il solo fatto di stare sotto un governo progressista rendesse le persone progressiste. È come pensare che a Cuba chiunque nasca sia, naturalmente, socialista. Non è vero. Ogni bambino cubano è naturalmente capitalista, perché, come diceva Lenin, l’amore è un prodotto culturale, è frutto di un’educazione.
Se hai un neonato in casa, sai bene che alle 3 di mattina, quando hai bisogno di dormire, egli avrà fame e vorrà il latte, e piangerà per averlo, indipendentemente dalla tua stanchezza e dal fatto che dovrai andare a lavoro, finché la sua richiesta non verrà soddisfatta. Per questo il sistema capitalista ha tanta forza: perché risponde a ciò che di meno umano c’è nella nostra natura.
All’interno del contesto latinoamericano e mondiale di egemonia del mercato e del capitalismo, di crisi dei governi progressisti, come si presenta Cuba agli occhi di uno straniero che viene in questo Paese da 37 anni, condividendo molti momenti di difficoltà, soprattutto durante il Periodo Speciale, e conservando sempre una vicinanza profondamente fraterna a Fidel e Raúl?
Una volta, durante gli anni ’80, chiesi a Fidel se avessi potuto rivolgere una critica alla Rivoluzione ed egli mi rispose: «Tu, Betto, non solamente hai il diritto, ma hai anche il dovere di rivolgere le critiche che ritieni opportune». E da quel momento mi sono sentito molto a mio agio in questo Paese nel dire le cose in maniera chiara, senza eufemismi.
Cuba attraversa ora una fase di trasformazione, all’interno di questo contesto mondiale. Tant’è che, fuori dall’isola, le persone mi chiedono se, con tutti i cambiamenti in corso, l’apertura al capitale straniero, le relazioni con le transnazionali, Cuba non si trasformerà in una mini-Cina, sposando un’economia capitalista con un governo socialista (lo chiedevano anche dopo la caduta del Muro di Berlino, quando tutti parlavano di effetto domino e affermavano che Cuba sarebbe caduta subito dopo, e invece ha resistito, anche se non ho incontrato nessun capitalista disposto a riconoscerlo). Io rispondo di no, per due ragioni. La prima ragione è che questo Paese sta cambiando il proprio modello economico, ma è un errore pensare che stia uscendo da un’economia socialista per entrare in un’economia capitalista. In realtà, Cuba esce da un’economia statalizzata in direzione di un’economia popolare. La distinzione è semplice: in un’economia statalizzata, lo Stato fornisce tutto, mentre, in una popolare, lo Stato è, sì, fornitore, ma non interamente, perché ci sono anche imprenditori privati, cooperative, forme di economia solidale…, e molte altre forme che vanno crescendo dal basso verso l’alto.
Economia popolare nel quadro del socialismo significa che i protagonisti di questo processo devono avere uno spirito socialista molto radicato. Io dico sempre che il socialismo è il nome politico dell’amore. Quando ami la tua famiglia, non neghi ai tuoi figli da mangiare e da bere e tutti, benché diversi, hanno uguali diritti e uguali opportunità. Così deve essere per un popolo.
Fidel un giorno mi disse: «Abbiamo commesso l’errore di dare alla gente l’impressione che la Rivoluzione sia come una mucca con una mammella per ogni bocca». Così la gente aveva cominciato a pensare: «se vado a lavoro guadagno, se non vado guadagno ugualmente». Sono alcuni vizi legati alla creazione di questa tremenda dipendenza.
Ora no, ora assistiamo al protagonismo economico della gente, del popolo cubano con la sua creatività, con la sua capacità di iniziativa, con la sua capacità di inventare meraviglie dal niente – tutti gli stranieri che arrivano all’Avana si meravigliano nel vedere quelle auto che io guardavo quando avevo 6 anni -, un popolo che ha resistito a tante aggressioni e che resiste ancora… Ora la palla è vostra: per quanto il governo, malgrado tutte le difficoltà, possa incontrare le migliori soluzioni economiche per il Paese, siete voi che dovete prendere una decisione etica: trarrò beneficio da questo protagonismo per me o contribuirò a creare una cultura etica? Perché non c’è dubbio che il danno provocato dalla corruzione nei nostri governi progressisti sia irreparabile.
Ricordo Fidel quando diceva che un rivoluzionario può perdere tutto: può perdere la libertà andando in carcere e la famiglia andando in esilio, può perdere la salute ammalandosi e la scolarità non potendo seguire studi universitari, può perdere il lavoro, facendosi cacciare in quanto rivoluzionario, e persino la vita, ma solo una cosa non può perdere: l’etica. Non c’è via di uscita se un rivoluzionario perde la morale, se passa ad agire senza etica, a volte addirittura a nome della Rivoluzione, sì, a nome della Rivoluzione, perché ci sono persone che sono d’accordo con il processo non perché siano rivoluzionari, ma perché ne traggono profitti personali, esattamente come nella Chiesa vi sono molti vescovi e preti che sono lì non perché siano convinti e abbiano fede, ma perché risulta per loro conveniente.
Sono stato due anni nel governo Lula come consigliere speciale del programma Fame zero, e ho scritto due libri, La mosca azzurra, pubblicato anche a Cuba, e Calendario del potere, dove ho evidenziato quanto sia stata illuminante l’esperienza del potere. Per esempio, pensavo che il potere cambia le persone e invece ho scoperto che non è vero: il potere non cambia nessuno, fa solo sì che la persona si riveli per quella che è. Vale a dire che quella persona era già arrogante, egoista, autoritaria, oppressiva, ma non aveva ancora la possibilità di mettere tutto questo in pratica. Tutto è sintetizzato in un detto spagnolo: se vuoi conoscere Juanito, dagli una carica.
Il potere fa questo. Ma il potere è questo: mettersi anonimamente al servizio di una causa di liberazione nel Congo e poi in Bolivia, come ha fatto il Che.
Quando ci si identifica con la propria funzione, e non importa di quale funzione si tratti, non parlo solo di coloro che stanno al governo, alla guida di un partito, no, parlo anche della direttrice di una scuola, del direttore di una banca, di un vigile urbano…, se la gente non viene educata a questa dimensione di servizio, il capitalismo arriva e con il suo potere di persuasione impedisce che un giorno l’umanità possa essere come una famiglia, dove persone con diversi livelli di intelligenza, e talenti e doni distinti, hanno tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità. È così che un giorno deve diventare l’umanità. Ma per ottenerlo ci vuole un progetto storico.
Cosa dobbiamo fare quotidianamente per raggiungere tale scopo? Calzare i valori socialisti, che sono gli stessi valori evangelici. Esattamente la stessa cosa. Tutto il vangelo si riassume in due valori: quello dell’amore per quanto riguarda le relazioni personali, e quello della condivisione per quanto riguarda le relazioni sociali. Per questo dico che il socialismo è il nome politico dell’amore.
Noi cristiani preghiamo il Padre nostro, e chiediamo il nostro pane quotidiano. Dio è padre nostro, non mio, e lotto perché il pane sia un bene di tutti, non solamente mio; per questo un credente che non sia disposto a condividere e a lottare per una società in cui si condividano i beni non dovrebbe pregare il Padre nostro. Un credente del genere vive in una menzogna: egli crede in un idolo, un dio creato nella sua testa per giustificare la sua posizione anti-etica. Perché la preghiera di Gesù riguarda il Padre nostro e il pane nostro, il fatto cioè che tutti abbiano il necessario per la vita.
Termino con questa frase che poi dirò di chi è. «Sono i comunisti che la pensano come i cristiani. Cristo ha parlato di una società dove i poveri, i deboli, gli esclusi, siano loro a decidere. Non i demagoghi, non i barabba, ma il popolo, i poveri, che abbiano fede nel Dio trascendente oppure no, sono loro che dobbiamo aiutare per ottenere l’eguaglianza e la libertà». È quanto ha affermato papa Francesco nell’intervista concessa a La Repubblica l’11 novembre 2016.
Ed è curioso. «Sono i comunisti che la pensano come i cristiani»: è chiaro che, molto prima che ci fossero comunisti, vi furono, in tre secoli di Impero Romano, cristiani rivoluzionari che provocarono il crollo dell’Impero. Cristiani che non solamente condividevano i loro beni, ma che lottavano anche contro un potere oppressore, che era l’Impero Romano.
E finisco dicendo un’ultima cosa. Non c’è distinzione tra credenti e non credenti, se gli uni e gli altri hanno come scopo l’amore, anche per i nemici. Attenzione, però: amare i nemici non significa concordare con essi o sostenerli. Amare il nemico è sottrargli gli strumenti che gli permettono di essere un oppressore e restituirgli la dignità umana. Far sì, per esempio, che Trump si guadagni il salario lavorando! Perché, se Nerone ha dato fuoco a Roma e Hitler all’Europa, questo pazzo vuole ora dare fuoco a tutto il mondo. E noi non possiamo permetterlo.
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* Testo preparato per un intervento a un’iniziativa promossa in aprile dal Centro Martin Luther King a Guantanamo. L’articolo è stato scelto e tradotto da Claudia Fanti per Adista e volentieri condiviso con Comune.
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